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di Annamaria Palmierila scuola "scomoda"

25/01/2020

Il distrattore giudicante

Capita di seguire in TV uno degli innumerevoli talk show politici che infestano il palinsesto, soprattutto serale, ma non solo. Per assuefazione, stanchezza, mancanza di alternative o come in questo caso per distrarmi dalla partita (il Napoli stava vincendo, cosa inopinabile di questi tempi, e non volevo assistere ad altre delusioni...).

Ed ecco che alcune sere fa assisto ad una tavola rotonda che vede contrapposti da un lato cinque giovani "sardine" (il portavoce Santori in collegamento, 4 ragazzi di diverse città in studio) e alcuni giornalisti ovviamente nel ruolo di intervistatori seriosi, con la benevola e paternalistica  mediazione del solito sorriso stampato di Floris. E gli applausi posticci a punteggiare il dibattito e stordire l'utente.

La scena surreale vede una classe di scafati professionisti della comunicazione politica contestare ai ragazzi l'assenza di un "programma politico". A loro! E quindi trucemente interrogarli come nella più  fertile tradizione della peggiore pratica scolastica. Quando alla domanda "Che cosa pensi della abolizione della prescrizione?", la giovane diciottenne siciliana ha sinceramente detto "Non lo so, dovrei approfondire", un trionfo di soddisfazione è apparso sul volto di Sallusti, uno dei più assidui tra i sapienti inquisitori delle arene telecratiche. “Ahahah”, dicevano brillando i suoi occhi, “Visto?”.  Sono impreparati. Se avesse avuto tra le mani un registro, gli sarebbe scappato un "Vada a posto! Le metto 3".

Una scena troppe volte vista sui banchi di scuola. Senza entrare nel merito di cosa potesse conoscere  dei meccanismi della  giustizia penale e delle loro riforme lo stesso Sallusti o chiunque di noi a 20 anni, resta la sensazione orribile di una insanabile distanza intergenerazionale: e si vedono spiegate in pochi minuti le giuste ragioni di una rivolta, di un' incomunicabilità tra "vecchi e giovani" che si traduce nella sconfitta delle nostre generazioni e nel fallimento del nostro ipocrita "sapere politico".

Invece di capire o cercare di capire, senza farsi tentare né  dall'invidia che si traduce in scherno tristemente aggressivo ("Non sanno parlare, non hanno programmi...”), né  dalle  retoriche ed entusiastiche celebrazioni (“Visto che bravi? non sono mica sdraiati!”), in Italia si continua ad applicare lo schema del giudizio  arrogante, che cerca di nobilitare l'insulso chiacchiericcio,  in nome di una visione/lettura politica che non c'è: così  mentre  i talk show affondano nella banalità e nella coazione a ripetere, i ragazzi si prestano al gioco partecipandovi e in taluni casi restandone vittime... Ma no, proprio no: loro sono un altrove che stentiamo a ri-conoscere. Da questo fallimento, da questa frattura,  abbiamo tutti da perdere, tutto da perdere...

Il modello valutativo, sanzionatorio, giudicante, premiale o punitivo, di cui anche la scuola spesso resta vittima, e da cui oggi viene travolta e sfibrata in molte sue manifestazioni, è solo apparentemente interpretativo. Non mira ad analizzare, capire, confrontare, far crescere le posizioni e l'intelligenza del tema in oggetto così come degli interlocutori. Non è dialogico o dialettico, ma inquisitorio.

Chi interroga conosce la risposta (o presume di conoscerla) ma spesso la cela, quando addirittura la domanda non tende a sviare a ingannare l'inquisito. Per farlo incorrere in errore. Nella peggiore e più sadica tradizione scolastica della vexatio interrogationis esiste da sempre la domanda trabocchetto, che la retorica eufemistica e vaniloquente della patologia valutativa contemporanea chiama "distrattore". Da sempre il sapiente inquisitore induce il giovane inquisito in errore. Per farlo cadere e di/mostrarne l'inaffidabilità.

Quando questo modello diviene la chiave di volta del rapporto fra le generazioni  anche nel dialogo sulla crisi della politica,  si rinuncia all’ importante e strategica occasione di dialogo e di costruzione del futuro, dialogo  fra chi lamenta i guasti e l'ansia di giustizia del presente e chi detiene (o dovrebbe detenere) in sé la sapienza ma anche la consapevolezza degli errori del passato. Quest’ assenza  rende tristemente vano l’apporto di molti talk show, ovvero della compagnia di giro che ogni sera (talvolta anche al mattino e al pomeriggio) mette in scena la reciproca falsa interrogazione reciproca. Quanto di più lontano dall’esercizio critico, dal vero dibattito, che si basa sull’ascolto e sull’inchiesta, non certo sul gioco sadico tra esaminatori e esaminati, analisti e analizzati….

 

Di che cosa parliamo

La scuola, se è vera scuola, scomoda le coscienze e le scuote dall'indifferenza poiché è luogo e pratica di democrazia, di inclusione, di tolleranza, di convivenza solidale.
La scuola, se è vera scuola, è contraria al pensiero unico, al conformismo, alle mode, al quieto vivere perché è luogo e pratica di riflessione critica, di sguardo problematico, di pensiero divergente.
E per questo la scuola è scomoda.
È  scomoda perché pratica e rispetta le diversità e i disagi, ma spesso vi si lascia travolgere e inibire e allora diviene scomoda a se stessa.
E deve essere scomoda anche per tutti coloro che la vorrebbero luogo di competizione, di gara, di apprendistato all'arrivismo e alla prevaricazione.
In tal senso  la rubrica raccoglie e racconta momenti e situazioni di scuola "scomoda", talvolta anche per se stessa e spesso per i territori in cui come Istituzione vive e agisce.

L'autrice

Insegnante di liceo, collabora a contratto con la cattedra di letteratura italiana dell'Università Orientale di Napoli; è stata per due mandati Assessore all'Istruzione del Comune di Napoli al servizio della scuola della sua città, intesa e praticata come diritto inalienabile e bene comune. Attualmente è dirigente scolastica a Torino. 


 

maestri copertina

Annamaria Palmieri, Maestri di scuola, maestri di pensiero, Aracne, Ariccia, 2015, pp. 246, 14 euro in volume, 8,4 euro in PDF

Nella storia dell’Italia post-unitaria la scrittura letteraria dei maestri-scrittori ha assunto un’importanza straordinaria, perché proprio la scuola ha dovuto affrontare i problemi fondamentali, e tuttora in parte irrisolti, di formazione dell’unità culturale, umana e linguistica della nazione. L’autrice affronta il nodo interpretativo di questa narrazione compiendo una scelta esemplare: tre ‘maestri’, Pier Paolo Pasolini, Leonardo Sciascia e Lucio Mastronardi, che sono stati scrittori e intellettuali e che hanno vissuto in un’aula scolastica un momento determinante della loro esperienza esistenziale. Per tutti e tre, la scuola fu il luogo di una delusione ma anche della denuncia, humus originario del loro impegno civile, contro la degenerazione del capitalismo e le storture di una società iniqua che vanificava l’utopia democratica ed egualitaria su cui la scuola di massa era nata o stava nascendo: eroi moderni del racconto di un’umile Italia che vive un’ultima stagione di ‘resistenza’ contro la trasformazione in una nazione senz’anima e senza cuore.               

Leggi la recensione su insegnare di Rosanna Angelelli

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