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21/01/2015

"Nulla dies sine linea" - Parte I

di Rosanna Angelelli

Parte I

Come già annunciato da insegnare nel novembre 2014, si è svolto a Roma, il convegno Nulla dies sine linea, una riflessione su un esperimento  di scrittura a mano quotidiana in classi di scuola elementare. Di esso diamo un report che si articola in due parti.

Un antefatto
Ogni volta che si va a un convegno è come preparasi a un viaggio: in parte orientati da sicure mappe (la scaletta, gli organizzatori, i relatori, insomma tutti quegli ingredienti che in un certo senso ne dosano e garantiscano lo spessore culturale); in parte coinvolti da personali interessi professionali o da semplice curiosità. Nel caso di questo convegno, organizzato da Benedetto Vertecchi,  l’argomento ci è apparso tale da a far sorgere immediate curiosità sin dal titolo, in latino, “Nulla dies sine linea”, quasi una massima, data la sua stringatezza.

E proprio questa frase ci ha stuzzicato in una traduzione all’impronta “Nessuna giornata senza una linea”, apparsa subito rozza e inadeguata ai fini di una interpretazione più significativa. Oltre tutto la mancanza del verbo non ci aiutava alla chiarezza. Allora si sono affollate queste domande: che cosa si intende per “linea”? Un segno? Un tracciato? Una regola? E poi: quale contesto e quali strumenti le sono/sarebbero necessari per esistere? E ancora: se la frase non è anonima, chi ne è l’autore? E infine: chi ne sono i possibili destinatari/interlocutori?
Da un tuffo nel mare magnum di internet scopriamo (non senza qualche difficoltà, perché l’indicazione di Wikipedia, al riscontro, è parzialmente errata) che il passo della citazione appartiene all’opera di Plino il vecchio Naturalis historia [1], ma che la frase non è farina del sacco suo, essendo stata da lui ritagliata e segnalata come modo di dire da un’abitudine del pittore Apelle vissuto nel IV secolo a.C.
Tra gli artisti internazionali dell’antichità ritenuti da Plinio i migliori in base al canone estetico della mimési naturalistica, Apelle ha una centralità assoluta proprio per via dell’efficacia calligrafica delle sue rappresentazioni, tanto che diventò proverbiale la sua abitudine nel “farsi la mano” con una tecnica continua: per Apelle nessuna giornata era così densa di impegni dall’impedirgli l’esercizio quotidiano del disegno (lineam ducere).

Dall’aneddoto si può trarre una ulteriore considerazione: l’altissima qualità dello stile di Apelle lo rendeva inconfondibile all’osservatore e testimoniava la sua fervida volontà di lasciar una traccia del sé, del proprio immaginario, della propria sensibilità, in sostanza della propria specificità proprio attraverso quel segno.

Spigolando ancora su internet, abbiamo potuto scoprire che  a Sarzana nel 2013, in occasione del festival della mente, Antonio Marras (uno stilista della moda) e Francesca Alfano Biglietti (una critica d’arte), riprendendo la citazione di Plinio, hanno discusso su: Nulla dies sine linea. Nessun giorno senza prendere la matita in mano.

Una suggestione
Fin qui il nostro pacchettino di pre-informazioni da riversare su una prima lettura della scaletta del convegno, dove le domande allora sono cambiate in: Quale arte il convegno auspicherebbe per sempre desta? E chi oggi “dovrebbe” quotidianamente prendere in mano lo stilo, o più modernamente la matita/penna, per potenziare questa arte? E, soprattutto, con quali motivazioni? E su e per quali contenuti?
Eccoci in un circolo ermeneutico ben pronto da risolvere!
Dalla scaletta del convegno si capisce che i soggetti di questa attività dovrebbero essere quei piccoli potenziali “artisti del dire” di se stessi (è bellissimo il titolo che  Emma Nardi ha dato al suo report) che sono i nostri bambini, i quali -forse ancora per poco?- seguitano a riporre nei loro zainetti variegati e coloratissimi, accanto allo smart phone e ai minuscoli tablet, gli astucci con le matite e le penne della “tradizione”. 

Il convegno: la scelta di campo
Ma il convegno, più che interessarsi all’arte “apollinea (e apellinea)” del disegno ha inteso valorizzare quella della scrittura a mano che noi chiamiamo corsivo, e che comunque rimane di per sé un disegno (lat. *de signo) con tutte le conseguenze identitarie che esso comporta.
Il convegno è partito da una prima analisi dei dati tratti da un esperimento di scrittura : “Pensare e scrivere. Un percorso di libertà”. Bambini delle classi III, IV e V elementare di due scuole romane -un campione di oltre 380 alunni- sono stati invitati a elaborare ogni giorno (sabato escluso) e nel tempo di poco più di un quarto d’ora brevi testi, rispettivamente di 4, 5 e 6 righe, su argomenti assegnati dagli insegnanti, per un totale di circa 25000 documenti, tutti scritti a mano. Gli insegnanti, inoltre, hanno invitato i bambini a esprimersi liberamente (e serenamente), poiché, all’atto della revisione dei loro scritti, essi non avrebbero avuto una valutazione di profitto.
Le analisi finora effettuate sono avvenute secondo un criterio di tipo diacronico e hanno riguardato oltre ai fenomeni strettamente linguistici i “riferimenti impliciti ed espliciti alle condizioni di contesto nella scuola e fuori della scuola”.

La motivazione 
La motivazione principale di questo esperimento si ritaglia sull’osservazione di un fenomeno su cui si sta  indagando con riflessioni dai toni talvolta esasperati, specie se nel merito vi interviene una stampa frettolosa e riduttiva. Eccolo: lo sviluppo della capacità di scrittura degli allievi di scolarizzazione primaria, a parere di studiosi di varia estrazione, come quelli intervenuti al convegno (pedagogisti, insegnanti, ma anche un rappresentante dell’INVALSI, uno scienziato cognitivista e medico, un architetto), oggi sarebbe ostacolato dalla perdita dell’esercizio manuale in corsivo e dalla tendenza da parte dei giovani a esprimersi in uno stampatello spersonalizzato o a digitare la scrittura prevalentemente su un supporto elettronico.
Queste abitudini comporterebbero il rischio, per dirla con Benedetto Vertecchi di “cambiamenti nell’attività mentale” dal momento che “studiosi delle neuroscienze stanno osservando […] che alla diffusione dei mezzi digitali corrisponde una diminuzione della memoria, della capacità di orientamento spaziale e una meno precisa percezione delle relazioni temporali”, e che “da un punto di vista educativo la diminuzione della capacità di scrittura manuale appare spesso associata a una più limitata capacità di coordinamento percettivo-motorio”, cioè a una specie di rottura del rapporto tra pensiero e azione.

L’arte della scrittura
Noi non intendiamo entrare nel merito dell’aspetto più caldo di questa tematica, per altro trattata nella seconda parte del convegno. Innanzitutto perché non abbiamo le competenze specifiche per muoverci nella complessità dell’argomento, e poi perché pensiamo che i dati riferiti non siano stati ancora sufficientemente studiati per arrivare a una loro convincente interpretazione formale, essendo oggetto di una riflessione appena iniziata da parte dei curatori dell’esperimento. Tuttavia torneremo ancora sulla problematica complessiva nella parte II del nostro report, dando al lettore una rassegna degli articoli che “la Repubblica” le ha dedicato, perché, al di là di un certo sensazionalismo divulgativo, le voci che vi intervengono riservano punti di vista tra loro diversi e proprio per questo interessanti.

Come insegnanti riteniamo allora che vadano colti dal convegno i contenuti emersi nella mattinata, e messi un po’ in penombra nel pomeriggio, dove gli interventi, soprattutto quelli di Maria Luisa Eboli (docente della Facoltà di Medicina dell’Università Cattolica di Milano) e di Fabrizio Caporosso(già assistente al Parlamento Europeo), hanno espresso opinioni alquanto negative, preoccupate e preoccupanti sulle possibili conseguenze di un abbandono delle strategie tradizionali di scrittura, e in generale, sull’uso indiscriminato dei media elettronici da parte dei bambini e dei giovani. Nella mattinata si sono date invece le “linee” di tendenza in ingresso e in uscita del primo screening dell’esperimento già detto, e si sono fatte le ipotesi di una sua ricaduta su scelte successive  da parte degli insegnanti che vi hanno partecipato, tutti determinati a continuare l’esperimento e a formalizzarne gli ulteriori esiti.

Le tendenze sono state trasmesse da Emma Nardi e dalle insegnanti portavoce delle scuole partecipanti all’esperimento [2]: Lucia Carletti, Maria Vera Caruso, Daniela Napoleoni. Si è evidenziata la cura posta nella scelta degli argomenti da proporre ai bambini perché fossero adeguati al loro mondo e alle caratteristiche di contesto delle loro scuole: classi miste, per genere; per cultura  (multietniche e plurilingue); per problematiche relazionali; per situazioni ambientali (classi in scuole del centro e/o della periferia).
Questi preliminari ci sono sembrati altamente civili, perché, se si vuole che un esperimento riesca senza umiliare o deprimere gli sforzi di tutti i bambini  (scrivere il proprio mondo a partire da una richiesta “esterna” è sempre una gran fatica per tutti, innanzitutto per gli adulti), si deve prestare la massima attenzione alla praticabilità degli argomenti da proporre.

Alcune tendenze
Sembra che dall’esercizio quotidiano di scrittura sia nata una progressione sia nel linguaggio che nella disposizione delle idee. È vero, ci sono numerosi stereotipi, a partire dalla riverbalizzazione del titolo del tema nello svolgimento, un probabile segno di rigida convenzionalità, quasi che il “tema” sia una risposta alle attese scontate, implicite di una certa modalità pedagogica che più che domandare ai bambini la resa spontanea del proprio mondo, chieda loro risposte ritagliate sugli assunti e le strategie espositive astratte degli adulti.
Un’ulteriore conseguenza di questo fenomeno si può individuare anche nella difficoltà dei bambini a usare nel corpo del tema un lessico personale appropriato. Sono frequenti i topoi e i luoghi comuni, sempre segno, a nostro parere, di una fretta dei bambini nel pensare che la soluzione più felice sia quella più semplice e codificata dal senso comune, appartenente anche alle caratteristiche linguistiche e comunicative con cui essi si intrattengono abitualmente con i coetanei (e sarebbe interessante aprire un confronto con gli script che si mandano invece tramite cellulare). Ma anche qui, attenzione a non cadere in una affrettata generalizzazione, oltre tutto solo sconfortante per il lavoro dell’insegnante (e per la cultura del nostro Paese), perché, per esempio, c’è una progressione nell’uso di parole via via più “lunghe”, dal significato più strutturato, più specialistico, o di frasi più brevi, ma sintatticamente meglio articolate, come se lo scrivente abbia cercato e trovato, questa volta nell’esercizio scritto continuo, una migliore metodologia espressiva con cui approdare a una maggiore trasparenza dei concetti per via di una migliorata autolettura del proprio mondo.
Insomma, i primi “risultati” ci sembrano interessanti per capire lo sforzo di astrazione dei bambini nel buttar fuori la propria interiorità in una espressività chiara, da rileggere e verificare perché per l’appunto tracciata di propria mano in modo personale e indelebile.

Certamente a un cambiamento di alcuni esiti ha contribuito l’attività didattica in parallelo nel corso dell’anno scolastico -l’esperimento si è fermato al mese di aprile-, ma è significativo che si sia introdotta in essa quella coloritura narrativa “libera” dall’assillo del voto numerico, che può non fare che bene all’apertura di una personalità, di una soggettività ancora inesperta e insicura.
In questo senso la scrittura privata, personale e continua, è un formidabile strumento di concettualizzazione/espressione del sé. E la qualità dell’esperimento ha influenzato anche l’atmosfera relazionale/comunicativa della prima parte del convegno, dove le tendenze sono state date con rigore, ma anche con indubbio calore, da tutti gli organizzatori, in particolar modo dagli insegnanti direttamente coinvolti. Ogni tanto, Benedetto Vertecchi riassumeva con pacatezza i dati facendo considerazioni sull’assunto generale, in un dosaggio di emozioni e di idee lontano dai sensazionalismi di una lettura catastrofica delle indubbie difficoltà in cui si muove il duro lavoro dei bambini e degli insegnanti. Una maniera intelligente, questa, che ha illuminato la mattinata e ha tenuto l’uditorio serenamente informato, interessato e coinvolto. In particolar modo la citazione di alcuni esempi di testo è risultata interessante e divertente nella sua freschezza.
Insomma, o con la penna, o con la tastiera, o in corsivo, o in stampatello, ci è sembrato allora che il fatto più importante fosse (e sia) il cercare, trovare, incentivare le strategie migliori perché i nostri bambini anche attraverso “l’arte” della scrittura personale possano vivere a scuola l’esternazione del loro mondo nella maggiore pienezza possibile.

Un piccolo ricordo
Mi congedo dalla Parte I di questo articolo con un piccolo ricordo personale. Quando andavo alle elementari c’era l’abitudine giornaliera di scrivere i famigerati pensierini, spesso strampalati, perché astrusi, anacronistici o edulcorati anche dalle letture dei manuali di testo. Ricordo in particolare lo sforzo di scrivere sulla Pasqua in III elementare “in modo poetico”. Abitavo in montagna, c’era ancora la neve, gli alberi erano spogli e avevo visto dal macellaio degli agnelli uccisi non ancora spellati. Ne ero rimasta inorridita, e quindi scrissi ben poco e tristemente. La maestra mi disse: “Inventa, lavora di fantasia…” E allora scrissi di aria trasparente, di mandorli fioriti e capretti saltellanti, mi sforzai molto di trovare parole colorate, usai addirittura i pastelli. Questo secondo lavoro fu molto apprezzato: una indubbia falsificazione, che oggi giustamente sarebbe considerata negativa, un esercizio di stile imposto, ma che mi aveva richiesto un forte spostamento dal mio sé, da ciò che concretamente vedevo, e che forse si era tradotto nella sua accuratezza anche formale in un atto creativo pre-letterario. Dov’era la verità migliore?

 

Note

1. G. C. Plinius Secundus, Naturalis Historia, XXXV, 84: “Apelle fuit alioqui perpetua consuetudo: numquam tam occupatum diem agendi, ut non lineam ducendo exerceret, quod ab eo in proverbio veniit”.

2. Si tratta degli Istituti Comprensivi “Mar dei Caraibi” di Lido di Ostia (RM), e “Tor de’ Schiavi” di Roma.

Credits

Immagini
A lato: Sala studenti del Liceo Umberto I  di Torino, ©insegnare2015
Nel testo, dall'alto:
Nino Pisano, Apelle o la pittura, Formella 18Museo del Duomo di Pisa da wikideep
Logo della ricerca "Nullo dies sine linea"
"La Pasqua dei bambini" da La festa: libro di letture per la prima elementare (1958), da Dia, banca dati Indire

 

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Nel linguaggio giornalistico, ampio servizio di un cronista (reporter), di un corrispondente o di un inviato speciale su un avvenimento, un luogo, o, più in generale, un argomento specifico.
Caratteristica tipica del r. è non limitarsi a fornire una serie di notizie, ma cercare di descrivere l’ambiente, il contesto, il retroterra dell’avvenimento e di fornire al lettore notazioni che gli consentano di cogliere meglio il complesso di elementi che circonda e spesso condiziona il fatto raccontato.
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