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lettere a insegnareoltre la lavagna

17/09/2014

Per chiudere la riflessione sul prof. Keating

a cura di insegnare

È giunto il momento di chiudere la lunga rassegna di pensieri, suggestioni, riflessioni attorno alla figura del prof.ssor Keating, che abbiamo aperto il 14 agosto alla notizia del tragico suicidio di Robin Williams.

È stata un'occasione importante, che ci ha consentito di riflettere sul nostro lavoro, sugli effetti che produce, i sentimenti che smuove o alimenta, le risorse che lo devono sostenere. "insegnare" ringrazia tutti coloro che hanno dato un loro contributo a questa riflessione a più voci. E invita chi non l'avesse ancora fatto a leggere le testimonianze che abbiamo raccolto. 

Per chiudere questa lunga e stimolante rassegna, avremmo potuto buttarla sul didattico e parlare di figura professionale. In tal senso avremmo voluto ricordare che uno dei motivi per cui a molti di noi Keating non è mai piaciuto fino in fondo è che, nel bene e nel male, rappresenta l'apoteosi dell'insegnante individuale e spesso individualistico, un modello di insegnante che a parere di molti di noi ha fatto il suo tempo. Ora l'insegnante deve essere un professionista collegiale (e un poco collettivo): non c'è più tempo per le luci e  le miserie del rapporto uno a molti che caratterizza da secoli  la funzione docente  talvolta la esalta, altre volte la impoverisce...
O meglio, forse ciascuno dovrebbe aver diritto, nella vita, di incontrare almeno un insegnante che te la cambia o ti lascia un'impronta profonda, come vuole l'etimologia del suo nome. Ma forse non più di uno.  Accanto dovrebbe anche incontrare una molteplicità di professionisti collegialmente capaci di accompagnarlo attraverso le componenti meno coinvolgenti ma forse non meno nobili del crescere e dell'apprendere. Ma avremo modo di continuare a discuterne...

Ora invece ci piace chiudere questa rassegna di testimonianze con una bella riflessione di Cristina Nesi, insegnante, esperta di didattica della letteratura, che ci riporta dentro il rapporto fra gli adolescenti e la poesia, che è poi lo strumento principale del dialogo di Keating con i suoi studenti e del film con i suoi spettatori.  Su questo tema, si veda anche l'articolo di Lina Grossi

m.a.

Keating, gli studenti e la poesia

 di Cristina Nesi

1959. La Beat generation infuria a San Francisco, ma al Welton College nel Vermont quando arriva il nuovo professore di letteratura John Keating nessuno sembra essersene accorto. Nemmeno Keating.

Adepto da giovane del Dead Poets Society (questo è il titolo originario del film), Keating legge da una tradizionale antologia scolastica brani di Thoreau, Whitman, Byron, Shakespeare, Tennyson. Li legge, certo, con grande passione personale e i suoi studenti lo imitano, incontrandosi di notte per recitare poesie in una grotta, ma resta il fatto che proporsi come mentore istrionico rischia di produrre dei cloni. Farlo poi, servendosi di una poesia di Whitman “O Capitano, mio Capitano”, scritta in onore di Lincoln, è un vero precipizio didattico. Si finisce per bruciare uno dei momenti più significativi dell’educazione letteraria: quello di porre una distanza di sguardo fra se stessi e la realtà.

Certo, Keating sostiene che non leggiamo poesie perché è “carino”, ma perché facciamo parte di una razza umana che è “piena di passioni”. E questo è condivisibile. Ma, non è un caso che i ragazzi ricordino soprattutto Neal Perry, lo studente che meglio sembra seguire l’insegnamento di Keating alla lettera, accettando la parte di Puck in Sogno di una notte di mezza estate e opponendosi al padre. Il fatto è che la letteratura non lo aiuterà a fronteggiarlo e soccomberà come un eroe alla Werther di datata memoria. La sua vicenda è quella dell’‘interprete’ della poesia, non quella del visionario, capace di comprendere in profondità il quotidiano attraverso la lucidità dei versi.

Diversa la storia di Todd, il timidissimo poeta che nella grotta indiana mantiene il silenzio e che saprà captare la vita da più angolazioni. Solo la “vecchia talpa” cieca riesce a trovare lo sguardo lucido e la giusta distanza dalle cose, che la poesia regala. 

L’attimo fuggente non è il miglior film di Peter Weir, né la migliore interpretazione di Robin Williams, che si è prestato a un cinema per famiglie d'impronta disneyana, tradendo - come dice Goffredo Fofi - la sua prima vocazione all'irriverenza. Quella del bel film La leggenda del Re Pescatore.