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18/05/2016

L'italiano dei nuovi italiani - Parte I

a cura di Clara Manca

FRA INTEGRAZIONE E INTERAZIONE SOCIALE E LINGUISTICA
XIX Convegno Nazionale G.I.S.C.E.L.: “L’italiano dei nuovi Italiani”

Parte I

Un convegno dal titolo “L’italiano dei nuovi italiani” si è tenuto recentemente a Siena (7-9 aprile): città simbolo di una possibile e auspicabile continuità fra tradizione e innovazione, un tempo testimone della neonata lingua italiana e oggi crocevia di tante lingue straniere, con la sua prestigiosa Università per Stranieri. Il Rettore Cataldi e il prof. Palermo hanno evidenziato come l’Ateneo senese sia un centro di sperimentazione, ricerca, riflessione sui temi dell’integrazione linguistica dei nuovi arrivati, ma soprattutto delle loro possibilità di cittadinanza. Se è vero, come rivelavano già i Promessi Sposi, che il possesso della lingua fa la differenza, è benemerita l’attività del Comune di Siena - presentata dall’assessore all’Istruzione Tiziana Tarquini - che traduce in ben sette lingue gli atti amministrativi e i piani per la formazione, prendendo atto della realtà multilinguistica della città (negli asili, risultano presenti ben 23 lingue diverse!) e della necessità di formazione degli insegnanti su percorsi specifici.

Dalla lingua alle lingue

Il GISCEL [1]  ha affrontato da tempo nei suoi Convegni temi di natura sociolinguistica (nel 1994 sullo “svantaggio linguistico” e nel 1998 sui “bisogni linguistici delle nuove generazioni”); per il suo XIX Convegno, a partire dai dati ISTAT sulle “Diversità linguistiche dei cittadini stranieri”, ha voluto riflettere sul panorama variegato dei “nuovi italiani”. Così il segretario, Alberto Sobrero , ha aperto i lavori, fornendo un ventaglio delle questioni affrontate dal temario: 

le potenzialità che possono venire dal multilinguismo nella società e nella scuola italiana; gli apporti della linguistica acquisizionale; lo studio di soluzioni  di una lingua “franca”; autobiografie linguistiche; le riflessioni metalinguistiche dei nuovi immigrati; la presenza e il ruolo dei dialetti; esito del “contatto” in prove Invalsi; gli interventi inclusivi in ambienti multiculturali.  [2]

Certo, dal 1975 - ha ricordato Tullio De Mauro – l’Italia da Paese di emigrazione è andato trasformandosi in paese di immigrazione. Il Censis registrava in quegli anni (’76-‘77) la presenza di 3.000 stranieri. E forse ci si è dimenticati che già nel 1980 una circolare del Ministero della Pubblica Istruzione (ministro, Mattarella) invitava gli insegnanti a predisporre misure per l’accoglienza dei nuovi arrivati. Oggi in Italia si emigra da ogni parte del mondo. Con la presenza sul nostro territorio di oltre 200 lingue si devono creare le condizioni   per una interazione piuttosto che per una semplice integrazione, per dirla con le parole di Zagrebelsky. Se non ci sono dati certi e condivisi sui numeri dell’immigrazione in Italia - ha proseguito Massimo Vedovelli -, è però certo che nelle nostre aule ci sono almeno 800.000 studenti stranieri. E, con una popolazione che tende sempre più a invecchiare, si creerebbero dei vuoti demografici per il nostro sistema produttivo senza l’apporto di forze lavorative provenienti da altri Paesi. Oltre il 10% dei nuovi imprenditori (edilizia, artigianato, commercio) sono stranieri. Ciò comporta di per sé situazioni di plurilinguismo di fatto nelle interazioni fra datori di lavoro e dipendenti. Le lingue più parlate sono: rumeno, arabo, albanese, spagnolo. Eppure, di fronte a questa realtà restano ancora alte le difficoltà ad apprendere la lingua italiana, mancando ancora in Italia una adeguata offerta formativa per i nuovi arrivati (da un’indagine europea, Milano e Napoli sono in testa a questa classifica negativa). 
Vari i motivi di tali difficoltà: il tempo di lavoro degli immigrati (di qui, la necessità di flessibilità nella formazione), la scarsa motivazione (per le difficoltà nel trovare l’offerta formativa: solo il 17% degli immigrati frequenta corsi di formazione; più numerose le donne). Questo neo-plurilinguismo della società italiana può essere la spinta per un nuovo progetto linguistico-educativo più generale: riconoscere le lingue immigrate e il loro ruolo, non ostacolare il loro uso entro le comunità dei loro locutori, diffonderle fra gli italiani. È importante conservare le lingue degli immigrati - ha aggiunto De Mauro - sia in una prospettiva di cittadinanza europea, sia in una visione di cooperazione educativa (ma anche commerciale) futura con i loro Paesi di provenienza. Senza dimenticare, infine, che il multilinguismo è una chance per lo sviluppo intellettivo dei bambini; cosa che è stata ben capita nella realtà delle nostre scuole, ma molto meno dalle istituzioni. E questo sarà proprio un compito del Giscel, anche nello spirito delle "Dieci Tesi per una Educazione Linguistica Democratica" [3].

Per Stefano Rastelli l’apprendimento di una lingua “accade” (secondo la lezione di Chomsky): uno ha imparato una lingua quando nel suo cervello avvengono trasformazioni come quelle di un madrelingua. Può infatti accadere che dei ragazzi che hanno avuto successo nei test linguistici non usino gli algoritmi neurali utilizzati da un parlante nativo di quella lingua straniera, mentre altri che hanno avuto difficoltà comunicative siano in possesso delle rappresentazioni grammaticali di quella lingua, ma abbiano bisogno di un “periodo di silenzio”. Infatti, non si tratta di una semplice “competenza comunicativa”, ma di competenza “neurale”, che però richiede più tempo. Ciò comporta una didattica “acquisizionale”, che tenga conto di tali processi mentali e lavori sugli input linguistici e sulle strategie: operare una scelta fra le difficoltà poste dalla grammatica italiana, perché non si deve insegnare tutto (ad esempio, l’uso del passivo); dare importanza alla correzione dell’errore (cosa che non succede fuori dall’aula); sottolineare le differenze fra registro formale e informale (il “lei” e il “tu”) e l’uso del pronome “nullo” (es. “la mamma si mette il cappotto e (lei) esce”). In tali condizioni la classe è ancora il posto migliore per imparare una seconda lingua accidentalmente, in quanto si possono replicare le condizioni dell’apprendimento spontaneo, facendone un piccolo laboratorio. 

Sulle strategie di elaborazione dell’input iniziale di L2 è intervenuto anche Giuliano Bernini, per  ricordare che nell’apprendimento di una lingua contano: la conoscenza linguistica pregressa e la relativa distanza tra L1 e L2 (ordine dei costituenti, forme di flessibilità, accenti, soggetto nullo, morfologia dei casi); la trasparenza o l’opacità delle forme lessicali (per es. in polacco: “ ’frantsus” che significa ‘francese’ è una parola a trasparenza alta); la frequenza delle forme a cui gli apprendenti sono esposti; il tipo di presentazione dell’input. Noi “non impariamo una lingua –scriveva Coseriu – bensì impariamo a creare una lingua, vale a dire impariamo le norme che guidano la creazione di una lingua (…) e gli elementi che il sistema ci fornisce come modelli per le nostre espressioni inedite”. 

Quindi, per ridurre le diseguaglianze occorrono percorsi di educazione linguistica che partano dal riconoscimento dell’interlingua (quella fase provvisoria, intermedia nella quale convivono, influenzandosi reciprocamente, la lingua madre e quella che si sta apprendendo), come quello illustrato da Gabriele Pallotti, svolto in collaborazione con l’Università e il Comune di Reggio Emilia. L’impostazione di tali attività, che hanno coinvolto scuole primarie e recentemente anche secondarie, si basa su alcuni presupposti metodologici: pre-test per conoscere la situazione di partenza; lavoro di gruppo (di livello misto, per non escludere nessuno) sull’organizzazione concettuale; revisione tra i gruppi (per imparare ad autocorreggersi); riflessione metacognitiva (per valorizzare quanto è stato appreso); test finale. Rispetto a tutte le dimensioni linguistiche i bilingui della sperimentazione hanno mostrato, al termine, di scrivere meglio dei monolingui delle classi di controllo. 

Come si diceva anche negli interventi precedenti, bisogna che l’italiano da “seconda lingua” diventi lingua di “con-cittadinanza”, come descritto da Graziella Favaro (capofila di un Osservatorio sul plurilinguismo del MIUR): da lingua per comunicare a lingua per studiare, fino a diventare seconda lingua-madre, ‘filiale’, di narrazione e infine di identità. Per raggiungere tali obiettivi, si devono attivare delle strategie opportune: un piano nazionale di formazione linguistica degli adulti immigrati e una opportuna formazione degli insegnanti, attenzione per i giovanissimi neo-alunni con dispositivi mirati e una valutazione coerente ed equa; il riconoscimento e la valorizzazione delle diversità linguistiche nelle classi (anche attraverso pratiche narrative, in sintesi, un approccio di apertura interculturale. Nelle parole di una bambina la sintesi: Le mie lingue, l’arabo e l’italiano, sono come la mia sciarpa. Insieme girano intorno al mio collo. Poi si dividono in due parti: una è la parte araba e l’altra la parte italiana.

Non si può dare qui conto di tutte le ricerche presentate al Convegno, ad opera di ricercatori universitari, molti legati all’Università di Siena, e insegnanti di vari ordini di scuole: ci si limiterà a rapidi cenni, più o meno dettagliati. 

Lingue e società

Per l’aspetto più propriamente sociolinguistico, nella sezione "Lingue e società" vi sono stati diversi contributi, anche su situazioni ‘marginali’ come quella delle carceri. L’esperienza presentata da Benucci- Grosso, (Università di Siena), infatti, riguarda un’indagine condotta in più regioni all’interno di istituti penitenziari, che ha evidenziato come le condizioni di questi detenuti siano esemplificative della situazione di plurilinguismo e pluriculturalismo presente all’esterno. Il fatto che il 59% dei detenuti sia transitato/abbia soggiornato da/in altri paesi prima dell’arrivo in Italia non può che giocare a favore di un’acquisizione di competenze plurilinguistiche, confermata dai dati sui repertori linguistici (spesso, bi/tri-lingui) della popolazione detenuta straniera censita. Inoltre, si è riscontrata in questa (attraverso l’esame di un corpus di produzioni scritte) una coscienza della valenza diafasica del contatto e del plurilinguismo e del prestigio sociale delle diverse lingue, varietà e dialetti del proprio repertorio).

Rispetto agli usi linguistici degli alunni di origine immigrata, Meluzzi e Fiorentini (Università di Bolzano e dell’Insubria) hanno presentato alcuni dati dell’indagine sociolinguistica condotta tra il 2012 e il 2013 sotto la guida di Marina Chini (Università di Pavia) e di Cecilia Andorno (Università di Torino). Si è focalizzata l’attenzione su alcuni aspetti interessanti relativi alla sezione piemontese del corpus. Se, per esempio, all’interno del nucleo familiare sembra prevalere l’uso misto di italiano e lingua di origine (meno con i fratelli), con i compagni solo 1/5 dei ragazzi non di madrelingua italiana usa una lingua mista, mentre coi docenti il 65% del campione usa solo l’italiano (ma anche altre lingue veicolari, come francese e inglese). Gli intervistati dichiarano di usare l’italiano, sia da solo sia insieme ad altre lingue, con frequenza sempre maggiore, fatto che potrebbe indicare una migliore integrazione rispetto ai dati di una analoga indagine di dieci anni prima (raccolta in volume da Marina Chini nel 2004), all’interno della comunità linguistica del Paese ospite, oppure quanto meno una volontà di rappresentazione in tal senso.

Un’ indagine sociolinguistica presentata da  Fusco (Università di Udine) e condotta a Udine e provincia, sempre sul modello della poderosa ricerca di Chini (2004), ha permesso di ottenere elementi di confronto con le realtà (socio)linguistiche descritte da quella studiosa. Tramite un questionario su un campione di immigrati adulti, si sono analizzati situazione (socio)linguistica e repertori linguistici, scelte e usi linguistici in diversi domini, oltre ad atteggiamenti verso il Paese di origine e di arrivo e verso le lingue note, al fine di monitorare e rafforzare le azioni finalizzate a una più solida integrazione linguistica nell’ambiente scolastico.  Si è potuto constatare, così, che le donne si rivolgono di più al sistema formativo, che solo il 42% del campione possiede un repertorio linguistico costituito da più lingue oltre a quella di origine, che sono più ricchi i repertori linguistici degli immigrati extra europei e più forti i legami con la terra d’origine, come rivela la volontà di trasmettere la lingua nativa ai successori.

Sulla consapevolezza linguistica si è mossa la ricerca di Rosi –Dal Negro (Università di Bolzano), volta a misurare l’impatto del bi/plurilinguismo sullo sviluppo delle competenze metalinguistiche degli alunni (di quarta primaria e di prima media, di cui il 23% di nuovi italiani) circa l’accordo morfo-sintattico Soggetto-Verbo.  Si è sottoposta al loro giudizio una batteria di 8 coppie di frasi, l’una grammaticale e l’altra agrammaticale, proponendo esempi lontani dalle definizioni e dai modelli dei testi scolastici. Le frasi sono state presentate con una scala a tre valori (positivo, intermedio, negativo) e con la richiesta di riscrivere quelle ritenute inaccettabili migliorandole, così da individuare gli elementi percepiti come problematici dai bambini. Un esempio: “A Charlot e alla ragazza bastano poco per essere felici” (frase –come le altre – tratta da uno spezzone di film proiettato in precedenza, che permetteva agli alunni di contestualizzarla). Poche le risposte lasciate in bianco. Più difficili sono risultati gli item a-grammaticali, perché richiedevano una competenza meta-linguistica. Migliorano i risultati con il crescere della scolarizzazione, ma non per i ragazzi parlanti la loro lingua d’origine in casa. Resta, perciò, da analizzare l’eventuale ruolo di un approccio più o meno normativo sullo sviluppo della competenza metalinguistica degli alunni in correlazione al diverso background sociolinguistico.

Nonostante in Italia si registri ancora una carenza delle competenze in lingua straniera, lo spazio linguistico italiano, e con esso anche lo spazio interno ai luoghi deputati all’educazione linguistica, sta vivendo dal basso, tramite gli usi dei parlanti, quelle che sono le dinamiche del neo-plurilinguismo, in cui italiano, varietà dialettali o locali, lingue straniere insegnate e lingue immigrate convivono in uno stesso spazio, come sembra confermare una ricerca condotta dall’Università di Siena fra il 2006 e il 2008. Per questo, attraverso un questionario di 18 domande, si è cercato di verificare su un campione di studenti della provincia di Siena quali siano, quasi dieci anni dopo, il repertorio linguistico, la consapevolezza nei confronti della propria competenza linguistica, gli usi linguistici in differenti contesti e la percezione degli altri verso le lingue degli immigrati (Casini- Siebetcheu, U.S.). I risultati mostrano che lo “spazio linguistico” personale degli informanti è molto vasto: col 96% occupato dall’ italiano (l’86% degli stranieri dichiara di conoscerlo molto bene), insieme al toscano, al senese e ad altre varietà linguistiche locali, oltre alle lingue straniere di studio e alla lingua d’origine per i migranti. Del resto, alla domanda se conoscevano qualche parola della lingua dì origine dei compagni stranieri, il 39,03% dei ragazzi di madrelingua italiana ha risposto affermativamente e di questi il 10% l’ha anche inserita nel proprio repertorio linguistico.

Una conferma, quindi, di una estrema apertura alle diversità linguistiche nelle nostre realtà scolastiche. Durante l’a.s.2014/2015, gli alunni stranieri con cittadinanza non italiana presenti nel nostro sistema scolastico hanno superato le 800mila unità, di cui circa 102mila unità di nazionalità marocchina (al terzo posto per consistenza numerica). Questa rilevante presenza pone gli insegnanti di fronte a una realtà che andrebbe conosciuta in modo adeguato ( Sotgiu, GISCEL Lazio). Infatti, il mondo arabo è comunemente ritenuto un’area unitaria, sia dal punto di vista culturale e religioso che, soprattutto, linguistico. In realtà, il patrimonio linguistico di origine di questi immigrati è caratterizzato da un’alta variabilità molto articolata: l’arabo classico, l’arabo standard moderno, il marocchino moderno e la varietà dialettale, oltre a un plurilinguismo di minoranze linguistiche, come il berbero (con una struttura differente dall’arabo). Tale eterogenea dimensione sociolinguistica plurilingue può offrire conoscenze essenziali per impostare efficacemente il percorso didattico dell’insegnamento dell’italiano L2 ad apprendenti considerati semplicemente “arabofoni”. Così come, del resto, invitano a fare le Dieci Tesi: “La scoperta della diversità dei retroterra linguistici individuali tra gli allievi dello stesso gruppo è il punto di partenza di ripetute e sempre più approfondite esperienze ed esplorazioni della varietà spaziale e temporale, geografica, sociale, storica, che caratterizza il patrimonio linguistico dei componenti di una stessa società: imparare a capire e apprezzare tale varietà è il primo passo per imparare a viverci in mezzo senza esserne succubi e senza calpestarla.” (Tesi VIII, 4).

... Segue ...

Note

1. Il G.I.S.C.E.L., Gruppo di Intervento e Studio nel Campo dell’Educazione Linguistica, è un’associazione di insegnanti e studiosi di linguistica, nata nel 1975. Per informazioni e contatti, si rinvia al sito dell'associazione.
2. Qui non si darà spazio a tutti gli interventi dell'ampio programma, ma solo ad alcuni, esemplificativi delle tematiche affrontate.
3. Si rinvia al sito del GISCEL per la lettura delle Dieci Tesi per un’educazione linguistica democratica (1975), documento fondativo dell’associazione stessa. Su insegnare è aperta un'intera sezione dedicata ai quarant'anni delle "Dieci Tesi" e alle prospettive future dell'educazione linguistica.
4. Le informazioni in parte sono tratte anche dagli abstract allo scopo di fornire un panorama delle tematiche trattate e dei tanti campi di ricerca aperti attualmente in Italia sull’Italiano L2 e sul plurilinguismo. Sul sito del Giscel sono stati inseriti nella sezione “Vita associativa” i PPT degli interventi.