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02/07/2020

Manifesto per la scuola

di Cidi Pescara

Il CIDI di Pescara ha elaborato un “manifesto” che raccoglie in una sintesi semplice i punti critici nodali  a suo avviso caratterizzanti la realtà attuale della scuola italiana.  Intende portare questo documento all’attenzione delle altre sezioni CIDI al fine di mettere a punto un testo comune che, attraverso opportune scelte strategiche da concordare, consenta di suscitare un dibattito finalmente pubblico sulla scuola, coinvolgendo le altre associazioni di docenti, gli intellettuali sensibili,  i sindacati, la stampa e la società civile. Al contempo si propone di promuovere l’ascolto e l’azione  di chi ha responsabilità politiche decisionali, auspicando vivamente una coraggiosa virata dagli orientamenti che hanno contraddistinto gli interventi governativi degli ultimi decenni da parte di Gelmini , Moratti e Renzi, anche in considerazione di eventuali risorse economiche da destinare alla scuola sulle quali, data la crisi, urgono scelte oculate e consapevoli.

Cosa significa oggi un manifesto per lscuola? Significa innanzi tutto  la piena consapevolezza di un passaggio drammatico vissuto dalla scuola italiana a causa delle nota crisi pandemica, uno scossone subito che merita un riassestamento ben governato. 
Significa in secondo luogo, ma non in secondo piano, un bilancio di circa venti anni di  mala gestione dell’autonomia  che ha progressivamente manipolato o svuotato  i fondamenti democratici  del progetto originario, nato dal qualificato dibattito pedagogico di fine secolo, un dissesto, anche questo, che impone un intervento riformatore urgente per quanto, lo riconosciamo, assai tardivo.
Dunque in un tempo di ricostruzione che tutti ci auguriamo garantisca, come dopo un terremoto, un ritorno effettivo e sicuro degli studenti nelle aule, non basta ripristinare l’assetto precedente: occorrono seri e qualificati interventi  sulle fondazioni. Del resto, se da più parti oggi (vedi il documento dell’associazione dei presidi e le iniziative di “formazione” tecnologica fiorite ovunque), fatta salva qualche prudenza di maniera, risulta persino  naturale immaginare un prosieguo della didattica a distanza come metodica scolastica, ciò rivela  appunto le crepe che minacciavano la tenuta dell’edificio già prima del tragico evento.

Insomma, siamo quelli del se non ora quando?

Confrontandoci abbiamo considerato le fragilità del sistema vigente, muri che sembrano aver perso i propri pilastri di appoggio, pochi ma pur sempre necessari alla tenuta dell’intero edificio: è in atto in forme scarsamente rilevate, ma persistenti, uno sgretolamento di senso che insiste sulla nomenclatura scolastica e sulle scelte e i procedimenti che ad essa afferiscono, creando un preoccupante effetto Babele, il quale genera quasi sempre disorientamento e, purtroppo, obnubilamento passivo. Per questa crescente sfasatura semantico/valoriale possono mescolarsi nello stesso  calderone parole/sensi contrapposti, contraddizioni raccolte appunto nell’introduzione del manifesto, a testimonianza del debordare del problema che chiama a una ridefinizione/chiarificazione/rinegoziazione e, si spera, nuova selezione delle questioni di fondo.

I sensi positivi da riconquistare tornano nell’elenco dei cinque punti a seguire: tuttavia, per una più agevole comunicazione dei contenuti, in questa sede riteniamo opportuna una più articolata presentazione di ciascuno di essi.

La scuola come esperienza formativa

Dicono che la didattica a distanza possa rappresentare un trampolino di lancio per una rivoluzione nella scuola: è vero che molti ci credono e si lanciano all’inseguimento  della  miriade di corsi che addestrano alle mirabilia informatiche. Eppure, a ben vedere, proprio questa esperienza offre chiari spunti per una riflessione critica piegata in tutt’altra direzione:  si è potuta toccare con mano  l’insufficienza dell’interazione con l’immagine, a meno che non si rimuova la finalità formativa di quel contatto. È capitato non solo a seguito delle turbolenze  o delle assenze  dei collegamenti: va soprattutto aggiunto che puntualmente gli strumenti a disposizione restituivano  frustrazione e straniamento, uno scoraggiante sentimento del limite dinanzi a cui, gioco forza, era possibile solo abbozzare accomodamenti improvvisati. Particolarmente faticoso il silenzio: l’entrata in “aula”senza voci, quando il dispositivo imponeva la propria regola persino sui chiacchiericci di sottofondo, così fastidiosi prima e quasi rimpianti dopo.     
Dunque mai come in questo periodo abbiamo avuto modo di sperimentare il significato dell’insegnamento come apprendimento,  ossia esperienza di imprescindibile condivisione sul campo. Il progetto didattico produce l’attesa di una modificazione che è tripolare: la qualifica l’interazione di studente e docente dinanzi al problema della disciplina, una tridimensionalità plastica che quasi sempre si rivela più complessa di ogni pur motivata previsione, proprio perché, in questo come in altri contesti, la realtà accolta senza filtri quasi mai si attesta su immaginifici standard  semplificatori, ma ci pone/ci sbatte dinanzi l’incognita che si porta dentro. L’azione didattica, pur impostata su un progetto di massima, effettivamente coincide con la soluzione più o meno compiuta di questa incognita, necessita come condizione non solo di una previsione  ma anche di una ricerca sul luogo e sul tempo reale dell’ hic et nunc: passione di realtà, non di artefatto, distinguo in ogni caso efficace  per cogliere la linea discriminante fra sequenza di addestramento e processo di formazione. La modificazione formativa risulta dunque dall’intreccio nascente di determinate azioni e reazioni, proprio quelle e non altre, energie di contatto o di conflitto che, addensandosi intorno alle domande disciplinari, producono/ formano, esse solo, nella loro storia precipua, nuova consapevolezza di studente così come di docente. 
L’esperienza della didattica a distanza, per la sua stessa ineludibile virtualità, obbliga a procedere per modelli, deprivando il processo della sua reale complessità e delle effettive interazioni problematiche che ne garantirebbero gli effetti formativi. In estrema sintesi è stata una esperienza di solitudine: di insegnante senza studente, di studente senza insegnante. Di qui probabilmente la reazione spontanea di molti docenti che si sono sentiti in obbligo di garantire comunque una sorta di accompagnamento integrativo, rendendosi disponibili h 24  per comunicare attraverso i file scritti e vocali, o per telefono, con i loro studenti. Ma è bene ricordare che durante la didattica a distanza non sono mancati solo gli studenti e i docenti, ma, riflettendo, c’è stato modo di avvertire anche la mancanza dei collaboratori, del personale di segreteria, dei genitori, insomma della comunità che, nel bene come nel male, sostanzia la natura sociale della scuola: si è trattato soprattutto di una esperienza di assenza. 

La scuola come luogo di studio

In quest’ultimo ventennio, le iniziative di formazione dei docenti (di cui parleremo più diffusamente nell’ultimo paragrafo) hanno gravemente trascurato lo studio disciplinare, sebbene a scuola ogni momento formativo nasca, almeno sulla carta,  dall’incontro con un nodo disciplinare. La competenza coincide con l’acquisizione consapevole di quel fondamento,  ossia un’acquisizione tale che sappia trasformarsi in  uno strumento utile per la produzione  di nuove conoscenze. Tuttavia, come già accennato, siamo in un tempo in cui le parole tendono a perdere i loro referenti originari, divenendo nell’uso altro da sé: di fatto “competenza”, nella vulgata del didattichese, ha spesso suggerito un infondato  alleggerimento, perfino un superamento, della sua  valenza  disciplinare, riducendo  il contenuto  a forma, privilegiando immotivatamente la trasversalità rispetto alla disciplinarità, senza contemplare l’ipotesi di una doppia coniugazione prospettica. Ebbene non concordiamo con questa seconda accezione semplificatoria  del termine: pertanto sottolineiamo la necessità di un impegno serio e sistematico nello studio degli epistemi disciplinari così  come dei loro sviluppi, unica via da tentare anche per fondare una  impostazione  pluridisciplinare che eviti forzature e banalizzazioni.
Ciò significa progettare/realizzare per i docenti percorsi individuali o di gruppo mirati all’approfondimento di determinate questioni disciplinari, attraverso la lettura critica di una bibliografia coerente, un obiettivo che ovviamente  chiama in causa una collaborazione fattiva con l’università: perché non consentire, ad esempio, accessi privilegiati dei docenti in servizio per seguire corsi di studio universitari o, comunque, la fruizione di consulenze scientifiche a rinforzo dei percorsi intrapresi?

La scuola come problema di metodo

Come già accennato, ogni attività didattica incrocia inevitabilmente la domanda del come? Ciò capita perché una conoscenza non basta a se stessa nel momento in cui diventa un problema didattico: immediatamente nasce la ricerca di un  modo efficace per tradurla  in un processo di assimilazione ed elaborazione  attiva, utile a coinvolgere e formare lo studente destinatario e a rifondare  nel docente la sua competenza disciplinare. Il metodo/tecnica di insegnamento/ apprendimento costituisce dunque il problema quotidiano in cui un insegnante è obbligato ad imbattersi in rapporto all’alunno, in rapporto a se stesso e ai propri oggetti di studio. Naturalmente un problema di metodo comporta anche la decisione degli strumenti più utili per il suo efficace espletamento, ma, attenzione!, si tratta di due questioni ben distinte,oggi allegramente confuse nella Babele di cui sopra, quando appunto i cosiddetti strumenti innovativi vengono presentati come la panacea di ogni problema, investiti di un potere taumaturgico che può prescindere da ogni sorta di investimento intenzionale di natura metodologica.
Così la scuola diventa quella degli strumenti, saltando a pie’ pari il rischio e la fatica della scelta del metodo: fatica peraltro davvero onerosa, al punto da diventare improduttiva, quando si è costretti a operare in classi sovraffollate o con un numero complessivo di alunni che, negli istituti superiori, spesso raggiunge le tre cifre. Infatti la ricerca metodologica, a contatto con la specificità e l’incognita che caratterizzano ogni alunno, non consente l’utilizzo di un determinato modello passepartout: ogni metodo necessita di essere ritagliato sul profilo del destinatario, tutt’al più adattato per piccoli gruppi di soggetti simili, ma di fatto non risulta omologabile. E si tratta di una verità della didattica democratica, che trova appunto ispirazione e coincidenza  nel mandato costituzionale dell’articolo 3, dove la “rimozione degli ostacoli”  implicitamente chiede a un docente di cercare la via giusta per consentire a ciascuno il superamento di ciò che gli impedisce di essere pari.
Questa sarebbe dunque la didattica inclusiva che, se tale fosse, accoglierebbe in sé ogni tipo di  problematica, indipendentemente dalla diagnostica medica che nella prassi ormai consolidata rende troppo speciale la differenza, etichettandola entro rigide categorie. Ne derivano due effetti negativi: da una parte le differenze certificate tendono a esaurirsi nella compilazione seriale di moduli all’uopo predisposti, dall’altra le differenze presenti negli alunni non certificati vanno a confondersi in un ibrido,  eclissate dalla presenza  burocraticamente rilevante di quelli già catalogati. Insomma, una moltiplicazione di fattori che nella sostanza tende purtroppo al prodotto zero: se vogliamo  essere precisi, gli unici segnali dall’alto nei confronti di questa ormai assimilata omologazione didattica si rintracciano nella questione delle “eccellenze”, tirate fuori di recente dal cassetto di chi ha piegato la logica della differenza fra pari alla logica della competizione e delle classifiche premiali.

La scuola come comunità effettiva.

Ripensare la collegialità comporta finalmente una denuncia delle mortificazioni e delle finzioni che colpevolmente noi docenti abbiamo tollerato e di fatto condiviso nell’arco di questo ventennio di malautonomia. Occorre intendersi: consigli e collegi in plenaria e suddivisi in dipartimenti sono diventati in altissima, intollerabile percentuale, delle messe in scena, di fatto organismi di ratifica, deliberanti su circolari ministeriali applicate secondo contenuti e forme che, quando non obbligati, sono stati sottoposti a interpretazioni univoche, a cura di pochi, del cosiddetto staff, da questo impacchettati vuoi in formule cicliche vuoi in soluzioni di urgenza, comunque sistematicamente/ossessivamente proiettati verso un destino di normalizzazione modulistica. Purtroppo una soluzione  assai fascinosa grazie all’esca semplificatoria del copia-incolla! ad azzerare ogni velleità di autonoma messa a punto o revisione critica. Di fatto  in tutto questo tempo le potenzialità propositive e decisionali del collegio sono rimaste schiacciate fra polo ministeriale e polo dirigenziale: un bipolarismo  che nella modulistica ha trovato il suo  punto di sintesi, utile a  trasformare l’azione propulsiva dei docenti in energia compilativa. Questa mutazione si è verificata ovviamente davanti agli occhi di tutti: per troppo tempo. Ne ha fatto le spese immediatamente la didattica: le scuole non sono diventate la comunità di ricerca e la fucina di sperimentazione  che la discussione sull’autonomia aveva profilato; in seconda battuta, è venuto meno il riconoscimento sociale di cui la scuola dovrebbe godere per il proprio mandato costituzionale: a poco a poco la debolezza della sua proposta, la mancanza di una progettualità condivisa e identitaria  le hanno fatto perdere di autorevolezza. L’espansione del cosiddetto progettificio può essere considerata un effetto assai negativo di questo fenomeno: i rapporti col territorio, le iniziative svariate - che dal corso di scacchi procedono fino agli stage aziendali - nella maggior parte dei casi attraversano la scuola come meteore, assemblate dal denominatore generico  del collegamento scuola-ambiente, senza che tuttavia si contempli l’ipotesi di un filtraggio valutativo o di un confronto  con le linee progettuali dei consigli che pure hanno formalmente provveduto alla compilazione del modello di programmazione iniziale e pure dei verbali di verifica.     

Questa schizofrenia è appunto un chiaro esempio della deprecabile divisione del lavoro che vede i docenti esecutori di una intellighenzia ideatrice, altra da loro: è necessario interrogarsi sulle cause, ma lo faremo solo quel tanto che basta per individuare possibili superamenti, senza cedere alla tentazione di leccarci le ferite che pure sono troppe e fanno male. Infatti il corpo docente ha molte responsabilità per questo degrado che lo colpisce al cuore: non è forse il docente un intellettuale? La critica, la discussione, la proposta non sono forse i canali espressivo-comunicativi di un intellettuale? Come è stata possibile questa progressiva rinuncia, fino ad accomodarci nell’attuale assetto divenuto una sorta di scenario obbligato, l’unico mondo possibile?  È prassi comprendere un fenomeno nel suo contesto.
In questi anni il lavoro del docente è significativamente aumentato in senso quantitativo: riduzione degli orari disciplinari, incremento del numero delle classi e degli alunni, spesso disagi logistici, frutto delle scelte al risparmio di alcune riforme citate in apertura. Nel frattempo nessuna risposta sul piano dei salari. D’altra parte la crisi economica, sociale e soprattutto culturale in cui siamo incastrati ha generato incertezze e preoccupazioni, annebbiando la visione del futuro che è necessaria per collocare una qualsivoglia proposta; ha favorito il ripiegamento, il disimpegno, concentrandoci sul principio di sopravvivenza o di privata convenienza.    
D’altro canto i limiti contrattuali della professione docente, le direttive intorno a cui di fatto si è organizzata  l’autonomia, ponendo in primo piano non la decisionalità dei docenti ma quella dei dirigenti e dei loro collaboratori, hanno favorito un’interpretazione astratta e fuorviante della collegialità, appunto uno di quei termini ridotti a significante: tutti assistiamo ormai senza battere ciglio alla farsa dei consigli una tantum che oscillano fra la mezz’ora e i tre quarti d’ora, un tempo in cui, guardandoci negli occhi, dovremmo discutere/progettare/proporre/valutare/ decidere percorsi che gioco forza finiscono zippati nelle litanie modulari già pronte all’uso. Infine la riforma Renzi ha probabilmente inferto il colpo di grazia:  ha blindato il potere del preside, confermato l’assetto verticale-aziendalistico dello staff, ha esaltato il criterio del “merito”, quello per grazia ricevuta da chi ha il potere  di riconoscerlo, producendo necessariamente piaggeria e competizione, effetti non di certo coesivi sul piano relazionale, i quali hanno favorito in molti la scelta di partire per la scalata  al potere, spesso anteponendo “meritoriamente” il proprio piccolo tornaconto privato alla cosa pubblica. Qui davvero il cerchio si è chiuso: il veleno ha saputo dotarsi degli antidoti che lo hanno reso sopportabile. 

Bene , è ora di spezzare questo cerchio:  cercare nel cuore della  tragedia Covid un riscatto, dovuto alla scuola e alla società tutta di cui la scuola dovrebbe essere fonte virtuosa. E’ tempo di svelare l’inganno di un’autonomia senza tempi, senza spazi, senza le strutture in cui far crescere le  comunità dei docenti, finalmente consegnati al loro ineludibile ruolo di ricercatori/ sperimentatori, strumento necessario agli obiettivi della Costituzione. In questo ambito anche i dirigenti e i collaboratori troveranno infine il ruolo orizzontale che compete loro: quello di animatori, interpreti, promotori e coordinatori dei gruppi di base. Un gran lavoro, ma fuori dalla scrivania, in mezzo al dibattito delle voci, al confronto dei cervelli, allo slancio dei cuori. Dunque  torniamo alla ricerca, al corpo, alla relazione di cui abbiamo detto sopra: la collegialità infatti è un precipitato della scuola democratica.  Ma la collegialità non c’è. La rivoluzione copernicana dell’autonomia è stata tradita da una controrivoluzione sibillina, nutrita dal peggio della cultura recente.
Per realizzare infine il progetto abortito occorre molto coraggio, coraggio  di idee e di investimenti: questo  chiediamo ai politici. Che riflettano sulle nostre considerazioni per decidere la strada da intraprendere: ciò che si può realizzare, foss’anche piccola cosa, possa seguire questa direzione vista e scelta. Riteniamo appunto che tale presa di posizione sia un’urgenza estrema, in un tempo in cui rischiamo di investire ancora nel vuoto le poche risorse a disposizione, un’indicazione quanto meno opportuna oggi che nella mente dei più la questione da dirimere sembra essere soltanto dad sì/dad no.         

La scuola come percorso di formazione

 È certo che una collegialità effettiva significa un’altra scuola: l’acquisizione di una nuova organizzazione, di una nuova mentalità, obiettivi che non si improvvisano. Si pone dunque con urgenza il problema di una formazione efficace che si distanzi nettamente da certe esperienze vissute in passato: i pacchetti  confezionati da esperti  spesso raccomandati, destinati ad ampie platee di docenti ignoti, per l’insegnamento rivolto ad alunni qualunque, forti di una ricetta passepartout da apprendere al momento ed applicare supinamente: non importa dove, quando, come e perché. Davvero abbiamo compiuto in questi ultimi anni esperienze mortificanti e “deformanti ”, completamente ignare di quella verità, di quella tridimensionalità ogni volta nuova di cui si diceva prima.  In questo svilimento della didattica ridotta a formulette di addestramento, scambiate come merce al mercato, è stata di fatto consumata una grande quantità di tempi extra e di risorse, ora per obbligo, ora perfino per speranzosa attesa, puntualmente delusa, di un progresso professionale.       

A questo punto è necessario riflettere sia sugli errori compiuti sia su alcune esperienze qualificate, come i laboratori di ricerca azione promossi contro corrente dai gruppi Cidi in tutti questi anni.  Alla luce di queste considerazioni conviene ancora puntare sulla forza di  una collegialità fattiva e consapevole: da compattare per discipline, per aree, per consigli o anche per affinità elettive, comunque dei gruppi!, che si coagulino intorno a questioni definite e si confrontino sistematicamente, secondo le esigenze che corrispondono all’andamento della sperimentazione in atto, la quale comporta progettazione, produzione di ipotesi/attività e materiali, verifica e riprogettazione fino alla valutazione/autovalutazione finale.

Certo in questo caso la formazione risulterebbe autoformazione, dunque un implicito della didattica collegiale, soluzione che  tuttavia potrebbe non essere sufficiente: spesso i passaggi didattici pongono problemi spinosi che i docenti non riescono ad affrontare o a risolvere. Di qui la previsione di interventi di consulenza. Anche in questo caso immaginiamo esperti che lavorino in gruppi strutturati, operanti su  uno o più istituti, che dunque possano confrontarsi  essi stessi sulle ipotesi di supporto via via prospettate: consulenti che intervengano non estemporaneamente ma in itinere, fin quando necessario, individuati sulla base di criteri chiari e trasparenti (potrebbero anche essere istituite procedure per una selezione ufficiale, ipotesi che consentirebbe un oggettivo riconoscimento di ruolo e di retribuzione a molti docenti qualificati che per distinguersi  oggi sono costretti a sgomitare fra loro alla corte dei dirigenti). Anche in questo caso, come per la formazione di gruppi di studio disciplinare, l’aggancio con l’università risulta persino ovvio ma ancora tutto da definire.

Note

1. Il documento è leggibile e scaricabile dal sito del cidi Pescara.