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09/09/2020

Le nostre priorità per la scuola pubblica

di Cidi Pescara

Il Cidi di Pescara, il cui direttivo ha lavorato incessantemente durante tutta l' estate, ha prodotto questo documento pensando alla riapertura delle scuole a Settembre e non limitando il pensiero al puro rientro in sicurezza, al distanziamento, alle norme anti-covid etc.,ma dedicando la riflessione e la discussione alla didattica e al percorso curricolare messi decisamente  un po' in ombra in questi tempi di Covid.
Il documento è stato presentato  il 7 settembre 2020 nell' Assemblea Pubblica di "Priorità alla scuola", alla cui organizzazione  locale e nazionale  abbiamo aderito in questa fase di mobilitazione.
Questo contributo fa seguito al nostro  
Manifesto per la scuola, di luglio 2020- (Mariella Ficocelli, Presidente del Cidi Pescara).

Per noi docenti priorità alla scuola significa innanzitutto garantire l’istruzione scolastica in sicurezza per la piena attuazione del diritto allo studio e alla salute, così come stabilito dalla Costituzione, senza che l’uno venga sacrificato a discapito dell’altro.
Un’esigenza che, naturalmente, ci accomuna a tutti i cittadini e ci unisce al coro di protesta per le inadempienze riscontrate. Come in mille altre occasioni, anche in questa delicatissima decisione sulle modalità di ripresa, siamo risultati del tutto marginali:  siamo stati interpellati in pochi, occasionalmente e spesso solo per pura formalità, pertanto esclusi, di fatto, dal dibattito e dalle decisioni.

Si sarebbero potuti differenziare gli orari di ingresso e di uscita; si sarebbe potuto favorire, là dove ce ne fossero state le premesse,  una didattica diffusa sul territorio, interagendo con i soggetti pubblici coinvolti, utilizzando anche spazi esterni ai singoli istituti. Di sicuro sarebbero stati rappresentati i bisogni formativi di chi ha pagato più di ogni altro il fermo della scuola, cioè  gli alunni diversamente abili per i quali soluzioni approssimative, come i banchi monoposto o il calcolo dei centimetri, tornano drammaticamente in  beffa. Se ne sarebbe dovuto discutere: ed è ciò che non è accaduto per  una presa di posizione ben determinata a livello governativo, purtroppo favorita, occorre riconoscerlo, da una iniziativa di partecipazione critica  finora scarsa o poco incisiva da parte dello stesso corpo docente. Di fatto sono state poste solide premesse per l’ “integrazione” della DAD all’interno della didattica ordinaria, nell’immediatezza del presente o nel prossimo futuro.

Si è fatto apparire tale orientamento  come il più “semplice”, il più “realistico”,  il “meno problematico”: in realtà corrisponde ad una fase di ristrutturazione dell’economia globale in cui le grandi imprese della “new economy” prendono il posto di quelle della “old economy”, ridefinendo i rapporti di potere all’interno del sistema capitalistico globale e nei rapporti con la forza lavoro, trascurando i diritti, la concreta realtà e le storie degli individui. In particolare rispetto alla scuola le conseguenze gravi di questo processo  sono la riduzione del diritto allo studio per la generalità degli studenti e la radicale trasformazione dell’attività scolastica in puro e semplice processo amministrativo ed informativo.

Anche sul versante sindacale abbiamo trovato  conferma di una resa sostanziale: le maggiori organizzazioni sindacali hanno ritenuto che l’emergenzialità della situazione giustificasse lo stravolgimento della prestazione di lavoro e  - di fatto - del suo stesso contesto contrattuale , finendo coll’accomodarsi  alle linee guida: nessuna discussione “in presenza” con i lavoratori e, nemmeno, vere discussioni “online”.

Volendo poi centrare più direttamente le questioni di valenza didattica coinvolte in questa mutazione, la gravità del passaggio, di cui siamo ben consapevoli, ci obbliga a un’analisi complessiva, considerando i problemi attuali nella relazione con quelli  prima del covid:

Didattica prima del Covid

Denunciamo la "malautonomia", un’esperienza fallimentare  in cui, nell’arco dell’ultimo ventennio, abbiamo assistito alla perdita progressiva dei significati e delle aspettative nati dal dibattito pedagogico e didattico dei decenni precedenti.

L’autonomia doveva promuovere  una gestione democratica e collegiale, una comunità di ricerca/ formazione sul sapere  - contenuti disciplinari - e sui metodi  - procedimenti, strategie prima che strumenti - utili a raggiungere gli studenti, ciascuno nella sua concreta realtà soggettiva. Dunque una comunità inclusiva rispetto ai fini, fondati sul mandato costituzionale, ma anche rispetto all’organizzazione: prevedendo l’interazione collegiale/orizzontale dei docenti e di tutti i membri - operatori, genitori, istituzioni, enti -  per quanto si riconosca all’istituzione scolastica  il ruolo di promotore e responsabile del processo formativo.

Ora le direttive ministeriali che si sono avvicendate – da Moratti alla “Buona Scuola”-  hanno ignorato o snaturato questo progetto, pur se con diverse modalità,  ponendo in primo piano valori estranei a quelli del  dibattito pedagogico democratico: 
a) il taglio alla spesa pubblica, imposto come fine a se stesso, scollato da ogni considerazione riguardo le conseguenze  assai negative  sulla proposta didattica e sul  numero degli alunni;
b) un principio di competizione, vuoi fra scuole – ossia istituzioni dello stesso sistema pubblico – vuoi fra docenti, distinti  per legge fra più bravi / meritevoli e meno bravi,  accettando in via preliminare che la scuola pubblica non  si impegni al massimo per rimuovere eventuali debolezze nell’ offerta formativa;
c) la gestione verticale, modellata sul criterio efficientistico dell’azienda che produce  grazie alle scelte vincenti del manager e del suo staff: nell’attuale realtà scolastica a discutere sono in pochi, gli stessi che  stabiliscono  i “piani di sviluppo” dell’offerta formativa secondo una ristretta catena di comando,     lasciando ai più una funzione soltanto esecutiva;
d) un principio di subordinazione per cui la scuola tende a stabilire relazioni con altri enti territoriali in posizione subalterna,  in assenza  di una   visione autonoma e critica del mondo, coerente con le finalità formative sue proprie.

Tali principi, pur chiaramente contraddittori rispetto a quelli definiti nel corso del dibattito pedagogico precedente, si sono insinuati nelle diverse realtà dell’autonomia in forme subdole o quanto meno ambigue: non hanno prodotto una netta frattura, ma contaminazioni lente e sottili, purtroppo  spesso profonde, un fenomeno  inquadrabile  nella crisi valoriale che a livello culturale e politico coinvolge ormai le pratiche democratiche in diversi contesti.

È accaduto a partire proprio dal linguaggio:  termini come  “progetto”, “innovazione ”, “laboratorio”, “inclusione” ,  “competenza”, “formazione” in questi ultimi due decenni si sono piegati  a interpretazioni diverse. Proprio questa confusione linguistica ha spesso impedito una discussione seria sulle questioni della didattica, venendo meno la chiarezza delle posizioni e le loro effettive differenze. E non è un caso se, parallelamente a questo fenomeno,  abbiamo assistito all’intensificarsi della burocratizzazione che ha prodotto modelli per ogni stagione. In nome di un efficientismo corrente, mai verificato sul piano della qualità, l’invasione della modulistica è risultata di sicuro utile a  inquadrare e omologare ogni attività e procedura, ricorrendo a  convenzioni d’uso così da evitare  ogni approfondimento o discussione di forma e di contenuto.

Priorità alla scuola significa oggi riportare al centro i valori della scuola democratica, snaturati o ignorati dalle pratiche dell’autonomia che dovevano invece esaltarli, dunque decidere  modificazioni strutturali coerenti:

 - una scuola dei gruppi invece che dello staff e del dirigente, organizzati per cercare, decidere, sperimentare e valutare, nel confronto/dibattito collegiale - in fase sia di progettazione che di attuazione - ogni  attività inerente la didattica, sul piano dei contenuti disciplinari, dei metodi e della relazione educativa, prevedendo  al massimo funzioni di coordinamento e supervisione da parte di personale  preposto;

- una formazione permanente dei docenti, tale che assicuri la qualità della didattica in ogni passaggio del percorso professionale, finalizzata a perseguire senza soluzioni di continuità obiettivi di inclusione ossia di  successo formativo per ogni singolo alunno, qualunque siano le caratteristiche che lo contraddistinguono. 

Dunque formazione intesa come autoformazione interattiva, capace di misurarsi con l’effettiva complessità e concretezza dei soggetti coinvolti, aperta alle incognite della realtà che sfuggono quasi sempre alle previsioni della modulistica. Dunque un processo difficile che all’occorrenza possa essere  sostenuto da gruppi di docenti esperti, selezionati secondo criteri trasparenti, stabilmente impegnati negli istituti al fianco dei loro colleghi.

Solo il recupero di una partecipazione attiva e competente dei docenti all’interno dei loro istituti garantirà alla scuola il riconoscimento sociale e l’autorevolezza che comporta una proposta  identitaria forte, quella che purtroppo  in questo momento non le appartiene.

Didattica in tempo del Covid

I docenti italiani, tecnologizzati e non, in massima parte  hanno reagito all’urgenza covid utilizzando la videolezione. Non c’è stato tempo per porsi troppe domande: occorreva trovare una soluzione di emergenza e lo si è fatto, pur sorvolando spesso sulla correttezza/complessità delle procedure per la scelta dei sistemi operativi e per la garanzia della privacy. Sappiamo tuttavia che da parte degli alunni le difficoltà sono state maggiori per svariate ragioni: dalla mancanza dei dispositivi alle difficoltà di connessione, ai problemi logistici legati a famiglie numerose in case spesso troppo piccole, alla indisponibilità dei supporti  famigliari per gli studenti delle scuole d’infanzia e primarie, di sicuro i più penalizzati non solo per ragioni tecniche e di contorno ma anche, forse soprattutto, per le difficoltà di adattamento psicologico alla brusca variazioni: di fatto altrettanti  impedimenti al diritto allo studio.

In questo frangente  molti docenti hanno potuto toccare con mano la differenza che esiste fra l’applicazione di uno strumento/tecnologia didattica e la scelta di un metodo: pur avendo acquisito, spesso anche agevolmente, l’uso dei programmi di connessione e di piattaforma, il consueto nodo didattico, ossia il problema di come scegliere e organizzare attività  e materiali in grado di promuovere esiti formativi, si è presentato senza sconti.  Anzi, la difficoltà è raddoppiata a seguito della forzatura e della congestione prodotte dall’urgenza e, soprattutto, a seguito della cancellazione improvvisa, spesso traumatica, dell’esperienza interpersonale, riconosciuta come  fondamento insostituibile di un  rapporto formativo: gli strumenti acquisiti, se da una parte  assicuravano contatti in modalità bidimensionale, d’altra parte approfondivano la mancanza, di fatto incolmabile,  della terza dimensione: lo spessore del soggetto studente e docente, il contatto effettivo, in presa diretta, con il suo sguardo, il suo corpo, il suo pensiero. Di qui  tentativi, ripensamenti, constatazioni di errori, correzioni  spesso approssimative; di qui la ricerca affannosa di supporti alla comunicazione, vuoi  scritta vuoi vocale, su piattaforma, mail, chat, comunque un intreccio di contatti prima non sperimentati.

Dunque  non si è trattato di un percorso lineare.
Solo che  a un certo punto questa storia “vera”  di incertezze e irrisoluzioni  è stata  ribaltata dalla “narrazione” ministeriale che, imperturbabile, già in quel di marzo,  chiedeva  ai collegi dei docenti di “rimodulare”, ossia letteralmente rappresentare sui consueti moduli di programmazione,  il caos che si stava vivendo: programmare l’improgrammabile. Una richiesta  beffa (per qualcuno offensiva della professionalità  docente), a conferma di logiche distorte già sperimentate:

 a) le astrattezze e le vuote convenzioni in cui si è avvitata la malautonomia, efficacemente  impersonata dalla gestione ministeriale;
b) il qualunquismo  irresponsabile che in questo caso faceva della videolezione un procedimento di didattica scolastica cioè di didattica formativa; 
c) una sorta di realismo magico per cui è bastata una variazione linguistica ricca di suggestioni - il prefisso ri- davanti a modulazione – per rendere fattibile e reale l’innovazione: detto-fatto.

 Ma va pure osservato che in questo esercizio di creatività il Ministero trova sempre il suo bravo stuolo di sostenitori: nel pieno del caos disorientante, invece che concentrarsi sulle difficoltà urgenti in corso, alcuni si sono calati in percorsi  illuminanti per l’addestramento su particolari e rifiniture dei programmi di piattaforma. Con ogni probabilità  l’hanno fatto in gran parte per piaggeria o per malinteso senso del dovere. 

 Ancora una volta si è trattato  di  finta formazione: solo che qui non era in ballo il lancio di una strategia ma uno stravolgimento della didattica:  data la posta in gioco, la pretesa innovativa si presentava come il top della finzione, uno sproposito imputabile vuoi a  malafede , vuoi a ignoranza, vuoi a irresponsabilità: molto difficile individuare la scelta indolore.  
In ogni caso  ne sono derivate preoccupazione e indignazione.       

A seguire queste reazioni sono state rafforzate dalle recenti linee guida ministeriali  che rilanciano le tendenze già emerse nel pieno della pandemia:  inventano e raccontano la didattica integrata come “cosa fatta”, conquista  deliberata dall’alto, d’ufficio, di nuovo mediante circolare. Non ci si abbassa neanche a una discussione:  è bastato, tutt’al più, il solito questionario-sondaggio di prima estate, prodotto,  letto e interpretato, come sempre, dai migliori: potenza dell’aziendalismo efficientista!             

Dunque le Linee guida per la Didattica digitale integrata  costituiscono un capolavoro di autoreferenzialità, infatti  stabiliscono d’ufficio:   

  • che un procedimento tampone, nato da una tragica urgenza, diventa innovazione strutturale;   
  • che un’innovazione didattica strutturale viene a coincidere con la semplice introduzione di una nuova tecnologia;
  • che si insegnerà/apprenderà in un rapporto virtuale, dando per buono che un’esperienza formativa possa avvenire attraverso una comunicazione di questo tipo;    
  • che il nostro patrimonio culturale  filtra allo stesso modo sia attraverso la mediazione di un programma informatico sia attraverso le scelte originali degli autori che l’hanno costruito;  
  • che questo patrimonio mediato tecnologicamente  diventa parte integrante del percorso istruttivo/ formativo di ciascuno studente italiano.

Il tutto – è opportuno ripeterlo per ribadirne l’assurdo -. senza avvertire la minima esigenza di un dibattito scientifico che fornisca  le ragioni teoriche cioè epistemologiche, in particolare pedagogiche e metodologico-didattiche, di queste decisioni, in una incuria o semplificazione irresponsabile che lascia sgomenti per la portata culturale e sociale della questione.

In questo doloroso contesto “priorità alla scuola” significa porre al centro dell’attenzione pubblica la domanda di fondo, la più semplice e spontanea, attualmente oggetto di una rimozione inaccettabile e colpevole da parte di chi ha responsabilità politiche: PERCHE’?               UN INTERROGATIVO A CUI NON SI TROVANO RISPOSTE COERENTI, a meno che la scuola, a cui la Costituzione dà mandato per la formazione dei cittadini, e dunque per l’attuazione delle pari opportunità, non possa rispondersi che va fatto così perché così fan tutti.

Giustamente la preoccupazione cresce e a questo punto è inevitabile rompere il silenzio che colpevolmente ha zittito o ridotto a voci di corridoio le critiche della classe docente, per troppi anni rassegnata al degrado come a un destino immodificabile.                                                                   

SOTTOLINEIAMO IL PASSAGGIO CRUCIALE CHE STIAMO VIVENDO, CI APPELLIAMO A TUTTI QUELLI CHE HANNO A CUORE IL VALORE CULTURALE E SOCIALE DELLA FORMAZIONE, IN PRIMIS AGLI INTELLETTUALI, ALCUNI DEI QUALI DI RECENTE HANNO RITENUTO OPPORTUNO LANCIARE UN GRIDO DI ALLARME CUI PERO’ E’ NECESSARIO DARE SEGUITO. MA CI RIVOLGIAMO ANCHE A ESPONENTI POLITICI E DEL MONDO DEL LAVORO.                                                                                                                        OCCORRE IMPEGNARSI PER PROMUOVERE UN DIBATTITO APERTO E FRANCO NON SOLO NEI COLLEGI DOCENTI MA ANCHE NELLE OPINIONI DEI CITTADINI: SE NON SARA’ POSSIBILE MODIFICARE GLI ORIENTAMENTI IN ATTO, ALMENO SI CONOSCERANNO LE RAGIONI DI CHI NON LI CONDIVIDE, LE RAGIONI DI CHI RIFIUTA IL PASSAGGIO AL DIGITALE COME PRATICA  PROMOSSA D’UFFICIO A METODOLOGIA DIDATTICA E CONSEGUENTEMENTE IMPOSTA DALLE SCELTE GOVERNATIVE. ALMENO SI SARA’ CHIARITA LA DIFFERENZA DELLE POSIZIONI E CIASCUNO SE NE ASSUMERA’ PUBBLICAMENTE LA RESPONSABILITA’.                   

D’altro canto, a ben vedere, una prima chiarificazione  è già  in atto ai vertici istituzionali. Qui ci piace sottolineare il parere critico alle linee guida ministeriali da parte del Consiglio Superiore della Pubblica Istruzione, un contraddittorio che ci auguriamo venga riprodotto anche nella discussione pubblica:

“La Dad è stata poi prevista all’interno del documento per la pianificazione della ripresa delle attività didattiche di cui al DM 39/2020, circoscritta però all’ipotesi che l’andamento epidemiologico configurasse situazioni emergenziali tali da rendere necessaria la sospensione dell’attività didattica in presenza. […] Senonché di queste Linee Guida, che propongono profonde modifiche strutturali, non sono evidenti quali siano i fondamenti   culturali, normativi, pedagogici e metodologici; conseguentemente le misure presenti, che peraltro sono di tipo didattico e organizzativo con ricadute ordinamentali non esplicite, rischiamo di apparire del tutto incongrue e immotivate con effetti invasivi dell’autonomia scolastica e professionale, con ricadute, al contempo, sulla prestazione di lavoro che è materia di esclusiva negoziazione contrattuale”.   (Dal "Parere CSPI su linee guida didattica digitale integrata del 5 agosto 2020".  (fonte flcgil).