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una recensioneoltre la lavagna

20/12/2015

Annamaria Palmieri, "Maestri di scuola, maestri di pensiero"

di Rosanna Angelelli

Il titolo del saggio riassume bene le competenze e gli interessi di Annamaria Palmieri  [1], che le consentono di parlare a tutto tondo di maestri di scuola dal particolare rilievo letterario, attivi nel secolo scorso subito dopo la costituzione dell’Italia repubblicana e democratica.
L’angolo di visuale è molto peculiare: l’autrice anziché delineare il profilo e il ruolo del maestro attraverso i riferimenti alla storia dell’istituzione (riforme, provvedimenti politici, leggi ecc.), si serve delle narrazioni di tre scrittori che furono insegnanti e scrissero di scuola. Sotto questa prospettiva l’argomento del libro non è nuovo, mentre è graffiante la scelta degli esempi. Come l'autrice spiega nella “Presentazione”, dalla fine dell’Ottocento si è consolidata una consuetudine di scrittura sulla scuola e per la scuola tale da aver costituito un proprio genere narrativo, con esempi più o meno autobiografici, ora ironici ora edificanti, ora dissacratori fino a forzare la complessità della professione insegnante entro fiction di maniera di notevole successo cinematografico e televisivo.
Invece è interessante che Palmieri abbia scelto i suoi esempi da Pasolini, Sciascia e Mastronardi, autori significativi della nostra letteratura non solo per l’attrattiva delle loro scritture, ma anche per la “scomodità” delle loro idee, oltretutto destinate a essere celebrate in modi ed esiti diversi.

Di Pasolini il ricordo è ancora vivissimo, sebbene, data la sua perturbante complessità, oggi se ne faccia una divulgazione massmediatica piuttosto convenzionale, a partire da una limitazione dei suoi numerosi “territori” di vita e percorsi culturali. In sostanza si privilegiano l’arrivo e la permanenza dello scrittore a Roma piuttosto che la sua nascita a Bologna, i continui spostamenti a causa della professione del padre e della guerra tra Veneto e Friuli, l’attaccamento alla cultura friulana ecc., trascurando così le caratteristiche composite del giovane artista, un precoce confinato/sconfinato. Ma con Palmieri non si corre il rischio di questa semplificazione, data la cura minuziosa di citazioni e di testimonianze che lei pone per ricostruire il profilo del maestro “mirabile” innanzitutto all’interno di una produzione artistica giovanile piena di interessi e di segreti.
Della vis civile di Sciascia ci sembra invece si stia affievolendo la memoria, che si sia riposto quell’occhiale storico-sociologico da lui inforcato per meglio leggere la “sua” Sicilia come un ombelico esemplare delle disfunzioni dell’Italia tutta. Ma anche qui Annamaria Palmieri ha il merito di ridare spessore all’autore ricostruendo con grande finezza filologica la storia di quella documentazione concreta redatta da Sciascia del suo essere stato maestro (registri, relazioni, circolari, scartoffie), che costituì  i dati d’archivio per le "Cronache scolastiche", il racconto di scuola inserito nelle Parrocchie di Regalpetra.
Di Mastronardi, infine, il ricordo si è quasi spento: chi lo conosce tra i giovani studenti del nostro Paese? Eppure, la sua trilogia su Vigevano (un altro ombelico, questa volta collocato nelle brume laboriose del Nord) nei primi anni Sessanta fu l’equivalente narrativo più immediato e più “popolare” di quello sgomento che Carlo Emilio Gadda avrebbe manifestato per la devastazione ambientale della Brianza, e Luciano Bianciardi per il mercato editoriale a Milano.

Le testimonianze professionali dei tre autori non sono rese soltanto in modo diretto, perché Palmieri le filtra traendole dalle loro narrazioni d’arte: allora la documentazione diventa prismatica e rifrattiva, con rimandi continui tra la cronaca reale del vissuto dei tre autori, la finzione letteraria e i potenziali feed back dei lettori, in un gioco molto complesso e stratificato di cui Palmieri riesce a tenere sapientemente le fila.
Per esempio, i territori in cui i tre scrittori hanno lavorato e influenzato le loro identità letterarie hanno una importanza assoluta. Ma perché? Non solo per essere il teatro del loro processo di vita da confinati a sradicati a indignati, ma anche e soprattutto perché lo stare a scuola acquista un senso, anzi il senso, solo se vissuto in una specificità ambientale dove si spera possa instaurarsi un cambiamento. Le scuole che i tre frequentarono come insegnanti dopo aver fatto esperienze formative molto diverse, appartenevano a quell’Italia difforme e lacerata degli anni Cinquanta, uscita da una orribile guerra con un progetto difficilissimo da realizzare: innanzitutto dare profilo democratico e rispettabilità a uno Stato nuovo. Non a caso le prime esperienze di maestro di Pasolini avvennero in forme private e filantropiche, mentre le culture contadine e operaie chiamate al cambiamento non si emanciparono con l’aiuto di una borghesia illuminata diffusa.



Superstizioni pregiudizi diffidenze provenienti dall’analfabetismo furono in un certo senso coperti e protetti da una cultura clericale rassicurante. Le seduzioni e gli incantesimi primitivi, arcaici, di un passato povero ma più ordinato e schietto, insieme a un indubbio benessere economico appaciante dei contrasti più radicali, non solo resero il cambiamento lento e ambiguo ma ovattarono le pulsioni radicali dell’immediato dopoguerra: ateismo, materialismo, esistenzialismo ebbero in Italia entrature e destini molto difficili. Il progresso imitato, importato dai paesi anglosassoni o vagheggiato dall’Unione Sovietica, non venne interpretato, adattato, ma si sovrappose ad antiche incrostazioni di mentalità e cultura passatiste.
In questo modo ciascun intellettuale, anche politicamente impegnato in partiti progressisti, avrebbe pagato di persona la propria libertà di vita e di espressione, massimamente se legato alla scuola, come accadde ai nostri tre scrittori, sebbene la loro permanenza scolastica sia stata frammentaria. La scuola del dopoguerra dovette affrontare la formazione di una unità culturale e linguistica, che si prolungò alle soglie degli anni Settanta tra mille difficoltà, basti pensare all’ostruzionismo che venne fatto alla riforma della nuova Scuola Media Unificata. E alla scuola-istituzione, alla fine, i tre autori dettero poca fiducia.

Se di Pasolini si conoscono per sommi capi gli errores (nel senso più ampio del termine, “sbagli” e insieme “vagabondaggi” di un intellettuale inorganico per temperamento), questo saggio è prezioso per la minuziosa (e colta) ricostruzione delle loro cause e dei vari passaggi esistenziali e culturali della sua vita di uomo, di insegnante e di scrittore. Nella prima parte del libro a lui dedicata ( “Il maestro mirabile”) Annamaria Palmieri applica le sue competenze di appassionata studiosa di letteratura seguendo Pier Paolo dai primi approcci professionali da maestro privato a Versuta, all’errore che determinò lo scandalo - per quei tempi inaudito, e anche per l’oggi- di amare sessualmente un proprio studente, il processo, la condanna e il suo fuggire dal Friuli per rifugiarsi a Roma.
Questo tema così imbarazzante viene trattato con tutta la delicatezza possibile sulla base di varie testimonianze, dell’autore e di altri, amici e intellettuali suoi corrispondenti, e anche attraverso vari inediti letterari. Seguendo la genesi di “Amado mio”, il romanzo in cui Pasolini confessò il suo errore, pian piano si capisce il tentativo dello scrittore di incanalare le sue emozioni in un progetto pedagogico di profonda trasformazione innanzitutto del sé, e poi della mentalità di quei giovani con cui sarebbe venuto in contatto. Man mano confessione esistenziale e sublimazione letteraria, insieme a una lettura sempre più negativa della modernizzazione-truffa che stava avvenendo a Roma e in Italia spinsero Pasolini a teorizzare un progetto educativo quasi profetico che ne accentuò la distanza dall’istituzione. Pasolini, figlio di una maestra da lui amatissima e maestro amatissimo lui stesso, è “coperto” e “protetto” dall’ammirazione dei suoi alunni. Intelligente e creativo, volto a cogliere e valorizzare le individualità di chi gli stava davanti, ci appare come un esempio di quel rapporto erotico misterioso e perturbante che si realizza in un’attività didattica dove l’insegnante dà troppo di se stesso. Da questo rapporto totalizzante e contraddittorio, il maestro anziché parlare alla classe, a una classe, si rivolge alla “sua” classe, alla ricerca di se stesso nell’altro, da amare e rimbrottare se non fosse sorta la corrispondenza che lui avrebbe voluto. La scrittura letteraria ovviamente filtra questo interscambio e lo sposta su “personaggi” e “ambienti” distanti o fittizi, ma il rispecchiamento è continuo. L’intento civile è sentito con quell’eccesso di passione che non potrà incanalarsi in una politica scolastica del possibile destinata davvero a ripulire la scuola dal vecchiume, dal pregiudizio sociale ed educativo, come avrebbe fatto il sacerdote don Milani in una scuola di campagna, e il maestro Manzi in televisione, il medium tanto aborrito da Pier Paolo! E di Don Milani, comunque molto apprezzato dallo scrittore, Palmieri fa una commossa celebrazione nell’appendice conclusiva della prima parte del libro.

Della riluttanza di Sciascia, (figlio di impiegati) a insegnare a Racalmuto, nella stessa scuola da lui frequentata da bambino accanto ai figli dei braccianti e dei minatori della zolfara, si occupa la seconda parte del saggio (“Il maestro di Racalmuto”). Ė proprio da questa estraneità (l’insegnamento doveva essere solo un punto di partenza verso “altri” progetti personali, tra cui lasciare la Sicilia e affermarsi come scrittore a Roma) che scaturì la compita registrazione, quasi da entomologo, degli “atti” ufficiali dell’insegnamento svolto, una specie di diario di bordo alquanto distaccato, dove furono annotate in modo oggettivo e critico le difficoltà del mestiere e il disagio della scuola in un conteso che ne squalificava ogni tentativo di cambiamento. “Educare è una cosa impossibile quando l’ambiente resiste, quando quei valori che l’opera educativa illumina non esistono nell’ambiente”. “Il maestro è ben poco, per quel che può fare nelle tre ore di scuola: è la famiglia che dovrebbe collaborare costantemente con il maestro”. E ancora: “Questo è un paese di mafia [. . . ] Uno spiffero di mafia entra anche nella scuola”.
A parte l’importanza delle “Cronache scolastiche” sul piano dello sviluppo narrativo successivo, Sciascia contribuì con quest'opera, sulla scia di Verga e di Pirandello ma con minore passione, a rafforzare la consapevolezza che l’analfabetismo e il sottosviluppo non si possono ridurre se le istituzioni come la famiglia, la scuola, gli Enti locali sono a loro volta fortemente degradati.
Ma c’è di più: si fa strada, come scrive Palmieri, il disagio del maestro su cui “non solo … incide il senso di inadeguatezza, lo scoramento umano [ma] anche …un complesso di inferiorità, … la frustrazione di chi, già agli inizi della seconda metà del Novecento, ha interiorizzato il senso della sconfitta, vedendo retrocedere la propria posizione nella scala sociale e avvertendo la propria sostanziale ininfluenza in un mondo che si dirige verso altri valori.”

Da qui si apre la terza parte dedicata a Lucio Mastronardi, un “ribelle” di provincia. Figlio di genitori entrambi legati alla scuola, l'uno ispettore e l'altra maestra, è lacerato nel suo intimo dall’impossibilità di essere come loro un insegnante competente e rispettato; in un ambito di vita diventato inaccettabile per costumi e mentalità sempre più prossimi all’arricchimento goloso e al consumismo, la sua ricerca di rispettabilità e di affermazione identitaria pose l’uomo e il maestro  in un conflitto permanente e autodistruttivo con ogni istituzione e con tutta Vigevano.  Ci fu una corrispondenza puntuale tra la vita e l’opera dello scrittore: nell’Italietta piccolo borghese e imprenditoriale delle fabbrichètte del nord ritratta nel romanzo, il maestro/personaggio non trova più una sponda accogliente, isolato e deriso com’è anche in famiglia. Se nella realtà lo sradicamento, l’inattualità si trasformano in insofferenza pervicace contro le istituzioni, la ricerca ossessiva di una compensazione del conflitto con il riconoscimento artistico sarà essa stessa inutile, perché Mastronardi non riuscirà a coglierla: si suicida prima.

Questo Maestri di scuola, maestri di pensiero è un bel libro, colto e appassionato, da leggere e su cui riflettere, per ripensare alla scuola della prima metà del secolo scorso nella prospettiva e nella speranza di far bene in quella di oggi.

Note

[1] Annamaria Palmieri è insegnante di letteratura italiana nei licei e docente a contratto presso il dipartimento di Studi linguistici, letterari e comparati dell’università L’Orientale di Napoli; assessore alla scuola del comune di Napoli; membro dell’Osservatorio nazionale per le politiche dell’infanzia e dell’adolescenza; già Presidente del Cidi Napoli e preziosa presenza culturale per il Cidi; titolare su insegnare della rubrica La scuola "scomoda".

Immagini

Dall'alto verso il basso: Pier Paolo Pasolini (terzo da sinistra nella fila in alto) con alcuni allievi a Versuta nel 1948; Pier Paolo Pasolini in una immagine degli anni Settanta; Il registro di Classe di Leonardo Sciascia, maestro a Recalmuto; Lucio Mastronardi per strada a Vigevano

 

I giovani conoscono Pasolini? di Luca Iavarone

Fanpage.it, 2015

 

 

 

 

Annamaria Palmieri, Maestri di scuola, maestri di pensiero, Aracne, Ariccia, 2015, pp. 246, 14 euro in volume, 8,4 euro in PDF

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