Occorre capire se la scuola sia conseguenza della società o la società conseguenza della scuola. Questo dilemma nasce dalla frequenza ossessiva con cui tutte le derive della società fanno invocare un intervento della scuola. Non voglio riferirmi soltanto agli ultimi terribili fatti di cronaca e alle dichiarazioni dell’attrice Paola Cortellesi, che interviene sul tema della violenza sulle donne sull'onda del successo cinematografico di "C'è ancora domani", e vuole l’educazione sentimentale quale materia scolastica.
Voglio affrontare una questione di metodo.
Chi vuole gettare tutto il male sociale sotto i riflettori della scuola e riempire le pagelle scolastiche di decine di colonne corrispondenti a tutte le questioni irrisolte nel sociale, ha probabilmente perso di vista proprio il senso della scuola, che va ribadito, perché il rischio di questo dilettantismo allarmistico è quello di sommare insegnamenti ed educazioni fino a creare percorsi curricolari in cui convivono, senza integrarsi, discorsi su tutto quello che riguarda la vita umana, la vita sociale, la vita lavorativa, la vita culturale. Purtroppo il ruolo della politica finisce per opacizzarsi andando appresso all’intellettuale, opinionista o vip di turno, la cui voce risuona tanto più forte quanto più l’opinione pubblica viene raggiunta da ogni sorta di efferatezze.
C’è un implicito dietro le proposte di introdurre questa o quella educazione nella scuola. Che la scuola di certe cose non si occupi, che, cioè, nel suo quotidiano manchino pezzi di sapere. Il tema mancante sarà di volta in volta l’ambiente, la sessualità, la violenza di genere, la finanza, la cittadinanza, ma la musica non cambia: questa scuola non parla di ciò che è urgente trattare. Significa che tutte le mattine, dai 3 ai 19 anni, la scuola fa altro da quel che andrebbe fatto. E cosa fa? Basterebbe sfogliare i piani dell’offerta formativa delle scuole per vedere che questa scuola è ormai un suq. Le discipline tradizionali occupano un ruolo residuale, sommerse come sono da progetti, uscite, partecipazioni ad eventi, conferenze, incontri con l’autore, una pletora indescrivibile di occasioni formative riguardanti tante volte proprio gli stessi temi sui quali si invoca l’intervento della scuola stessa.
Ma non basta tutto questo, perché ancora si uccide. E la scuola che fa? Spiega da una cattedra il patriarcato? E se non lo spiega non sarebbe necessario insegnare il rispetto e i sentimenti? E chi deve farlo? In quante ore settimanali? E come si fa a vedere se l’allieva o l’allievo imparano? Li si interroga su come si rispetta il genere? E se risponde bene che si fa, gli si mette un voto alto? E se poi uscito da scuola comincia a maltrattare la sua ragazza come la mettiamo?
Sono domande politicamente non corrette. Perché puntano ancora volta il dito sull’ingenua convinzione, che fu già di Socrate, che conoscere il bene equivalga a farlo. Ed è ben noto che la cosa non sta così, perché il bene è bensì questione di conoscenza, ma molto più di postura etica, di atteggiamento, di evoluzione esistenziale. E quest’ultima, la scuola, come la determina? Come la favorisce? Certo, facendo conoscere, spiegando, illustrando. Quando? In ore dedicate? Da parte di docenti dedicati?
Dalla retorica dovremmo tenerci ben lontani, quando si parla di crescita di minori e di idea di cittadinanza. Fa molto effetto attribuire alla scuola il compito di sanare la società, ma la scuola di quella società non è solo madre, è anche figlia, e alla politica, piuttosto che fare propaganda amplificando furbescamente il senso comune, toccherebbe disporre le cose in modo che le virtù della madre-scuola transitassero alla figlia-società, e questo può accadere se la prima riesce a rimuovere gli ostacoli che impediscono al potenziale femminicida di praticare la sua barbarie. Ma questi ostacoli come si rimuovono? Chi deve farlo? Docenti sottopagati, demotivati, precari, che non hanno più voglia di (ri)formarsi e che sono seppelliti da quintali di burocrazia e di adempimenti cui ottemperano in modo subalterno? È questo sottoproletariato intellettuale, cui neppure tocca il beneficio di un contratto e che la politica ipocrita blandisce con periodiche elemosine, a doversi intestare l’ennesima “educazione”?
Quando si dice che la scuola dovrebbe far questo e quello, bisognerebbe intervistare gli insegnanti e capire come si svolge la loro vita all’interno delle scuole. Che compiti hanno, che clima respirano, che frustrazioni vivono. Prima di affibbiare alla scuola il compito di risanare la società dai suoi mali, bisognerebbe avere l’umiltà di entrare nel merito di quel che a scuola si insegna e si impara. Si dice comunemente che l’Italia calcistica è fatta di tutti commissari tecnici. Quella scolastica pare fatta di tutti ministri dell’istruzione. Con più o meno merito.