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di Maurizio Muragliastereotipando

08/12/2023

L'alunno è consapevole

Se si fa mente locale, occorre riconoscere che tantissimi risultati che i docenti attendono dai discenti nelle aule scolastiche sono formulati a partire da questa proposizione: l’alunno è consapevole che o di eccetera. Nessuno oserebbe mettere in dubbio la legittimità e la serietà pedagogica di un simile assunto, perché il senso comune scolastico ama pensare che gli allievi molto spesso non siano consapevoli di quanto questo o quel comportamento possano essere produttivi (o nocivi) sia in campo educativo che didattico, adottando qui una dicotomia alquanto problematica, perché in ambito scolastico non si dà educazione senza insegnamento e non si dà insegnamento senza che esso risulti educativo. Almeno per principio.
Risulta utile pertanto esplorare, come questa rubrica ama fare, l’assunto dell’alunno “consapevole”, perché è possibile, anzi probabile, che la sua trasformazione in stereotipo valutativo neutralizzi la possibilità di generare, nei docenti, una consapevolezza pedagogica - questa volta sì - più evoluta, che qui tento di illustrare.

Il passaggio dall’inconsapevolezza alla consapevolezza rappresenta un processo umano virtuoso, su questo non ci piove. La psicanalisi ne fa un caposaldo, per fare solo un esempio. Di converso si sa bene quanti danni procuri l’inconsapevolezza. La invocano addirittura gli avvocati, quando per difendere crimini efferati chiedono la perizia psichiatrica per accertare l’incapacità di intendere e di volere dell’accusato. Meno consapevolezza uguale meno colpa. Nessuna consapevolezza, nessuna colpa.

Non sorprende quindi che l’educazione e l’istruzione vadano in cerca di consapevolezze e le pongano come obiettivi formativi. Ma è il terreno educativo quello più deputato ad ospitare la proposizione l’alunno è consapevole, perché in ambito di istruzione le acquisizioni di consapevolezza sono formulate in termini di competenza: l’alunno è in grado di fare questo e quest’altro. E lo è perché sa quel che fa. Appunto, è competente. Invece quando si formula in modo esplicito la proposizione l’alunno è consapevole, entrano in gioco di consueto aspetti valoriali, quali la difesa dell’ambiente, il rispetto degli altri e delle regole e via discorrendo. È consapevole del valore, dell’importanza, eccetera.
Negli ultimi tempi, le tristi cronache riguardanti la violenza di genere hanno riproposto con forza la necessità di una presenza della scuola sul terreno dell’educazione affettiva, sentimentale e sessuale. Ho avuto già occasione di ragionare a proposito di questa superfetazione di insegnamenti, e qui vorrei rivisitare la questione proprio osservando lo stereotipo della consapevolezza, che risulterebbe essere l’esito virtuoso di questi interventi auspicati dagli opinion makers e, a quanto si vede, predisposti dall’attivismo ministeriale, che giustamente non può mostrare di starsene con le mani in mano.
Esito virtuoso dunque. Del genere: l’alunno è consapevole della presenza di modelli patriarcali nel tessuto sociale; o ancora: l’alunno è consapevole degli stereotipi di genere che connotano la comunicazione quotidiana. O altre consapevolezze virtuose. È evidente che queste sono generate da insegnamenti, e che tali insegnamenti sono opportuni e auspicabili. Se non ho mai riflettuto sui modelli patriarcali la scuola mi darà occasione per riflettere, e così per gli stereotipi.  Ma siamo sicuri che i discenti appartenenti a famiglie mafiose non siano consapevoli di che cos’è la criminalità organizzata? O che i politici quando erano studenti non fossero consapevoli dell’importanza che assume la politica quando si concepisce come servizio e non come potere?
Lo stesso può dirsi per l’ambiente, per la legalità e per tutti quegli ambiti della vita che la scuola tratta per generare “consapevolezza”. Il punto è che la scuola un simile obiettivo può perseguirlo, perché è suo compito fornire l’attrezzatura culturale necessaria per sapere ciò che non si sa. Ma conoscere il bene, checché ne pensasse Socrate, non vuol dire farlo. Certo, essere consapevoli è condizione necessaria per esercitare la virtù, e questa è l’istruzione. Ma praticare la virtù richiede un combinato disposto molto più ricco, sintesi dell’azione congiunta di scuola, famiglia,  territorio, media e…politica. Sì, proprio la politica che tanto si straccia i capelli per invitare la scuola a fare la sua parte forse dovrebbe riflettere sui modelli comunicativi e culturali che veicola quotidianamente. I politici che si abbandonano a stereotipi sessisti e alla violenza verbale lo fanno perché non sono “consapevoli” della loro deontologia oppure perché il loro humus psicologico e culturale non consente a questa consapevolezza di tradursi in prassi?

Di che cosa parliamo

Traendo spunto da espressioni molto popolari negli ambienti scolastici, la rubrica scava nelle logiche implicite di certe affermazioni e lascia intravedere quale concezione di scuola e di didattica a esse soggiace. È un’occasione per rimettere a fuoco alcuni fondamentali della professione tentando di smascherare le pedagogie implicite che si annidano dietro i miti e i riti linguistici della scuola.

L'autore

Insegna Lettere in un Liceo di Palermo. In qualità di esperto di questioni educative e didattiche svolge attività di formazione per le scuole e scrive su riviste specializzate. È  anche opinionista de "la Repubblica" di Palermo sugli stessi temi. I suoi interessi riguardano soprattutto il rapporto tra curricolo, saperi e competenze. Sul curricolo nel 2011 ha pubblicato un libro per Tecnodid.

www.mauriziomuraglia.com