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08/07/2015

La "Buona scuola" e la professionalità degli insegnanti: problemi e proposte - Parte II

di Flavio Pusset

Professionalità e valutazione degli insegnanti - Parte II  (vedi Parte I)

Uno degli esempi di ambiguità della discussione partita dal documento del governo, ma  che, a mio parere, è centrale nelle funzioni che assume la scuola,  è  quello della professionalità e della valutazione del lavoro degli insegnanti.
Cercherò di definire con maggiore precisione quello che intendo   per professionalità dell’insegnante, prima di affrontare alcuni problemi collegati ad essa: se sia necessario valutare il livello di professionalità individuale,  da chi debba essere valutata,  in quali modi, e quali effetti può provocare rispetto alla figura docente.

Temporalmente, la professionalità di un insegnante si costruisce in tre momenti, aventi durata ed importanza diverse:

  • la fase preprofessionale, che include la frequenza degli ultimi tre anni della scuola superiore e di una facoltà universitaria ;
  • la fase di preparazione professionale, che può avere diverse modalità per i vari insegnanti, legate anche al periodo del loro ingresso nella scuola e delle varie politiche scolastiche effettuate: così possiamo parlare di concorsi, di diplomi di perfezionamento a livello individuale o collettivo svolti in collegamento con Università o associazioni professionali, di corsi di preparazione ai concorsi, ecc.;
  • la fase di formazione e aggiornamento, svolta durante la carriera, contemporaneamente alla funzione docente.

Metodologicamente la  professionalità docente si costruisce mettendo insieme diversi aspetti: competenza disciplinare come conoscenza di contenuti e della  metodologia  della disciplina insegnata; capacità intrardisciplinari, nel senso di individuare e di mettere in luce collegamenti e differenze con le altre discipline; capacità di creare un clima di lavoro produttivo con gli studenti e i colleghi;  quella di saper mettere in primo piano gli aspetti positivi in una situazione problematica e di impedire che le difficoltà diventino ostacoli insuperabili;  la capacità di mettersi in sintonia con gli stili cognitivi e  gli interessi degli studenti ecc.

è chiaro che la professionalità è collegata strettamente con la soggettività dei vari insegnanti,  che modula secondo criteri e scelte in parte personali i diversi aspetti del rapporto educativo, per cui la professionalità viene declinata in modi diversi; alcuni di questi  possono magari risultare positivi in una situazione e negativi  in un’altra.  

L’altro aspetto fondamentale che agisce sulla professionalità è dato dalle condizioni oggettive in cui avviene il rapporto educativo: fare scuola in un ambiente di una periferia urbana degradata, a parità di “bravura” e di impegno  professionale dell’ insegnante, produrrà risultati diversi rispetto a quelli che si determinerebbero se lo  stesso insegnante operasse  in una scuola frequentata dalla media borghesia di un quartiere residenziale. Pretendere di valutare i risultati di un insegnante come se tutte le condizioni di partenza fossero equivalenti è come pretendere di stabilire la  bravura di un medico paragonando i livelli di mortalità dei suoi interventi chirurgici, indipendentemente dal fatto  che sia un neurochirurgo che lavora in una struttura di emergenza di un paese africano, o un chirurgo plastico che opera in  una clinica privata di un paese  europeo.

In quale senso è dunque possibile operare una valutazione della prestazione professionale degli insegnanti?
Attualmente la scuola presenta una situazione in cui i criteri di differenziazione,  dal punto di vista salariale,  sono determinati da tre variabili:

  • Al primo posto come importanza sta il numero di anni (riconosciuti ufficialmente), in cui l’insegnante lavora  nella scuola: l’anzianità. Per esempio, nella scuola primaria il rapporto salariale fra un insegnante nei primi due anni di carriera e un insegnante con più di trenta anni di carriera è di circa 68/100. (Per i dati faccio riferimento agli stipendi lordi citati nella tabella Come funziona la carriera dei docenti, presente nella prima versione del documento sulla “Buona scuola”).

 Il criterio che dovrebbe essere  sotteso alla differenziazione è che da quanti più anni si insegna,  meglio si fa scuola. Ora, questo criterio ha obiettivamente delle motivazioni, fra cui quella di garantire che, a parità di carriera e di arco di tempo considerato, tutti raggiungano le stesse cifre salariali, ma tuttavia esso non deve diventare un assoluto. In certe situazioni personali e ambientali difficili, infatti,  l’anzianità di servizio può far aumentare la competenza, ma far diminuire la motivazione.

  • Il secondo aspetto di differenziazione è dovuto all’ordine di scuola in cui si insegna: per esempio il rapporto salariale fra due insegnanti, uno della primaria e uno della secondaria superiore agli inizi di carriera è di 92/100 (dati presi dalla stessa fonte sopracitata).

Qui la motivazione della differenziazione sembra ancora più oscura della prima: vengono infatti pagati di più gli insegnanti che hanno un obbligo di ore di insegnamento inferiore. Se la diversità di trattamento economico poteva avere un significato quando per insegnare nella scuola primaria bastava un diploma, mentre per insegnare nella secondaria occorreva la laurea, ora non  ha più senso, visto che tutti devono possedere, al momento dell’ingresso come insegnanti, la laurea.
Il motivo parrebbe dunque collegato a un a concezione di scuola che fa aumentare lo stipendio in base ad una presunta maggior difficoltà e complessità del lavoro con gli studenti di età più alta. Cosa molto discutibile, pedagogicamente e psicologicamente.

  • Il terzo fattore di diversificazione salariale è dovuto alla parte del monte salariale collegato con l’organizzazione del piano dell’offerta formativa e con l’impegno che i diversi insegnanti dedicano alla sua realizzazione, ma questo costituisce percentualmente una differenziazione molto bassa.

Ci sono poi aspetti della professionalità docente che non sono direttamente  collegati alla differenziazione salariale: per esempio la considerazione e lo status sociale, dipendono più dal tipo di popolazione che frequenta una scuola e dal tipo di rapporti che i docenti  riescono a costruire  con essa, che dal salario percepito.

Valutare la professionalità docente

Valutare la professionalità significa allora approfondire questi fenomeni ed eventualmente  sostituire i criteri inadeguati con altri migliori.
Va  notato che esiste una fetta minoritaria della categoria che si oppone tout court alla valutazione della professionalità degli insegnanti, in nome dell’autonomia della didattica, della libertà di insegnamento e di una  presunta omogeneità  nelle  prestazioni che tutti gli insegnanti fornirebbero già ora. Personalmente considero obiezioni di questo tipo come posizioni di destra, che danno della realtà scolastica una visione  “allo specchio”  rispetto a quella del governo, ma che in ultima analisi fanno permanere nella scuola un profilo conservatore.

A me non pare possa  essere messo in discussione il principio  che la scuola pubblica, una volta individuati gli obiettivi e scelto strumenti e contenuti che li sostanzino, come responsabile ultima  della coerenza  e dell’efficacia delle sue funzioni,   abbia il diritto di richiedere che chi la frequenta  possa attendersi un livello minimo di prestazioni, indipendentemente dall’insegnante che le eroga.
Altrimenti, alle differenze dovute alla situazione socio-culturale di partenza degli utenti, si sommerebbero quelle dovute al tipo di insegnanti casualmente incontrati; il peso  assunto dai fattori casuali diventerebbe francamente ingestibile e minerebbe alla base la credibilità della scuola.

Valutare la professionalità è molto complesso anche dal punto di vista di chi dovrebbe valutare.
Ci sono infatti fattori (per esempio il tipo di rapporto instaurato con colleghi e studenti,  la capacità di utilizzare le metodologie più adatte nelle varie situazioni),  in cui è indispensabile che il processo di valutazione  coinvolga figure interne alla scuola  nella quale opera l’insegnante, perché il giudizio può far riferimento solo alla situazione concreta esaminata di cui si deve avere una conoscenza diretta.
Altri fattori, invece, (per lo più di tipo cognitivo e culturale) richiedono una valutazione basata su obiettivi condivisi dopo una discussione approfondita, ma è meglio che il processo  sia gestito da figure esterne a quella scuola, per garantire una maggiore trasparenza e imparzialità.

In ogni caso, in una situazione come quella italiana, caratterizzata da diffusi fenomeni corruttivi,  clientelari, o anche solo  dalla presenza di gruppi che ricordano “famiglie allargate” basate su affinità “ideologiche” o caratteristiche culturali settarie, nessun momento del processo valutativo può essere lasciato in mano a una persona sola (il dirigente). La prima versione della proposta del governo andava invece proprio in questa  direzione.
Nel documento iniziale presentato dal governo, si parlava poi  di definire “con chiarezza cosa ci aspettiamo dal corpo docente in termini di conoscenze, competenze, approcci didattici e pedagogici per assicurare unità degli standard su tutto il territorio nazionale e definire uno sviluppo uniforme della professione di docente”.

Questo punto nodale è scomparso nel Ddl presentato alla Camera, così come è assente ogni riferimento alla condizione economica, sociale, geografica che costituisce il bacino d’utenza della scuola  presa in esame, condizionandone i risultati.
Il primo documento del governo stabiliva inoltre un numero completamente  arbitrario, che fungeva da discrimine fra insegnanti “bravi” e insegnanti “di serie B”,  stabilendo che  poteva aver accesso agli aumenti di merito ogni tre anni il 66% degli insegnanti di ogni scuola In questa parte affiora la concezione del livello di professionalità  docente come fattore innato,  distribuito casualmente  in tutte le situazioni. Veramente un dubbio a questo proposito deve aver sfiorato gli estensori del documento, che proponevano, però, come rimedio, uno strumento peggiore del male: i docenti definiti “mediamente bravi” avrebbero dovuto spostarsi nelle scuole più malridotte e con gli insegnanti meno preparati, motivati  dal fatto che lì sarebbe stato più facile ottenere il premio salariale. Con tanti saluti a ogni discorso di costruzione comune nella progettazione didattica, alla continuità didattica con le classi e a ogni tentativo di omogeneizzare i risultati delle varie  scuole .

La  versione  del Ddl approvata dalla Camera ha sì tolto gli obbrobri più grossolani, ma restano parecchie ambiguità e confusioni.
Per esempio, la parte dell’aggiornamento, quella che mette a disposizione di ogni insegnante un bonus da 500 euro, considera praticamente allo stesso modo l’impiego della cifra in attività di formazione professionale da riutilizzare nella scuola e quello in attività che possono semplicemente rientrare nel campo degli interessi culturali personali di  un insegnante indipendentemente dal suo campo di insegnamento. Il confronto fra scelte, che possono essere radicalmente diverse, non è previsto.

Quanto a quello che viene chiamato “Valorizzazione del merito del personale docente”, un semplice calcolo ne fa emergere l’irrilevanza  economica rispetto ai processi conflittuali che potrebbe scatenare e alla possibilità di dare il via a processi significativi di cambiamento dall’ interno.
Viene stabilita, come premio per gli insegnanti meritevoli, la cifra di 200 milioni annui. Tenendo conto che, secondo i dati del MIUR, nel 2014 gli insegnanti dell’organico di fatto erano circa 739mila, resterebbe la “spaventosa” cifra media di circa 270 euro annui a testa come stigmate del merito. Per  cui, o si pensa di adottare criteri estremamente restrittivi per far scendere la percentuale degli insegnanti che possono usufruire di questo monte premio,  e quindi si crea una élite molto ristretta, oppure oggettivamente la cifra è irrisoria.

Quanto ai criteri di valutazione del gruppo che dovrebbe individuare gli insegnanti meritevoli, ancora una volta vengono confusi obiettivi espressi in forma generica come “il contributo alla  qualità dell’ insegnamento”, e obiettivi misurabili in termini di tempo impiegato, ma di cui non viene determinato il rapporto  con i risultati: per esempio: le “ responsabilità assunte nel coordinamento organizzativo del personale” non si accompagnano con la verifica finale delle varie iniziative intraprese.
E i poteri che dovrebbero avere i membri dei Comitati per la valutazione, che stabilisce  chi sta “dentro” l’aumento e chi sta “fuori”, sono ancora molto ambigui , se confrontati con quelli del Dirigente.

Qualche proposta

Anche solo affrontando questi problemi preliminari si vede che il problema della professionalità docente va approfondito senza pregiudiziali ideologiche e analizzando sia le premesse sia le conseguenze di una pluralità di opzioni.
Prima di tutto, però,  si deve porre fine  alla scandalosa differenza di trattamento salariale rispetto ai colleghi europei, e che riguarda la globalità degli insegnanti italiani.

Poi emergeranno altri problemi, di cui fornisco un primo e sommario elenco:

  • Stabilire un rapporto tra la funzione di valutazione e l’attività di insegnamento. Io penso che una forma di collegamento tra i due momenti vada mantenuta  e  che al massimo si potrà discutere se gli insegnanti che hanno parte nei processi valutativi dei loro colleghi lo debbano fare in una fase specifica della loro carriera, (per esempio verso la fine), o attraverso una riduzione temporanea del monte ore dedicato all’insegnamento.
  • Stabilire in che modo gli  strumenti valutativi debbano principalmente servire a un miglioramento dei risultati della scuola nel suo complesso, e come si possa evitare che si trasformino in attestati  di gerarchie interne con poteri  e carriere diverse.
  • Stabilire il passaggio di ogni momento valutativo attraverso un confronto tra i dati emersi, che espliciti problemi,  soluzioni,  metodologie, stabilisca quali attività abbiano funzionato e quali  no, estendendo la ricognizione a tutti gli insegnanti coinvolti.

Naturalmente la parte delle forze che non  condividono la concezione neoliberista proposta dal governo dovrà impegnarsi  molto per individuare, dettagliare, collegare i vari punti, al di là delle dichiarazione di principio e degli slogan generici.
Infatti sarebbe molto triste e frustrante dover assistere, ancora una volta nel ruolo di spettatori a bordo campo esclusi dai giochi,  a una lotta  fra una “ex sinistra” che si vergogna delle proprie origini  e desidera che la scuola diventi un campo di battaglia dove esercitare la selezione naturale, e una sinistra “archeologica”, prigioniera del passato, che scambia i propri desideri con la realtà, e i principi di fondo con  i programmi di breve periodo, e che definisce i propri obiettivi collegandoli a una società immaginaria, di cui non esistono da tempo le figure di riferimento.