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di Annamaria Palmierila scuola "scomoda"

03/10/2022

Se si vuole far politica per il “popolo”, si parta dalla scuola pubblica

Sento l’urgenza di intervenire sul  dibattito che si sta sviluppando, in questa fase postelettorale,  sulle “priorità” del nuovo governo e l’identità perduta della sinistra, per rilevare due elementi, tra loro collegati a mio parere: il primo, la scomparsa rapida del tema della scuola pubblica, ricacciato nell’ombra, dopo i bei proclami della campagna elettorale. Ma questa non è una novità: il mondo della scuola è abituato allo strumentale utilizzo che si fa dei suoi problemi quando si spera di attrarre il potenziale dei votanti che lo abita. Il secondo aspetto, più significativo, è il fatto che,  se ci si va a rileggere il programma sulla scuola della coalizione vincente, si resta colpiti dalla sostanziale continuità degli obiettivi dichiarati con le politiche sulla scuola  degli ultimi venti anni, senza discontinuità tra centrodestra e centrosinistra. 
Sul tema “scuola pubblica” nessuna cesura  netta e radicale: anzi,  col programma della Meloni sembra di essere in pieno renzismo da "Buona scuola", con qualche rivisitazione legata all’autonomia regionale rafforzata e alla “libera scelta educativa delle famiglie”,  che tanto è piaciuta non solo a chi ha scelto, dalla parità in poi,  di finanziare la scuola privata, ma anche a quella intellighenzia che non coglie il pericolo di una riduzione del bel concetto di “comunità educante” al recinto della comunità chiusa su se stessa. 

Ebbene, se c’è un suggerimento, che bisognerebbe dare ai governanti e alla sinistra “smarrita”, e anche a chi osserva spesso criticamente i limiti dell’istruzione pubblica e semmai sostiene che la scuola sia “bloccata” a causa del sindacalismo, dell’abbassamento del livello di preparazione di studenti o docenti , dell’eccesso di egualitarismo a scapito della meritocrazia, è il seguente:  in primis, per salvare questo Paese, bisogna tornare a credere nella scuola pubblica, ovvero nella possibilità che la più importante istituzione della Repubblica, attraverso l’articolazione di un sistema di istruzione-formazione degnamente finanziato, sia messa nella condizione di svolgere il ruolo che le spetta di diritto.

E allora smettiamola di alimentare contrapposizioni: tra dirigenti e docenti, tra i docenti bravi da premiare e gli altri (da licenziare?), tra studenti e docenti, tra  scuola e famiglia: solo  una forte unità d’intenti fra i vari  soggetti che partecipano del mondo della scuola può salvarla dalla deriva che tutti i partiti  lamentano (e alimentano): bisogna invertire la rotta, tanto  delle riforme privatizzanti del centrosinistra quanto  dei massicci tagli del centrodestra.

Alcune semplici cose forse non sarebbero difficili da fare, a chi davvero volesse occuparsi del “popolo” : e per  trovare le risorse finanziarie si tratta solo di definire le priorità.

Ad esempio, se si smettesse di agire solo sui contenitori e si tornasse a credere , attraverso finanziamenti ORDINARI incrementati e duraturi, nella capacità di ricerca e sperimentazione della scuola stessa,  messa finalmente in grado di coniugare temi più recenti (come la rivoluzione digitale, la didattica “intelligente”) con il superamento di annosi ritardi (il pieno diritto allo studio e al lavoro, la trasparenza amministrativa, la selezione del personale e il superamento del precariato)?

"L’arte e la scienza sono libere e libero ne è l’insegnamento» , recita l’art. 33 della Costituzione . Ebbene, nessuna scuola può pensare di essere migliore dei suoi insegnanti, scriveva Giancarlo Cerini;  e tutti gli alunni hanno uguale diritto ad un insegnamento di  qualità: perciò non serve mettere i docenti  in competizione per trovare quelli bravi; piuttosto,  si avvii  l'equiparazione agli standard europei delle  retribuzioni del personale, e con  un sistema di reclutamento iniziale serio,  rigoroso e trasparente, il mondo della scuola tornerà ad essere appetibile per i nostri eccellenti laureati.

Ancora, si parla tantissimo delle  politiche d’intervento per affrontare il dramma della dispersione scolastica, particolarmente consistente nel Meridione. Ma se queste non diventano politiche di sistema, non stra-ordinarie, come accaduto coi fondi PON e come (temo) accadrà con i fondi PNRR , il contenitore del disagio (e dell’abbandono) si riempirà sempre. 
E perché non incrementare il tempo pieno, invece di dover ricorrere all’extracurricolo?
E ancora, perché non una scuola dell’infanzia obbligatoria e gratuita, garantita sull'intero asse dell'offerta pubblica dei servizi educativi, da finanziarsi con investimenti strutturali, anche per superare i divari territoriali? Un sistema di progressivo superamento del precariato perché gli studenti non cambino docenti ogni anno? Perché non far partire dalla rigenerazione degli edifici scolastici, resi salubri, vivibili, belli e sicuri, le politiche di efficientamento energetico di interi quartieri?  Quest’ultimo mi sembra un punto interessante, su cui la programmazione del PNRR è deludente: le scuole potrebbero produrre energia pulita da dare all’intero quartiere in cui si collocano, se si puntasse ad un programma di edilizia scolastica ben più importante dei grandi progetti come il ponte di Messina. E’ dagli anni Ottanta che non si costruiscono nuove scuole pubbliche nel paese, a parte limitate e illuminate eccezioni.

E infine, forse, specie per forze politiche che dicono di essere, credono di essere, vicine al “popolo” bisognerebbe smettere di pensare il sistema in modo ideologicamente arretrato e ghettizzante: sono anni che si producono riforme dell’istruzione professionale e tecnica, senza accorgersi (in specie nell’area di certa sinistra)  del  presupposto classista che anima la discussione: rinforzare il legame col mondo produttivo e del lavoro, certo, è importante …ma senza una seria cultura dell’orientamento e del lavoro,  nei passaggi-chiave, semmai ripensando i bienni dell’obbligo,  nel sistema continuerà ad agire la canalizzazione strisciante che spinge lì, nei professionali, rinnovati o meno, sempre e solo i poveri o figli dei poveri, i marginali, gli esclusi, i difficili, quelli con “sufficiente” sul diploma di terza media. Un tempo si sarebbe detto “Ci sono quelli nati per zappare e quelli nati per studiare”. Don Milani è passato invano. Non ci vergogniamo, come società, di aver accettato la discriminazione classista degli indirizzi secondari come necessaria e sufficiente, come contenitiva del disagio, come soluzione facile per uno “sviluppo senza progresso” per dirla con Pasolini ? Non ci interroghiamo nemmeno quando confrontiamo i numeri dell’inclusione dei disabili nell’istruzione tecnico-professionale (altissimi, con una media su 1 studente su 10) con quelli dei percorsi liceali (spesso vicini allo zero)?

NO, purtroppo non ci indigniamo, ma fraternizziamo in modo paternalistico con i poveri e gli sfortunati attraverso progetti stra-ordinari di welfare, di contrasto alla dispersione, finanziati dall’Europa o da fondazioni private: e poi si piange perché il centrosinistra  ha smarrito il suo popolo per strada, e ha trovato casa nelle élites borghesi, dove nessun esponente della  Società Civile, o dell’ accademia dei  benpensanti illuminati e competenti vorrebbe il proprio figlio a far scuola in un professionale, o a lavorare come insegnante in una periferia.

Credere nella scuola pubblica  è e resta il modo migliore di credere nella democrazia: mi sembra che valga come monito, ai nuovi governanti e a chi vi si oppone, di-mostrare il proprio vero volto democratico su questo terreno.

Di che cosa parliamo

La scuola, se è vera scuola, scomoda le coscienze e le scuote dall'indifferenza poiché è luogo e pratica di democrazia, di inclusione, di tolleranza, di convivenza solidale.
La scuola, se è vera scuola, è contraria al pensiero unico, al conformismo, alle mode, al quieto vivere perché è luogo e pratica di riflessione critica, di sguardo problematico, di pensiero divergente.
E per questo la scuola è scomoda.
È  scomoda perché pratica e rispetta le diversità e i disagi, ma spesso vi si lascia travolgere e inibire e allora diviene scomoda a se stessa.
E deve essere scomoda anche per tutti coloro che la vorrebbero luogo di competizione, di gara, di apprendistato all'arrivismo e alla prevaricazione.
In tal senso  la rubrica raccoglie e racconta momenti e situazioni di scuola "scomoda", talvolta anche per se stessa e spesso per i territori in cui come Istituzione vive e agisce.

L'autrice

Insegnante di liceo, collabora a contratto con la cattedra di letteratura italiana dell'Università Orientale di Napoli; è stata per due mandati Assessore all'Istruzione del Comune di Napoli al servizio della scuola della sua città, intesa e praticata come diritto inalienabile e bene comune. Attualmente è dirigente scolastica a Torino. 


 

maestri copertina

Annamaria Palmieri, Maestri di scuola, maestri di pensiero, Aracne, Ariccia, 2015, pp. 246, 14 euro in volume, 8,4 euro in PDF

Nella storia dell’Italia post-unitaria la scrittura letteraria dei maestri-scrittori ha assunto un’importanza straordinaria, perché proprio la scuola ha dovuto affrontare i problemi fondamentali, e tuttora in parte irrisolti, di formazione dell’unità culturale, umana e linguistica della nazione. L’autrice affronta il nodo interpretativo di questa narrazione compiendo una scelta esemplare: tre ‘maestri’, Pier Paolo Pasolini, Leonardo Sciascia e Lucio Mastronardi, che sono stati scrittori e intellettuali e che hanno vissuto in un’aula scolastica un momento determinante della loro esperienza esistenziale. Per tutti e tre, la scuola fu il luogo di una delusione ma anche della denuncia, humus originario del loro impegno civile, contro la degenerazione del capitalismo e le storture di una società iniqua che vanificava l’utopia democratica ed egualitaria su cui la scuola di massa era nata o stava nascendo: eroi moderni del racconto di un’umile Italia che vive un’ultima stagione di ‘resistenza’ contro la trasformazione in una nazione senz’anima e senza cuore.               

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