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21/12/2015

"Più dettati e riassunti fin dalle elementari"? NO GRAZIE!

di Mario Ambel

Vorrei provare a spiegare perché quella frase/raccomandazione pronunciata dal Presidente del Consiglio alla Leopolda non è solo inaccettabile, ma anche irricevibile, ovvero perché non solo non può e non deve essere accettata dalla scuola poiché sbagliata, ma perché non dovrebbe neppure essere ricevuta poiché inopportuna e in parte illegittima. E quindi non avrebbe dovuto essere pronunciata. Per almeno tre ordini di ragioni.

La legittimità istituzionale e politica
La prima ragione riguarda la natura e le competenze dell'emittente e quindi la legittimità istituzionale e politica della frase.
Il Presidente del Consiglio Renzi (qualsiasi Presidente del Consiglio a meno che non sia un pedagogista o un linguista che si occupi però di scuola e didattica) non ha le competenze per fare quell'affermazione; e intendo qui "competenze" nella loro duplice accezione (raro che convergano entrambe con tanta efficacia): di conoscenze applicate a un contesto di sapere e di esperienza e di prerogative legate al ruolo. Nel senso che, a quanto ci risulta, non si è mai occupato in modo scientifico e professionale di come e in che modo possano essere incrementate le competenze linguistiche degli allievi e come vadano distribuite lungo l'iter formativo le attività didattiche che consentono di acquisirle e di rinforzarle. Inoltre, il Presidente del Consiglio non ha fra le sue prerogative istituzionali quella di orientare le scelte tecniche e professionali di una categoria seppur nevralgica e pubblica, come gli insegnanti di italiano.

Il Presidente del Consiglio ha il diritto, per esempio, di chiedere “Risultati più efficaci nell'insegnamento dell'italiano” e soprattutto avrebbe il dovere con l’intero Governo di creare le condizioni perché ciò possa avvenire, ma non ha nessuna legittimità e credibilità nell'indicare come raggiungere quello scopo. A meno che sia stato qualche suo consigliere tecnico ad avergli suggerito quella soluzione. Per esempio la Ministra dell’Istruzione o qualche consigliere della stessa Ministra. Ma qui si aprirebbe una questione assai delicata e irrisolta nel nostro Paese: il rapporto fra politica e strutture tecnico-scientifiche e le relative fonti di competenza. Nonché la natura dell'autonomia e della dignità professionale dei consiglieri istituzionali del Governo e dei Ministeri, troppo abituati a limitarsi a tradurre in modalità applicative le leggi dello Stato e i provvedimenti conseguenti e assai meno coinvolti e quindi impegnati a orientarne scientificamente le scelte...

Si potrà dire che alla Leopolda, Matteo Renzi non parlava da Presidente del Consiglio e neppure, a stare appresso alle disquisizioni politiche che così tanto infiammano il paese pseudoreale, da Segretario del partito di maggioranza, bensì da influente personalità della società politico-civile. In questo senso avrebbe potuto anche esprimere un auspicio sebbene il contenuto rappresenti una forte ingerenza nell'autonomia professionale di una intera categoria. E tocca allora a quella categoria reagire con fermezza e – mo’ ce vole- reale competenza. Se Renzi avesse detto: “Più cloroformio, etere e garza sterile nelle sale operatorie”, pensate che gli anestesisti non sarebbero insorti?

La legittimità ideologica
La seconda ragione riguarda le connotazioni dell'enunciato e quindi la sua legittimità ideologica. La frase pronunciata da Matteo Renzi alla Leopolda ha un significato in sé chiaro, invitare a far fare ai bambini delle elementari più dettati e riassunti, ma soprattutto ha implicazioni connotative altrettanto chiare: evoca e auspica un modello assai tradizionale di insegnamento dell'italiano.

Il problema di quell'affermazione infatti non sta tanto nella natura e credibilità specifica della proposta, ma nel suo indotto ideologico fortemente conservatore. Al di là degli effettivi meriti pedagogici di dettati e riassunti (per altro tutti da discutere e dimostrare) è innegabile che quella frase evoca un'idea di scuola che sa di calamaio e pennino. È l'immagine di una scuola che - benché continui ad avere estimatori e interpreti - era vecchia già nella prima metà del secolo scorso e contro cui si scagliarono, poiché classista e repressiva, Don Milani e, nello specifico dell’educazione linguistica, le “Dieci tesi per un'educazione linguistica democratica” di cui quest'anno è ricorso il quarantennale.

Non è un caso che una delle più lette esponenti del filone di pensiero neoconservatore in fatto di scuola - Paola Mastrocola - abbia ingaggiato tempo fa una polemica proprio contro Don Milani e Tullio De Mauro, campioni, a suo dire, di quel rilassamento dei costumi educativi e pedagogici che avrebbe portato la scuola italiana ai bassi livelli attuali, reali o presunti che siano. E l'abbia fatto incontrando il consenso di chiunque guardi alla scuola attraverso le lenti deformate del senso comune.

E qui c'è un altro duplice problema che abbiamo più volte denunciato su questa rivista: che sulla scuola tutti si sentono autorizzati a pontificare, se non altro per averla fatta (o subita), e si sproloquia sulla base di un senso comune di stampo passatista, che di solito identifica la scuola con quello che si fa al liceo (classico) e con quello che serve a chi al liceo (classico) dovrà andare.
Ideologia passatista e pensiero unico da bar dello sport sono in questo caso gli scenari culturali che quella frase evoca, induce e alimenta. Il problema è che da troppo tempo, in questo paese, l'unico parametro di scelta della politica è il consenso di natura demagogica e un poco populista. E qui i dettati e i riassunti (come già le tabelline e i grembiulini della Gelmini, per non parlar dei voti!) sono uno strumento assai fertile ed efficace.

La legittimità pedagogica
La terza ragione riguarda il merito della questione e quindi la legittimità pedagogica di quella frase. Ovvero, veniamo infine alla questione più importane per gli insegnati e del tutto insignificante (purtroppo) per un politico contemporaneo: l'effettiva efficacia e credibilità scientifica di una soluzione proposta, in questo caso la valenza pedagogica di dettati e riassunti nella scuola elementare.

I dettati e i riassunti sono pratiche didattiche assai consolidate e sono procedure linguistico-cognitive molto serie. Vanno trattate e usate con elevate competenze scientifiche e metodologiche, soprattutto oggi, in classi multietniche e in tempi di scrittura digitale e supporti flessibili.
Vanno per esempio messe in rapporto con le molteplici varianti fonetiche che oggi convivono nelle nostre classi e che rendono risibili i tormentati rapporti degli anni Sessanta/Settanta di veneti e sardi con lo scempiamento o il raddoppiamento consonantico, dei piemontesi con la diminuzione biconsonantica “sc” di scemo in semo, o dell'intero Paese con il dramma eterno dell'acca o dell'accento nei due verbi più usati o dell'apostrofo in qual è e cos'è.  E, certo, vanno messi in relazione anche con l'universo del T9, ma non contrapposti in una sorta di battaglia luddista senza speranza, fatta poi da uno che usa Twitter per chiosare spesso il radioso corso che il suo governo garantisce al Paese! O con la funzione di riconoscimento vocale per la dettatura dei testi a pc e iphone.
Per quanto riguarda il riassunto (e perché no la parafrasi?) è necessario studiare con molta attenzione le potenzialità dell'intera gamma delle riscritture e i rapporti che hanno con il comprendere e il produrre testi o l'usare testi di altri nelle produzioni proprie o con la differenza fra sintesi dal basso e sintesi dall'alto...

E ancora, di entrambi, dettati e riassunti, si dovrà valutare la differenza fra impiego consapevole in attività graduali corredate da riflessioni metacognitive e autovalutative oppure come routine esercitativa affidata all'illusione di antiquate terapie comportamentiste.
Insomma, andrebbero affrontati in un contesto che impone studio e approfondimento metodologico anziché evocare scenari retrò. Sul dettato, per esempio, si può leggere Elisa Farina, Il dettato nella Scuola Primaria. Analisi di una pratica di insegnamento, Franco Angeli, 2015; sul riassunto Dario Corno, Scrivere e comunicare. La scrittura in lingua italiana in teoria e in pratica, B. Mondadori, 2012. Ma solo per citarne alcuni...

E a nulla serve che alcuni ex alunni, per lo più “portati” e protetti da contesti sociofamiliari adeguati, ricordino quanto efficaci siano stati i dettati e i riassunti nel loro apprendistato linguistico. Bisognerebbe chiedere che cosa ne ricordano i loro compagni bocciati prima del compimento degli studi... Perché ben poche attività portano sulle spalle, come i dettati e i riassunti, il peso della discriminazione. Insomma, su argomenti come questi servirebbero studio, ricerca e sperimentazione, ovvero competenza professionale. A nulla serve che da un palco dalla natura non meglio identificata un politico pronunci una frase che evoca nei genitori una serie di richieste antitetiche alla storia della didattica della disciplina e che semina zizzania dove il Presidente del Consiglio vorrebbe veder crescere solo italici fiori profumati...

Per questi motivi quella frase è inaccettabile e irricevibile. Una buona occasione per tacere persa. E la quantità dei consensi che può aver suscitato è segno della sua pericolosità, non della sua adeguatezza, opportunità e pertinenza. La scuola ha bisogno da parte di chi governa di orientamenti autorevoli e competenti, non di battute a effetto che scatenano catene di effetti collaterali spesso ingovernabili.

Ma in realtà il Presidente Renzi non è solo. Anche la Ministro dell'Istruzione francese Vallaude-Beukacem è dello stesso avviso: “Un dettato al giorno: la ricetta francese per gli errori grammaticali”.  E qui non si può certo dire che la Ministra dell'Istruzione, in quanto tale, non sia legittimata a intervenire. Ma bisognerebbe ragionare sulle differenze nel rapporto fra dimensione fonetica e trascrizione grafica nelle due lingue, ma anche sul fatto che la ripetitività ossessiva della "mela al giorno" non leva di per sé l'errore ortografico di torno...
Insomma, l'Europa anche in fatto di scrittura conferma che di fronte al crescere della complessità si fa fatica a non adottare soluzioni conservatrici. E pensare che una volta erano proprio le difficoltà ad aguzzare l'ingegno e a favorire il sorgere e il diffondersi di idee e soluzioni nuove! Talvolta persino rivoluzionarie: noi, invece, siamo fermi al dettato e ai riassunti. O alla necessità di tornarci!

Immagini

Dall'alto: due voci da Stefano Pietro Zecchini, Dizionario dei sinonimi, 1860; due voci da Pietro Fanfani, a cura di G. Frizzi, Vocabolario dei sinonimi della lingua italiana, 1884; immagini tratte da www.dizy.com ; "Dettatura" in una scuola di Bolzano, nel 1948, da www.emscuola.org
 

Video a lato: da Impariamo italiano, www.impariamoitaliano.com

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Scrive...

Mario Ambel Per anni docente di italiano nella "scuola media"; esperto di educazione linguistica e progettazione curricolare, già direttore di "insegnare".

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