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02/03/2015

"Nulla dies sine linea" - Parte II

di Rosanna Angelelli

Voci dalla stampa

Come abbiamo anticipato nella prima parte di questo articolo, la stampa si sta interessando da tempo alla diminuita familiarità nei bambini della scrittura a mano e in corsivo e alle sue possibili conseguenze sul piano psicofisico. Tra i tanti, abbiamo scelto quegli articoli di “la Repubblica” che ci sono sembrati i più motivati e ricchi di differenti suggestioni. Cominciamo in ordine cronologico dal primo: “La fine della penna” [1]. Pubblicato tre giorni prima del convegno gli fa da traino con un titolo lapidario e un sommarietto più diffuso dove si precisa che: “I nativi digitali la usano sempre meno. Dal 2016 la Finlandia la metterà al bando dalle classi. Ma un esperimento italiano rilancia le virtù della scrittura manuale. Migliora ricchezza lessicale e capacità di sintesi dei bambini”. 
Nel corpo dell’articolo vengono riportate varie testimonianze tra cui quelle di Paolo Ferri e di Franco Lorenzoni [2]Entrambi colgono alcune contraddizioni e criticità della formazione scolastica infantile. Secondo Ferri molti bambini non trovano a scuola (o non vi hanno loro accesso) quei media elettronici che usano liberamente in casa. Lorenzoni segnala a sua volta che, a differenza di quanto si progetta in Finlandia, la scuola italiana non riesce a fornire al bambino, in sostituzione della scrittura a mano, quei percorsi grafici, quelle strategie motorie, le abilità concrete, gli esercizi di memorizzazione, che lo aiuterebbero nel coordinamento percettivo-motorio. 
Di spalla all’articolo, Stefano Bartezzaghi, 
riferendosi alla futura rottamazione della penna da parte della scuola finlandese, osserva che “Alla scrittura, proprio nel senso dello scrivere manuale, sono connesse una quantità di competenze motorie, psicologiche e linguistiche che l’uso di tastiere non sollecita affatto, ma probabilmente anche una qualche Gilda dei maniscalchi avrà fatto obiezioni simili, quando al traffico automobilistico fu consentito di soppiantare la trazione animale”  [3]. A questa considerazione lievemente ironica Bartezzaghi fa seguire altre due di diverso contenuto.  Non necessariamente la scuola deve essere sempre attuale, perché ciò che vi si insegna non “ha da essere puramente funzionale, [e non] deve sempre servire, in termini di efficienza e competenza pratica”. Lo scrivere manuale richiede un’autocorrezione non facilitata e meccanica, come in un qualsiasi word elettronico, poiché “il bisogno di muovere la mano a fare linee, occhielli e puntini aiuta a trovare il modo di dare forma alla materia che ci appare caotica e confusa nel pensiero”, e non si tratta “di rimuovere qualcosa per far posto a qualcos’altro. Ma il nostro cervello è ospitale e la confidenza con la tastiera […] può facilmente convivere con una buona competenza grafica”.

“il venerdì” di Repubblica  ritorna sull’argomento con Tommaso Pincio che osserva: “Anche le neuroscienze ci dicono che, scrivendo a mano memoria e concentrazione aumentano. […] Con penne e quaderni [i bambini] non imparano soltanto a scrivere. Sviluppano una personalità. Pur apprendendo un medesimo linguaggio, ognuno di loro definirà un proprio stile, una calligrafia che si distinguerà tra mille, non meno unica di un’impronta digitale. E proprio in questo consiste il lato più prezioso della calligrafia: possiamo mentire con le parole che scriviamo, ma il modo in cui le scriviamo rivelerà sempre chi siamo” [4].
 Sempre su “il venerdì” Valentina Farinaccio [5] accoglie le critiche della docente e sociologa Rosa Musto sulla tendenza a scrivere a mano in stampatello e a usare la tastiera elettronica: invertire il gesto nel corsivo –sostiene la sociologa- è molto importante perché “prevede uno sviluppo neurologico avanzato, senza il quale non si possono mettere in relazione pensiero e azione”.

Ci piace chiudere questa carrellata sulla stampa tornando alle osservazioni di Vertecchi che vanno ben oltre la questione degli strumenti di scrittura.  Sentiamolo: “Molte difficoltà dell’educazione scolastica possono essere superate con soluzioni didattiche… Si è cercato di individuare un punto sensibile, la scrittura. Prima di andare a cercare giustificazioni di qualche patologia, bisogna andare a verificare se sono stati esperiti i tentativi di migliorare la qualità della propria didattica… In Finlandia la scuola innova con l’abbandono della scrittura a mano. Allora ne verrà un analfabetismo tecnico? Non possiamo certo rispondere a iniziative prese in un contesto tanto diverso dal nostro… Noi a nostra volta non stiamo teorizzando qualcosa di alternativo… Quando c’è qualcosa di valido non è alternativo, ma integrativo… La libertà è nel poter sapere scrivere”.
“Poter sapere scrivere”: è questo l’aspetto più importante della questione. Vertecchi ha scelto un “artigianato didattico” del tutto tradizionale, ma che aspetta di essere esperito in tutte le sue potenzialità, compreso il fatto di offrire ai bambini attraverso l’esercizio quotidiano di scrittura un appuntamento narrativo continuo: con il proprio pensiero, con la propria memoria, con il propria vissuto.

Piccolo intermezzo
Finora si è detto della mano come strumento indiretto di scrittura. Dico indiretto, perché è vero che le dita possono sempre tracciare linee e forme direttamente su un supporto friabile, ma in genere si scrive -con una chiusura contratta di tutte le dita- impugnando una matita o una penna. Ma la mano si muove anche a guidare un mouse (afferrato più distesamente come un antico chopper), o scivola lieve su un display con tutte le dita che crede, infine entrambe le mani si dispongono sulla tastiera elettronica con un potente gioco di laterizzazione del corpo, in particolare degli occhi, e quindi del cervello. Avete visto come molti scrivono sullo smartphone? Addirittura con i pollici, cioè con le dita della differenziazione primitiva. Ciò detto, a nessuno verrebbe in mente di criticare le conseguenze psicofisiche  della manualità di un pianista in erba sulla tastiera del suo pianoforte (e ce ne sono, e a carico di tutto lo scheletro…), perché si tratta di una modalità “d’arte” (il fine giustifica i mezzi?), mentre chi “strimpella” al computer, quello no, si danneggia in eterno. Mah…

Il web, un altrove di scritture
La relazione educativa, nonostante gli sforzi e l’impegno di genitori e insegnanti, continua a soffrire di paure, ansie, diffidenze: rispetto agli anni Sessanta/Settanta, c’è una indubbia caduta della motivazione e dell’interesse da parte dei giovanissimi a esprimere direttamente il proprio mondo. Forse sono diventate inadeguate le strategie comunicative “tradizionali”, che noi adulti continuiamo comunque a mantenere; forse il “giovanilismo” imperante non offre più spazio alle differenze di ruolo (e di potere) tra i sempre-giovani e i non ancora-vecchi. A scuola l’insofferenza aumenta perché l’apprendere e il fare sono ancora rigidamente codificati in: spazi inadeguati; banchi scomodi; manualità e corporeità di secondaria importanza; fissità della lezione frontale; contenuti astratti, specie in alcune discipline. Ma la frettolosità e la diffidenza a esprimersi dei bambini provengono  anche e soprattutto da quelle richieste “esterne” alla scuola, che la cultura contemporanea impone loro sin dai primissimi anni di vita, in primo luogo sul senso del tempo: contingentato, pressato, all’interno di luoghi per lo più chiusi: appartamenti, asili, palestre, piscine ecc. Innumerevoli sono le performance che la famiglia, la medicina, la socializzazione, organizza intorno al bambino per il suo miglioramento, ma che gli possono dare forzature e ansie. Le frasi che si dicono fuori di scuola: “Dài, sbrigati a fare i compiti, devi andare in piscina (o a danza, o a musica)!” “Usciamo presto, sennò poi non trovo parcheggio!”, hanno il corrispettivo dei: “Fate in fretta, consegnate il compito!” “Rispondi subito, devi essere più rapido!” “Non divagare, il tema deve essere stringato”, a scuola, e da parte degli insegnanti.
I bambini non si “aspettano”, si travolgono. Non si “ascoltano” più di tanto, ma si imbottiscono di consegne e raccomandazioni. Non c’è tempo per la lentezza, per una svagata o assorta curiosità. In genere, se la si nota, il commento è: “E’ distratto… è poco assiduo…”.

In secondo luogo sta diventando fortissima l’ossessione valutativa degli impegni: se i bambini fanno sport, l’obbiettivo è “il primato”, se sono a scuola, il voto numerico è ridiventato l’indicatore assoluto di un altrettanto primato. I test di verifica sono agganciati a valutazioni di risultato finale sempre individuale, anche durante l’obbligo. Dove ci si addestra per “vincere l’Invalsi”. Così il bambino si adegua rapidamente agli obbiettivi dei genitori, della scuola e dell’insegnante, in genere quello più autorevole, il più amato, senza capirli e eventualmente condividerli, ma soprattutto senza rigiocarli nella sua vita

La complessità dei saperi attuali fa sì che il bambino “studi” tutto, quando va bene, e semplificando. I manuali offrono i più disparati contenuti, raggruppati in unità didattiche talmente esaustive, che spesso non danno il tempo ai giovanissimi di elaborare sull’argomento propri dubbi e domande: se i testi fossero più “aperti” e in un certo senso “incompleti”, sarebbe molto meglio. Invece, si deve essere sempre pronti e veloci e “saputi” su tutto.
Infatti, l’errore è una colpa. I genitori si adoperano a casa per risolvere loro le difficoltà, fare le ricerche, rispiegare ecc. Sempre in tempi contingentati sono loro ad affannarsi a interpretare e a “tradurre” il sapere complesso non capito dal figlio. Il rispetto “del tempo che ci vuole” per ogni bambino-figlio, del dialogo didattico necessario perché un insegnante capisca,  corregga un errore, una difficoltà, è diventato un’umiliante utopia.
Il tanto riconsiderato scrivere corsivo un tempo richiedeva un addestramento lunghissimo. Ci si faceva la mano sulle aste, sui tondini, si cancellava e si riscriveva, per pagine (e ore). Si disegnava le forme codificandole molto a lungo e meticolosamente. Si variava meticolosamente la propria firma, fin quando non si trovava lo “stile” che ci piaceva di più, che ci rappresentava meglio. 

Ma oggi siamo in grado e vogliamo offrire ai bambini questi tempi e modi? Certo che no, anche perché sarebbero davvero “estenuanti” ed eccessivi: il successo odierno dello stampatello appare anche una semplificazione necessaria ai tempi di performance molto più corti e veloci. E d’altra parte i mezzi che favoriscono lo stampatello sono quelli che proprio noi adulti abbiamo messo  in mano ai piccolissimi per gioco: le play-station, il telefono cellulare, il piccolo computer, il tablet. 

E allora, gradualmente, i bambini “si” nascondono, cambiano i luoghi e le modalità della loro comunicazione  e della “realizzazione” personale: attraverso il pc, lo smartphone, la multimedialità. La scuola, la famiglia diventano un “altrove”, un luogo di confronto/scontro su un “altro da sé” molto di più di quanto succedesse nel passato.
Un tempo la scolarizzazione diffusa dopo secoli di analfabetismo aveva permesso una scrittura del sé a metà tra il codificato e il personale, di cui la lettera è stata la grande protagonista, con i suoi modi “rispettosi” e i suoi tempi di invio/ricezione senz’altro meno affannati e imperiosi della posta elettronica e del messaggino. Ricordo le lettere che mia mamma si scambiava con le sorelle lontane. Erano piene di sensibilità, di piccoli racconti ingenui, di premure. Erano “sentite” dallo scrivente, che anche quando “mentiva” lo faceva per proteggersi dalla durezza della vita  e per proteggere il destinatario da un dolore superfluo. 

Poi è venuto il telefono, e con esso la vocalità è diventata debordante e immediata. Ma la rivoluzione elettronica ha riattivato imprevedibilmente la… scrittura, anche e soprattutto quella privata, e i cellulari l’hanno addirittura ingigantita,  con modalità stilistiche e retoriche molto diverse rispetto alla carta e alla voce, ma altrettanto irresistibili. Non si scrive di meno, anzi c’è un’orgia di scritture spesso razionalmente non “controllate”. O meglio, chi sa già scrivere lo fa, e creativamente, in tutti i registri che il mezzo gli offre, gli altri si arrabattano, ma pur sempre “si” scrivono, “ci” scriviamo tumultuosamente, a briglia sciolta. È come se si avesse fame di segni, prima di tutto di noi stessi (il “post”è una forte proposizione dell’io), poi degli altri, che accolgono (se vogliono) e rilanciano con il frettoloso mi piace/non mi piace (pur sempre una risposta); un breve scritto; un’immagine; un video. E poi il giro continua… Assolutamente travolgente! È un vero concento, di “voci” e strumenti d’orchestra. E i bambini ormai sono in grado di gestire d’istinto tutto questo. Con una velocità superiore a quella che chiediamo loro a casa e a scuola.
Allora, non ci si può fermare a deplorare nei nostri bambini una scarsa concentrazione, una modesta memorizzazione, un mancato approfondimento, competenze culturali deludenti. Sarebbe meglio agganciare questi fenomeni ai luoghi, alle mappe, alle relazioni, alle strategie con cui noi adulti continuiamo a esprimere, a disporre e a somministrare i nostri saperi, le nostre credenze, i nostri errori affettivi e pedagogici.

Proviamo da insegnanti a entrare in una community in rete, e con il proposito di attestarvi una nostra “identità” professionale: è un’esperienza sbalorditiva, disorientante, non siamo solo travolti dalla variabilità dei commenti, ma anche dalle modalità di una scrittura così veloce da risultare convulsa, a cui si può corrispondere solo a rete, cioè relazionandosi in una tela di ragno inafferrabile per intero.
Se sei efficace e umile, se non fai l’amicone, il saccente, i ragazzi ti accolgono e ti rispettano. Alcuni gruppi si esprimono in modo approssimativo, violento, superficiale, ma lo farebbero anche a scuola, e con la penna e in corsivo, se non temessero (fino a un certo punto) certe sanzioni. Ma in altre communitiy c’è un concreto, serio e fittissimo scambio di opinioni, di dati, di documenti.
Si dice: “Si passano i compiti… Usano copia e incolla per le ricerche!” Ma noi che cosa facevamo, e da soli? Rovistavamo in biblioteca o tra le enciclopedie di famiglia, e poi copiavamo. Perché non eravamo ancora abituati alla ricerca. Non eravamo allenati a selezionare, a individuare l’errore, la banalità. Tutte abilità queste che hanno bisogno di tempo, di esercizio, di laboratorio, di apprendimento costante, vale a dire di scuola e di università preparate ed efficaci.
Attenti dunque a non divaricare ulteriormente i due piani paralleli di realtà. A non essere sprezzanti. La scrittura del sé si è dirottata in rete. E anche noi adulti preferiamo chattare twittare e non solo per gioco: l’ “argomentare” del faccia a faccia quotidiano è diventato insopportabilmente faticoso, e poi “non abbiamo tempo”. Ciò che vale per noi non vale per loro? Si tratta di andare a cercare davvero i giovanissimi dove si esprimono, di cambiare atteggiamento,  di affiancarsi innanzitutto empaticamente  e quindi culturalmente ai loro modi e contenuti comunicativi, peraltro da noi stessi liberamente praticati, e con qualche ipocrisia, perché al chiuso delle nostre stanze di adulti. 

Note

1. Maria Novella De Luca, Irene Maria Scalise, “La fine della penna”, la Repubblica, 25/11/2014.
2.  Paolo Ferri è docente della Università Bicocca di Milano; insieme con Stefano Mizzella e Francesca Scenici ha pubblicato I nuovi media e il Web 2.0. Comunicazione, formazione ed economia nella società digitale, Guerini Scientifica, Milano, 2009; Franco Lorenzoni è insegnante elementare di un paesino dell’Umbria dove ha fondato e coordina dal 1980 la Casa-laboratorio di Cenci; è autore, tra l’altro, di I bambini pensano grande, Sellerio, Palermo, 2014.
3. Stefano Bartezzaghi, “Non abbandoniamo quelle lettere che danno forma ai nostri pensieri”,  la Repubblica, 25/11/2014.
4. “il venerdì” di la Repubblica, n. 1392 del 21/11/2014.
5. Valentina Farinaccio, “L’ultima missione delle elementari: salvare il corsivo”,“il venerdì”di la Repubblica, n. 1394 del 9/1/2015.