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di Annamaria Palmierila scuola "scomoda"

03/12/2022

Riprendiamo a parlare di dispersione, ma senza ipocrisia

Le prime uscite del neo-ministro Valditara, sorprendenti, specie sui metodi per contrastare l’evasione scolastica  o  i cattivi “costumi” degli studenti, hanno il pregio di consentirci di riaprire la discussione su quello che continua ad essere  il problema più serio della scuola, in termini donmilaniani:   i ragazzi e le ragazze che perde,  ora perché evadono l’obbligo (ma non si evade da un carcere?), ora perché si disgrega la loro fiducia nel sistema e in se stessi (dispersione esplicita e implicita [1]), ora perché abbandonano i percorsi formativi, spesso per non rientrarvi più (NEET).

Ma il tema del contrasto alla dispersione scolastica (non meno rilevante di quello del merito, ad esso quasi complementare) non può essere interpretato esclusivamente come questione della scuola, è ambito di intervento politico che riguarda l’intera collettività. Crediamo tutti che la scuola sia presidio centrale all’interno dei quartieri, dei territori, e intorno ad essa ruoti una comunità di attori che possono collaborare per prevenire il disagio. Però non si possono cambiare gli effetti se non cambi le cause, o non le conosci a fondo. Qualsiasi progetto contenitivo del fenomeno può servire forse a ridurre il danno,  a incidere su  singoli casi: ma il contenitore del disagio, multifattoriale, multidimensionale,  se non si affrontano le cause in primis analizzandole a fondo, si riempirà sempre [2].

Negli anni passati, tuttavia, sulla scuola si è andati più che altro alla ricerca di attributi: abbiamo avuto le Scuole Belle, La “Buona” Scuola, le Scuole Sicure. In Campania esiste anche un programma di investimento chiamato  Scuola Viva. Un lapsus. Può esistere anche una scuola “morta”? Oggi siamo arrivati a interrogarci sulla Scuola del Merito!
E intanto ci si avvia -  e ce lo dice l’investimento di quota PIL -  verso una scuola nei fatti depotenziata,  che versa in condizioni sempre più difficili anche per le grandi  ambiguità della politica, incapace di non  appiattirsi sull’esistente. Ma il bivio ormai è chiaro: si vuole investire o disinvestire sulla scuola pubblica? E lo si vuol fare con interventi strutturali e di lunga durata o con logiche emergenziali e frammentarie? La manovra di bilancio al risparmio genera non poche preoccupazioni, come l’idea che l’autonomia differenziata sgretoli il sistema scolastico nazionale in modo definitivo, o come il  tentativo di far leggere il rinnovo del contratto dei docenti  come se fosse un privilegio concesso, e non come un atto dovuto.

Poniamoci dunque alcune semplici e oneste domande e poniamole alla nuova politica:
1. La scuola in Italia, in  settant’ anni dal dopoguerra,  è riuscita a svolgere il ruolo che le assegna la Carta Costituzionale,  ovvero “rimuovere gli ostacoli”? E’ stato possibile smuovere l’ascensore sociale, ridurre le povertà educative, realizzare pari opportunità di accesso per tutti ai più alti gradi della formazione? Sempre che nel pensiero dominante l’uguaglianza sia ancora un valore, la risposta è “non abbastanza”, “non sempre” ma soprattutto “sempre di meno” man mano che si avanza verso il presente.
2.  In che modo si è evoluto il rapporto tra la cultura della scuola  (in termini di saperi e relazioni) e la cultura della società?  O ancora tra la cultura della scuola e la cultura dei ragazzi? Cosa si è fatto per ripercorrere il gap che le separa, che qualche anno fa  Raffaele Simone [3] analizzava come un conflitto anche  tra due modelli di “intelligenza”, incidenti su disuguaglianze e insuccesso formativo?
3. Come hanno agito gli ultimi 20 anni di riforme? Quale rapporto si è instaurato tra la scuola e l’imperante neoliberismo, individualistico, meritocratico (più a parole che nei fatti)?  La centralità assunta in tutti i campi dall’invadenza delle pratiche valutative  (competitive,  comparative, migliorative) sul “cuore” della scuola ha avvicinato la scuola al suo compito o l’ha compromesso?
4. E la voce degli studenti? I loro bisogni, i loro corpi, le loro istanze anche implicite, silenti o rumorose, che spazio hanno nelle dinamiche di “tolleranza repressiva” o nei meccanismi di disciplinamento, accondiscendenza o  censura  con cui si guarda loro?
5. Quanto e come si è investito sulla formazione dei docenti cui è affidato il compito di “liberare” ragazzi e ragazze  dai vincoli che li tengono lontani dall’emancipazione tramite il sapere?

A queste domande, la risposta non si trova nel dibattito che si è sviluppato  sul  tema del merito nei  media, abbondante ma non sempre centrato, come ben sottolineato qui da Mario Ambel [4]
Il discredito nei riguardi della formazione scolastica da parte di tutti i ceti sociali, la sfiducia di quelli più deboli nei confronti delle strade che la scuola può offrire si alimentano dei disvalori da cui si è accerchiati e a favorire il distacco contribuiscono a volte le pratiche stanche della scuola stessa, ma anche le illogiche risposte di pura repressione nostalgica o acritica accettazione. Si arriva così al punto che il Ministro ipotizza di “orientare” i genitori  che iscrivono i ragazzi a scuola sulle opzioni del mercato del lavoro, come se questo fosse l’unico fine del percorso scolastico e come se il mercato del lavoro non fosse ormai fluido e in continua evoluzione.

Non dovrebbe essere così: bisognerebbe investire di più e con più entusiasmo nei contesti in cui c’è meno, in modo tale che nei territori di maggior sofferenza, per supportare la scuola - e non per sostituirla - si possano attivare reti allargate composte da altre scuole, dalle istituzioni locali, anche dai soggetti del privato sociale e del civismo attivo. Sembra che queste indicazioni siano state raccolte nell’orizzonte dei fondi del PNRR (investimento 1.4), ma tutte le scuole sono al palo al momento, ad attendere le temutissime indicazioni operative, quelle che spesso complicano con i propri cavilli burocratici la vita degli istituti  finendo per inficiare la bontà dei progetti stessi.  

Da quanto detto, può forse  derivare qualche suggerimento a chi si appresta a metter mano alla questione dai più alti scranni: ad esempio, che l’autonomia differenziata regionale proprio non serve a nulla, a meno che non si sia deciso di lasciare definitivamente indietro chi già lo è (lo si è deciso?); che l’investimento sulla capacità professionale dei docenti  va condotto facendo  seri concorsi e veri investimenti stipendiali, e semmai valorizzando “l’autonomia di ricerca,  sperimentazione e sviluppo” delle scuole.  O ancora, che il valore sociale della scuola non può essere assoggettato a quella “tirannia del merito”, come la definisce Michael Sandel [6], che è forma ambigua che  rompe i legami sociali e innesca competizioni sotto il segno del mercato tra vincitori e perdenti, così che la hubris dei vincitori finisca per trasformare in “colpa” la povertà e il mancato successo  dell’altro.

Inoltre, bisognerebbe tener presente che non esistono ricette nuove che il Ministero possa trovare e che possano prescindere dai contesti e dai bisogni espressi in quei contesti: sia al Nord che al Sud, in tutte le regioni, un’ area interna, un quartiere periferico a ad alto tasso di disoccupazione, un rione popolare ad alta densità di immigrazione non presentano fattori di crisi assimilabili a quelli espressi dalle scuole borghesi delle grandi città: a ciascuna realtà può corrispondere una diversa risposta educativa.

Per questo, una buona politica dovrebbe in primis lottare proprio contro le tendenze alla competizione e alla segregazione (tra ordini di scuole, tra quartieri, tra classi, dentro le classi), prassi dominanti che fanno sì che la canalizzazione e il fallimento formativo degli ultimi agiscano a monte (in entrata) e vengano poi solo ratificati a valle (in uscita).

Ma questo è discorso scomodo per chi di scuola spesso pontifica sui giornali, ma che sembra non voler vedere - penso alle reazioni di editorialisti illustri sul tema del merito - che il problema non è il “rigore” della valutazione o la “qualità” del servizio reso dai docenti, ma lo “scandalo” della disuguaglianza: e quando lo vede, con lenti appannate dal disgusto elitario, oppone come rimedio addirittura la dismissione della scuola di massa, che pure è stata la più significativa conquista democratica della Repubblica.

La crisi finanziaria, la crescita delle disuguaglianze, l’inettitudine dei leader mondiali alle prese con il cambiamento climatico, la fragilità della costruzione europea, l’instabilità geopolitica, l’affermazione dei populismi in ogni parte del mondo sembrano problemi insormontabili, ma, per trovare le soluzioni, prima di tutto si deve assumere la più semplice delle verità: che la somma degli interessi individuali degli agenti economici non si tramuta in benessere collettivo, e quindi in bene comune, grazie alle sole virtù del mercato.
Ci vuole un’istanza regolatrice pubblica [7]: e c’è un filo che percorre e può “rammendare” le periferie del mondo, e si chiama educazione per tutti, non uno di meno, ma bisogna davvero volerlo tendere e coltivare. Lo auspichiamo con forza.

 

Note


1. Cfr. La dispersione scolastica non è solo banchi vuoti, "Invalsi open", 07.10.2019.
2. Cfr. A. Palmieri, “Dimensione politica del lavoro scolastico e sociale”, in  A. Morniroli (a cura di), Equilibristi, ed. Gruppo Abele, 2015.
3. 
R. Simone, La terza fase: forme di sapere che stiamo perdendo, ed. Laterza, Bari, 2000.
4. Cfr. M. Ambel, "
Il merito non si addice alla scuola" , "insegnare", 05.11.2022.
5. D.P.R n. 275/1999, "Regolamento recante norme in materia di autonomia delle istituzioni scolastiche, ai sensi dell'art. 21 della L. 15 marzo 1997", n. 59.
6. M. J. Sandel, La tirannia del merito. Perché viviamo in una società di vincitori e di perdenti, Feltrinelli, Milano, 2021.
7. 
Cfr. J. Tirole, Economia del bene comune, Mondadori, Milano, 2017.

Di che cosa parliamo

La scuola, se è vera scuola, scomoda le coscienze e le scuote dall'indifferenza poiché è luogo e pratica di democrazia, di inclusione, di tolleranza, di convivenza solidale.
La scuola, se è vera scuola, è contraria al pensiero unico, al conformismo, alle mode, al quieto vivere perché è luogo e pratica di riflessione critica, di sguardo problematico, di pensiero divergente.
E per questo la scuola è scomoda.
È  scomoda perché pratica e rispetta le diversità e i disagi, ma spesso vi si lascia travolgere e inibire e allora diviene scomoda a se stessa.
E deve essere scomoda anche per tutti coloro che la vorrebbero luogo di competizione, di gara, di apprendistato all'arrivismo e alla prevaricazione.
In tal senso  la rubrica raccoglie e racconta momenti e situazioni di scuola "scomoda", talvolta anche per se stessa e spesso per i territori in cui come Istituzione vive e agisce.

L'autrice

Insegnante di liceo, collabora a contratto con la cattedra di letteratura italiana dell'Università Orientale di Napoli; è stata per due mandati Assessore all'Istruzione del Comune di Napoli al servizio della scuola della sua città, intesa e praticata come diritto inalienabile e bene comune. Attualmente è dirigente scolastica a Torino. 


 

maestri copertina

Annamaria Palmieri, Maestri di scuola, maestri di pensiero, Aracne, Ariccia, 2015, pp. 246, 14 euro in volume, 8,4 euro in PDF

Nella storia dell’Italia post-unitaria la scrittura letteraria dei maestri-scrittori ha assunto un’importanza straordinaria, perché proprio la scuola ha dovuto affrontare i problemi fondamentali, e tuttora in parte irrisolti, di formazione dell’unità culturale, umana e linguistica della nazione. L’autrice affronta il nodo interpretativo di questa narrazione compiendo una scelta esemplare: tre ‘maestri’, Pier Paolo Pasolini, Leonardo Sciascia e Lucio Mastronardi, che sono stati scrittori e intellettuali e che hanno vissuto in un’aula scolastica un momento determinante della loro esperienza esistenziale. Per tutti e tre, la scuola fu il luogo di una delusione ma anche della denuncia, humus originario del loro impegno civile, contro la degenerazione del capitalismo e le storture di una società iniqua che vanificava l’utopia democratica ed egualitaria su cui la scuola di massa era nata o stava nascendo: eroi moderni del racconto di un’umile Italia che vive un’ultima stagione di ‘resistenza’ contro la trasformazione in una nazione senz’anima e senza cuore.               

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