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di Annamaria Palmierila scuola "scomoda"

16/01/2018

Tempo, Spazio e Relazioni per una scuola democratica e inclusiva *

Il ruolo della scuola

La qualità e la tenuta democratica di un paese (e di una città) si misurano sull'importanza e sul ruolo che esso (essa) assegna alla propria scuola, che si legittima ed è tanto più autorevole e credibile quanto più è in grado di trovare nei processi culturali di insegnamento/ apprendimento che vi si realizzano le proprie finalità: rendere i cittadini liberi dal condizionamento dell'ignoranza, del mercato, delle logiche di asservimento  neoliberistico, e eguali nelle opportunità (indipendentemente dalle condizioni di partenza).

Il 2017 è l'anno in cui col suggello della legge 107, la cosiddetta  “Buona scuola”, si compiono 20 anni dalla legge sull'autonomia scolastica. E in questi venti anni si è andati,  senza soluzioni di continuità nei cambi di governo, verso il progressivo svuotamento e tradimento dell'autonomia attraverso ristrutturazioni improvvide del contenitore (più che dei contenuti), pensate in modo  che sempre, ogni volta che si è trattato di compiere scelte, si è percorsa la strada opposta e  più lontana dall'idea di scuola democratica e inclusiva ex articolo 3 comma 2 della Costituzione che ci piace e in cui crediamo. Ma anche la più lontana dalle sollecitazioni che ci vengono dal mondo della ricerca pedagogica, didattica, sociologica, educativa.

Sono sette anni che svolgo la funzione di assessore alla scuola della terza città di Italia, che vivo questa complessa sfida  provenendo dal mondo dell'associazionismo professionale, il quale su quell'idea di scuola inclusiva e democratica ha  fondato da 40 anni la propria ragion d'essere. Ebbene il quadro che in questi sette anni mi si è presentato davanti, sviluppando io quotidianamente con tutte le scuole una relazione orizzontale, continua, basata sull'ascolto e la condivisione di opportunità e problemi, non è confortante: le scuole sono esauste, non dicono sempre quello che pensano,  essendo spesso portate ad "attaccare il ciuccio dove vuole il padrone", ma la loro è una complicità apparente, che nasconde alti tassi di sofferenza. Specie nei confronti della sopra citata Legge 107: "Ma chi ve l'ha chiesta, questa riforma?" - è una domanda che nessun commentatore intelligente ha mai fatto a Renzi, ma è una buona domanda, per capire. Per capire dove sta andando questo Paese.

Un Paese che ha svenduto il suo progetto educativo

Ebbene,  questo è il Paese in cui, quando nel primo anno di assessorato mi cimentai con i problemi delle scuole del Comune, per poter assumere le maestre e le educatrici per le nostre scuole di infanzia e i nostri nidi pubblici, si dovette ricorrere a una delibera "disobbediente" verso i vincoli di stabilità finanziaria, con tanto di procedura di infrazione alla Corte dei Conti. Ci andò bene, allora, ma non fu una scelta facile. Eppure noi dicevamo una cosa semplice che adesso dicono in tanti: che i diritti costituzionalmente orientati non possono essere subordinati ai vincoli! Vivaddio.
Questo è anche il paese in cui la parola "competizione" o "merito" e l'ossessione meritocratica spingono le scuole a rincorrere premi e a temere che le critiche di una alunna possano trasformarsi in "danno di immagine", meritevoli di provvedimenti disciplinari,  più che di ascolto.

Questo è il paese dove si pubblicano sui giornali graduatorie e classifiche sulle scuole migliori, ora a partire dai test Invalsi, ora dagli esiti universitari degli alunni e, guarda caso, e non solo nella mia città, in testa ci sono sempre i locei classici dei quartieri ricchi: mai che qualcuno si interroghi, sulla stampa, sul perché in quelle classifiche non ci sia mai,  non dico un istituto professionale, per carità, ma nemmeno un liceo classico delle periferie. Che Dio stia facendo un dispetto ai poveri, vecchi e nuovi, per dirla  con Don Milani, facendo nascere  i più asini nelle periferie? Di certo, queste classifiche intelligenti un effetto ce l'hanno: ovvero che tutti i genitori si accalchino a volere lì i loro figli, in una guerra all'ultimo iscritto che ha davvero ben poco di  educativo.

Sempre perché Dio è dispettoso, questo è il paese in cui, da una indagine che abbiamo condotto come assessorato sulle tipologie di disabilità (certificate) distribuite nei territori e quartieri cittadini, risulta che le diagnosi per  deficit di apprendimento e  ritardo mentale sono concentrate nelle periferie piu povere e degradate. Vuoi vedere che i poveri oltre che più ignoranti sono anche più stupidi? O è vero piuttosto, come ci insegnano gli studi neurofisiologici,  che lo sviluppo delle connessioni neurali, sin dalla prima infanzia, è favorito dal contesto socio-ambientale? Ma questo è il paese in cui i nidi sono ancora un servizio a domanda individuale, e non è bastata una legge sullo 0-6 anni a modificare l'assurdità di questo assunto, che divide la nostra penisola in due parti nette. Ma riprenderò il punto più avanti.

Ancora, questo è il paese che ha scelto per la propria scuola l'ossessione valutativa del merito individuale:  i ministri costruiscono la meritocrazia dei presidi, i presidi la meritocrazia dei docenti, i docenti la meritocrazia degli alunni e i genitori sono il pubblico di consumatori che giudicano, premiano o impallinano tutti! In un paese che ha una Costituzione come la nostra, come è possibile veder risorgere il concetto di libera scelta educativa dei genitori, usato come una clava per distruggere il bene comune-scuola?

Infine, questo è il paese in cui la dispersione scolastica si combatte con un mercato di migliaia di progetti: i più dispersi diventano proprio i percorsi scolastici, tant' è che viene il dubbio che la presenza di alunni fragili sia assolutamente "funzionale" a costruire i luoghi della surroga della scuola, le agenzie sostitutive che, mentre essa si indebolisce smarrendo il senso di se stessa e deresponsabilizzandosi sulla mission dell'inclusione, competono tra loro  spesso tradendo persino lo spirito della L. 285 del 1997. 

La buona scuola altro non è che il suggello ideologico a questa deriva,  che subordina la scuola al mondo esterno, le chiede troppo o troppo poco, la appiattisce sull'esistente, mentre la scuola - come diceva Don Milani -  dovrebbe trasformarlo,  questo mondo, non di certo adeguarvisi.
La buona scuola a tratti  offende dal punto di vista nominale quella scuola davvero buona che c'era già, quella per cui tanti di noi a partire dagli anni Settanta si sono spesi, e si è fatta portatrice di una idea tutta neoliberistica (“neocinica”, direbbe Pasolini) di adattamento alle istanze del mondo produttivo con una conseguente mercificazione dei saperi e dei processi che spaventa: la deriva della  "libera scelta educativa" è figlia di questo percorso.

Guardiamo avanti, per carità, ma senza parlare di grandi riforme. Della “Buona scuola” davvero poco è riformabile e,  per dirla tutta, di riforme della scuola non ne possiamo più. Andiamo ai nodi piuttosto, con una pulizia culturale e  linguistica che cancelli e sostituisca le parole chiave del degrado.  Alla valutazione di qualità intesa come merito, competizione, bonus o premio sostituiamo la qualità del tempo, dello spazio, e delle relazioni.

Il tempo scuola e la povertà

Parliamo del tempo-scuola, la vera vittima dei processi che ho descritto, in lungo e in largo. E chiediamoci: c'è ancora bisogno di un tempo scuola lungo e disteso oppure no? E se la risposta è sì, come credo, perché l'Italia è ancora spaccata in due sul tempo pieno, al punto che la mia città, Napoli, che è tra quelle che nel sud ne ha di più, non ottiene più del 35% di scuole a tempo pieno? Si stanziano ipocritamente una barca di soldi in extracurricolo,  in esternalizzazioni di percorsi  senza garantire il minimo sindacale, che trasformi in misure strutturali quel tempo che è di fatto stato messo sul mercato e  frammentato. 

Eppure la ricerca ci insegna che la povertà educativa dei genitori condiziona la marginalità dei figli e che non v'è azione migliore per recuperare lo svantaggio sociale e culturale che investire sulla qualità del tempo scuola.
A Napoli, tanto per capirci,  il 5% dei bambini nasce da madri con un bassissimo livello di istruzione (licenza elementare) e il 30% da madri che arrivano alla licenza media. Ad un calcolo grossolano questo si tradurrà nei dieci anni in 30.000 giovani a rischio di marginalità. E se è la parola che fa uguali, guardiamo alle parole: come ci insegnano da tempo le ricerche di psicologi infantili quali Betty Hart e Todd Risley,  esse dividono i figli dei professionisti (che ne ascoltano in media 2.153 all'ora) dai bambini di famiglia povera, che ne ricevono poco più  di 600. Ma dove si apprendono le parole, come si recuperano certi gap? In un paese che nega il tempo pieno e che considera il nido un servizio a domanda individuale, intervento precoce e prevenzione sono un investimento che  non si ha il coraggio di fare, o forse non si vuole fare. Eppure, come ebbi modo di chiarire in sede Anci qualche anno fa, in un serrato confronto con assessori di Comuni ben più ricchi di Napoli, se il nido diventasse servizio essenziale, e se la scuola dell'infanzia diventasse obbligatoria, i Comuni non sarebbero più costretti a elemosinare i fondi ogni anno per tenerli aperti  e pubblici, con tariffe basse per i più poveri. E quel divario in tema di servizi educativi che distingue (e che la 107 reitera) i Comuni del nord e del sud potrebbe essere ripercorso con l'aiuto dello Stato: con l'investimento, vero e non ipocrita, sull'infanzia e sul tempo-scuola.

E per tornare ad un tempo scuola sensato anche per i più grandicelli, se invece dell'alternanza scuola lavoro,  che è l'ipocrisia del lavoro che maschera sfruttamento,  si tornasse a riflettere sull'orientamento e sulla didattica orientativa? L'"alternanza" sta diventando una  "alternativa" al sapere,  che sembra preparare al precariato e al Jobs act più che al futuro. Per orientare le scelte e costruire cultura del lavoro il percorso è un altro, ed è tutto di natura culturale, non certo mercantilistica.

La qualità dello spazio

Dalla qualità del tempo alla qualità dello spazio il salto è breve. Abbiamo il dovere di investire sugli "spazi" della scuola non solo per la loro sicurezza o per feticismo tecnologico, ma per farne un luogo di aggregazione e di alleanze per la comunità educante tutta. Lo spazio scuola nelle periferie è presidio, lo sappiamo: ma il salto che si può fare è di affidare ai giovani, ai loro desideri e talenti, la progettazione e rigenerazione degli spazi dismessi, la rivisitazione dei luoghi di insegnamento/apprendimento,  a misura dei cittadini che essi sono già oggi, non domani! 

Il superamento delle relazioni conflittuali

Resta il tema delle relazioni. Il superamento delle relazioni conflittuali e competitive che si consumano dentro le scuole passa anche per la nuova qualità del tempo e dello spazio. E passa per il ripristino della collegialità delle decisioni e delle responsabilità, perché la 107 ha spezzato legami e distrutto la fiducia, finendo per mettere tutti in guerra contro tutti.
Riprendiamoci l'idea, tutta donmilaniana, che essere bravi, nella scuola, non è un merito, è un compito. E restauriamo la relazione con la ricerca, didattica e scientifica, richiamandoci a quell'articolo 6 del DPR 275 che è l'unico rimasto inattuato, scavalcato dalla carta individuale del docente e dalla formazione di Stato.

O ancora, curiamo la relazione con le altre culture, con la diversità, la riflessione sull'interculturalità che passi per cose concrete, come la fine dell'eurocentrismo dei libri di testo, o l'introduzione del mediatore culturale come figura strutturata e non a progetto. E inoltre, consideriamo la relazione con la diversità come questione di genere, come lotta all'omofobia, che non deve far paura ma entrare negli intenti, nei programmi e nel cuore stesso di una scuola che continui a dirsi laica.
E che dire della relazione tra il dentro e il fuori dei saperi, ovvero una riflessione rinnovata sui contenuti? O tra il dentro e il fuori del mondo del lavoro, come doppio movimento critico, non come asservimento irriflessivo? Tra il dentro e fuori delle istituzioni e del territorio, come relazione con le altre istituzioni che lo animano, dagli enti culturali a quelli locali, con cui pure bisogna creare alleanze? 

C'è davvero tanto da fare: bisogna rimboccarsi le maniche chiedendo alla scuola, umilmente, senza la presunzione di trasformarla dalle radici come se ogni volta fosse la prima volta,  di ritrovare se stessa e di rinnovarsi, non per appagare narcisismi e mercati, ma solo e semplicemente per essere all'altezza del compito che la nostra Costituzione le ha dato: "rimuovere gli ostacoli" all'uguaglianza tra le persone. 
 


* Intervento tenuto all'assemblea pubblica "Conoscenza e cultura" di Liberi/e uguali, 16 dicembre 2017, hotel Quirinale, Roma, su invito in qualità di Assessore all’Istruzione del Comune di Napoli

Di che cosa parliamo

La scuola, se è vera scuola, scomoda le coscienze e le scuote dall'indifferenza poiché è luogo e pratica di democrazia, di inclusione, di tolleranza, di convivenza solidale.
La scuola, se è vera scuola, è contraria al pensiero unico, al conformismo, alle mode, al quieto vivere perché è luogo e pratica di riflessione critica, di sguardo problematico, di pensiero divergente.
E per questo la scuola è scomoda.
È  scomoda perché pratica e rispetta le diversità e i disagi, ma spesso vi si lascia travolgere e inibire e allora diviene scomoda a se stessa.
E deve essere scomoda anche per tutti coloro che la vorrebbero luogo di competizione, di gara, di apprendistato all'arrivismo e alla prevaricazione.
In tal senso  la rubrica raccoglie e racconta momenti e situazioni di scuola "scomoda", talvolta anche per se stessa e spesso per i territori in cui come Istituzione vive e agisce.

L'autrice

Insegnante di liceo, collabora a contratto con la cattedra di letteratura italiana dell'Università Orientale di Napoli; è stata per due mandati Assessore all'Istruzione del Comune di Napoli al servizio della scuola della sua città, intesa e praticata come diritto inalienabile e bene comune. Attualmente è dirigente scolastica a Torino. 


 

maestri copertina

Annamaria Palmieri, Maestri di scuola, maestri di pensiero, Aracne, Ariccia, 2015, pp. 246, 14 euro in volume, 8,4 euro in PDF

Nella storia dell’Italia post-unitaria la scrittura letteraria dei maestri-scrittori ha assunto un’importanza straordinaria, perché proprio la scuola ha dovuto affrontare i problemi fondamentali, e tuttora in parte irrisolti, di formazione dell’unità culturale, umana e linguistica della nazione. L’autrice affronta il nodo interpretativo di questa narrazione compiendo una scelta esemplare: tre ‘maestri’, Pier Paolo Pasolini, Leonardo Sciascia e Lucio Mastronardi, che sono stati scrittori e intellettuali e che hanno vissuto in un’aula scolastica un momento determinante della loro esperienza esistenziale. Per tutti e tre, la scuola fu il luogo di una delusione ma anche della denuncia, humus originario del loro impegno civile, contro la degenerazione del capitalismo e le storture di una società iniqua che vanificava l’utopia democratica ed egualitaria su cui la scuola di massa era nata o stava nascendo: eroi moderni del racconto di un’umile Italia che vive un’ultima stagione di ‘resistenza’ contro la trasformazione in una nazione senz’anima e senza cuore.               

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