Nel suo saggio sulla mutazione mentale e tecnologica, The game, Alessandro Baricco ci mostra in maniera convincente quanto sia confortevole per gli umani rifugiarsi nel paradigma del declino, della catastrofe culturale, piuttosto che comprendere e agire il presente, uscendo dalla propria tana. Temo sia esattamente quello che sta accadendo a tanti di noi di fronte allo sdoganamento furioso del sovranismo e del becerismo di Stato.
Quello per capirci che fa dire a Salvini che Ong, scafisti e mafia sono la stessa roba, salvo poi combattere solo contro i primi; quello che fa dichiarare a Di Maio, che ripesca in modo confuso tra le memorie di scolaro, che la colpa è tutta della politica coloniale della Francia (“Scusi, vicepresidente, ma il capitolo sull'Italia in Libia l'ha saltato?”); quello che consente alla Meloni di parlare di "paghetta ai nomadi" per definire il reddito di inclusione, piuttosto che ragionare di una conquista di civiltà, come esso dovrebbe essere al di là delle retoriche di chi se ne appropria come di una bandiera.
Ebbene, non è più tempo di fare gli schizzinosi: ad evitare il rischio di credersi davvero élite intellettuali da buttar via, cedendo al parossismo simbolico dei Cinque Stelle e della Lega che mirano a cementarsi intorno il presunto popolo della "gente", bisogna scendere nell'agone della discussione ogni giorno, con tutti e su ogni argomento. Il PD ha dimenticato per decenni il suo popolo e preferito le convention di industriali e le Leopolde? Si vede la fine che ha fatto. Not in our name, però.
Al mercato o sugli autobus non ci si può andare solo in campagna elettorale, bisogna farci la spesa, o viaggiare stretti gli uni agli altri. È la cifra di amministratori che hanno scelto di stare in strada, anche se è meno comodo. E lì, per strada, ci si confronta anche con il rancore degli ultimi, con quel senso di solitudine che alimenta il pregiudizio, verso i politici come verso i mendicanti. Lì, anzi in una macelleria per la verità, ho chiacchierato a lungo con un simpatico cliente che, avendomi riconosciuto come assessore, mi ha chiesto con semplicità, senza acredine: “Ma perché il nostro sindaco non vuole il decreto sicurezza? Non è meglio che tutti questi qua [i migranti, intendeva, n.d.A.)] se ne vanno?"
E nella nostra conversazione, a volto aperto, ho provato a spiegargli che il punto è proprio lì, che non solo se impedisci l'iscrizione all'anagrafe ai poveri stranieri non se ne vanno, ma che restano, invisibili e privati di diritti, e non va bene, perché sono persone come noi, eccetera eccetera. Ne sono uscita pensierosa, da quel dialogo improvvisato, ma conscia di un’evidenza: la fatica che dovremo fare per ricordare a tutti il volto dell'umano, e argomentare su ciò che non pensavamo andasse più argomentato, al riparo della cultura degli ultimi 60 anni.
Mi é stato ancor più chiaro di quanto già non fosse che dobbiamo cominciare dai ragazzi, dai bambini, a riallacciare i legami di fiducia con gli altri, con le istituzioni, con la scuola... Certo, i ragazzi sono più avanti di noi, in tante cose, ma bisogna guardarli, ascoltarli, essere al loro fianco come adulti non distratti e stanchi, complici dell’individualismo competitivo dominante. Mio figlio adolescente, tornando da una sera trascorsa in piazza coi compagni di scuola, l'altro giorno mi fa: "Mamma, ma ce ne sono proprio tanti di fascisti, sai?”.
Mi é corso un brivido dietro la schiena: in un mondo che evolve in un modo che non sappiamo spiegare, anzi che ci duole spiegare e con cui ci è odioso confrontarci, rimbocchiamoci le maniche, tutti, con l'orizzonte dei valori costituzionali avanti (non dietro le spalle o sotto il cuscino conservatore) e la convinzione di poter incidere ancora sui discorsi che ci fanno orrore solo se non si ripiegano le truppe.