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editoriali

08/05/2023

Sulle politiche ministeriali del merito, e oltre.

di Mario Ambel

A qualche mese di distanza dall’avvio del Ministero dell’Istruzione e del Merito, è possibile cominciare a raccogliere qualche percezione sulla sua direzione di marcia.
A costo di sembrare eccessivamente semplicistico, vorrei ridurre a pochi, ma ritengo essenziali, ambiti le considerazioni su quanto mi pare di poter ricavare dal corso degli eventi (e delle azioni e dichiarazioni pubbliche), in relazione ad alcuni dei malesseri più gravi e significativi del nostro sistema scolastico.

La lotta alla dispersione scolastica. Al di là delle roboanti dichiarazioni sui rapporti fra investimenti del PNRR e risultati da ottenere nella riduzione delle disuguaglianze delle pratiche e degli esiti scolastici, con la conseguente espulsione o marginalizzazione di ancora troppi giovani, ci sembra che la direzione degli interventi intrapresi sia assai deludente.
Quella che continua a mancare è la consapevolezza che per risolvere il problema sono necessari profondi cambiamenti strutturali dell’intero sistema scolastico, dei suoi fini e delle sue pratiche, dagli 0 ai 19 anni e oltre, e non soluzioni emergenziali o personalizzate, che spesso hanno come matrice di fondo l’esternalizzazione del rapporto formativo da parte della scuola, non estraneo ad atteggiamenti di deresponsabilizzazione.
Non si tratta più di discutere del supporto di professionalità integrative, dell’apporto di soggetti esterni, del coinvolgimento più ampio del territorio e delle sue risorse: su questi terreni, piuttosto, sarebbe il caso di decidersi a descrivere, testare e diffondere le buone sperienze condotte in questi decenni (se e dove si sono realizzate e hanno avuto successo) e portarle almeno in parte a sistema. Si tratta cioè di capire se il sistema scolastico pubblico riesce ad assumere e attuare l’istruzione di tutte/i e di ciascuna/o come sua finalità strategica o se gli basta essere diventato il Ministero del Merito e provvedere al resto con gli interventi descritti nelle linee applicative del PNRR, nelle quali campeggia una rifondazione dell'Orientamento come strumento di asservimento delle finalità della scuola alle variabili occupazionali (per altro fallimentari) del sistema economico.

Scuola e lavoro. Nel frattempo, in scompenso, crescono in modo preoccupante i contesti di rinnovato rilancio del rapporto fra scuola e lavoro. Ciò che preoccupa, su questo fronte, sono da una lato le parole e i provvedimenti ministeriali in tema di Orientamento, l’aria di resuscitato “Pecup” di morattiana memoria, il reiterato insistere sulla personalizzazione (che i ministeri dell’istruzione di centrodestra coniugano da sempre con i talenti, le vocazioni individuali, gli orientamenti precoci). E la memoria torna al finto e bipartisan innalzamento dell'obbligo a 16 anni, di cui nessuno si è accorto e che nessuno pratica sul serio. Ma preoccupano anche, persino da parte di contesti associativi di docenti impegnati sul fronte del rinnovamento didattico, le attenzioni all’orientamento permanente, come “vettore progressivo” che dovrebbe coinvolgere gli studenti fin da prima che divengano tali, ovvero fin dalla scuola dell’infanzia, per poi proseguire lungo l'intero arco della vita, a fronte dei sempre più probabili licenziamenti o cambi di prospettive occupazionali. In piena sintonia con la finalità della scuola funzionale all’addestramento del "capitale umano".

Noi crediamo, invece, che la riflessione sui rapporti fra scuola e lavoro, ovvero fra una scuola in crisi di identità e risultati e il lavoro che non c’è o che cambia così drammaticamente da non rendere più accettabile finalizzare la scuola al suo esercizio futuro, debba aprirsi a strade radicalmente nuove, al cui esercizio non è sufficiente l’evocazione di fantomatiche trasversalità della complessità o del "non cognitivo", dietro la quale o le quali (trasversalità, come complessità e iniquità, è termine magistralmente sia singolare che plurale), spesso, si aprono faglie di vuoto.
Appare per esempio tristemente paradossale che l’Associazione Nazionale Presidi, nel tentativo di trovare qualcosa di lodevole nel decreto sul lavoro del 1 maggio (sic!), non abbia potuto far di meglio che complimentarsi per gli interventi a favore della prevenzione e il risarcimento degli infortuni sul lavoro (morte compresa) in cui potessero incorrere allieve e allievi nell’esercizio del loro impegno di …  studentesse e studenti! 

In altri termini, come abbiamo ripetuto spesso, riteniamo che la scuola pubblica debba seriamente interrogarsi sui nuovi equilibri che si deve porre nella formazione della persona, del cittadino  e del lavoratore o, per dirla diversamente, che si debba chiedere, ancora una volta, se e quanto deve continuare a preparare e selezionare e stratificare gli studenti in funzione del lavoro e della vita che faranno in futuro oppure se, nell’ottica dello sviluppo umano, debba accentuare e riqualificare gli elementi di istruzione indipendenti dalla vita e dal lavoro futuri. È il tema che il sistema scolastico italiano (ma non solo) continua a porsi, senza riuscire a risolverlo, da quasi 50 anni e che ormai ha raggiunto condizioni di irresolutezza inaccettabili, per chi la scuola disperde ed emargina, ma anche per chi trattiene e prepara malamente e persino, ormai, per la parte che prosegue gli studi fino alla laurea.

Se, come ogni tanto dice il Ministro, essere Ministero del Merito significa, a sua intenzione, occuparsi dei differenti destini individuali (ma anche sociali, aggiungiamo noi) delle allieve e degli allievi, allora abbiamo la sensazione che le azioni messe in campo in questi primi mesi, per altro spesso in continuità con il passato più o meno recente, abbiamo poco a che fare con una scuola che persegua davvero l’emancipazione individuale e collettiva di tutte e tutti coloro che la frequentano. Piuttosto le aspirazioni individualistiche, salvo poi essere assai carente anche nell’adottare strategie che  davvero consentano di perseguirle.

Alcuni cidi territoriali si stanno interrogando o fanno ricerca su questi temi, la nostra rivista li ha da sempre affrontati e continuerà a farlo, dandone riscontro e auspicando riflessioni in tal senso. E in quest’ottica, apriamo uno “speciale” su “
Scuola, lavoro e cittadinanza: prospettive a confronto”.

Le “nuove” frontiere digitali. E su tutto incombono temi apparentemente o in parte nuovi, perché a fronte della reiterata e spesso acritica fiducia nella necessità di continuare a digitalizzare ambienti e procedure di apprendimento, al di là del gran parlare che si fa sulla cosiddetta IA, spesso più sensazionalistico che … intelligente,  e dei polveroni sollevati al riguardo, forse è necessario porsi nuovi interrogativi, anche radicali, sul se e come valga la pena immaginare e creare le condizioni per apprendere (e che cosa), a fronte dei sempre più frequenti contesti e delle modalità di espropriazione di facoltà e processi propri delle potenzialità intellettive umane (di calcolo, comparazione, formulazione di ipotesi, sintesi, scrittura, ecc.) a vantaggio di dispositivi programmati e algoritmizzati per compierle in tempi assai più brevi, in modi assai più efficaci e gestendo quantità di variabili umanamente non controllabili.
Anche su questo versante la crisi delle discipline e soprattutto del loro modo di essere intese e imposte nella tradizione scolastica ha ampiamente  fatto il suo corso. Ma il chiedersi che cosa significhi apprendere o riapprendere (e di conseguenza pensare di poter ancora insegnare) oggi per domani è questione tutt’altro che semplice, e, anche in questo caso, le soluzioni tecnocratiche o tecnofideistiche lasciano dubbi e perplessità almeno quanto le abiure eccessivamente e strumentalmente allarmate o nostalgiche. Dubbi e perplessità di ordine culturale, e soprattutto politico.

E anche di questo dovremo continuare ad occuparci, possibilmente in una prospettiva politicamente, socialmente e persino eticamente più adeguata di quanto non si sia fatto finora, ovvero stipulando accordi e patti con le piattaforme multinazionali esentasse della profilazione estrattiva: concetti che finalmente (forse) si possono incominciare a pronunciare senza essere accusati di essere dei visionari ideologizzati. 
Nella speranza che la politica scolastica, da decenni orientata allo sviluppo del capitale umano e al sostegno di un sistema economico-finanziario che delegittimando il lavoro delegittima e umilia l’umano, decida di cambiare indirizzo e prospettive.

 

 

Scrive...

Mario Ambel Per anni docente di italiano nella "scuola media"; esperto di educazione linguistica e progettazione curricolare, già direttore di "insegnare".