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28/06/2020

La centralità della scuola

di Claudia Dogliani

Quello che sembra emergere dalle informazioni qui raccolte rappresenta solo uno dei molteplici piani su cui si stanno attivando forze, interessi e visioni, che stanno accerchiando il mondo della scuola, ciascuna con le proprie rivendicazioni. Si vedano per esempio il documento dell’ANP, o le posizioni espresse dal vicepresidente di Confindustria che ipotizza per l’istruzione un patto pubblico-privato, o le proposte contenute nel documento redatto dalla Commissione Colao, che pongono la formazione al servizio delle imprese e della competitività economica.

Ci sono profondi interessi in gioco: la scuola viene vista come un’opportunità di investimento appetibile e di profitto per il settore privato e, in particolare, per le grandi multinazionali.

La scuola pubblica non è più riconosciuta come elemento centrale della vita del paese.
È da qualche decennio infatti, che la scuola non è più una priorità nell’agenda politica dei governi nell’elaborazione di strategie di lungo periodo e di ampio respiro. Non lo è stata nemmeno in occasione della gestione dell’emergenza sanitaria legata alla pandemia: non le è stato riconosciuto il ruolo fondamentale che avrebbe dovuto e potuto ricoprire nella riapertura del paese, come centro della ripartenza con politiche programmate e investimenti. In questo senso lampante è stato il fatto che il premier Giuseppe Conte nella conferenza stampa del 26 aprile a Palazzo Chigi, illustrando le misure contenute nel Dpcm sulla cosiddetta Fase due, relativa alla lenta e graduale ripresa delle attività, non abbia nemmeno citato la scuola, mentre invece ha affrontato il problema del riavvio del campionato di calcio di serie A e della possibilità di celebrare le messe.
Inoltre, mentre nel giro di poco tempo sono stati costituiti comitati tecnici di varia natura, per la scuola sono trascorsi bene due mesi prima che si insediasse un comitato di esperti per stilare un piano per la ripresa delle attività scolastiche.
Come se non bastasse il governo, quando aveva approvato il Decreto Scuola, aveva previsto attività didattiche fin dal primo settembre, mentre ora sembra che l’inizio delle lezioni possa slittare di due o tre settimane a causa delle enormi pressioni del settore turistico, che chiede di poter lavorare nella prima metà di settembre, e delle elezioni amministrative, che si dovrebbero tenere il 20 e 21 settembre.
Questa messa in secondo piano ha inevitabilmente una ricaduta sociale che aggrava maggiormente la situazione: se la scuola non è al centro dei progetti dei governi e, in generale, della politica, non è al centro della società. Pertanto, non essendo ritenuta, a quanto pare, un’istituzione fondamentale, non le vengono riconosciuti autorevolezza e importanza e nemmeno la sua funzione di mobilità sociale e risolutrice di diseguaglianze. Di conseguenza, si incrina la fiducia dei cittadini verso la scuola.
Questa mancanza di centralità si nota anche nel fatto che l’Italia si attesta nelle ultime posizioni in Europa per percentuale del PIL investito in ambito scolastico (3,8% a fronte di una media europea del 4,6%), ed è addirittura all’ultimo posto in Europa per quanto riguarda gli investimenti nel settore universitario (con una spesa pari allo 0,3% del PIL a fronte di una media europea dello 0.7%). [1]
Come ha indicato chiaramente Massimo Baldacci nel webinar organizzato dal Cidi di Torino È tempo di pensare, [2] la mancanza di centralità della scuola è legata anche alle trasformazioni socio economiche in risposta alla crisi degli anni Settanta, che hanno spostato il focus dal tema dell’uguaglianza formativa e delle riforme necessarie ad assicurarla in un sistema scolastico diventato di massa, a quello della qualità dell’istruzione e del tenore degli esiti formativi prodotti dalla scuola. Dalla seconda metà degli anni Ottanta l’attenzione si è trasferita quindi sulla qualità del prodotto scolastico, inteso come raggiungimento di risultati d’eccellenza, qualità che si stimola attraverso la concorrenza tra gli insegnanti, tra gli studenti, tra le scuole organizzate come aziende. Ma il mito della scuola-azienda è miseramente crollato di fronte all’incapacità di gestire in modo razionale e pianificato l’emergenza.

Questo processo ha fatto sì che la scuola, con la spesa per l’istruzione al suo minimo storico e la preparazione degli studenti sotto la media europea, oggi non sia più uno strumento capace di sconfiggere le disuguaglianze e sia in larga parte una scuola classista, come emerge chiaramente da tutte le indagini. Basta per esempio pensare al fatto che solo un bimbo su quattro frequenta l’asilo nido e che le differenze socioculturali si stratificano molto presto rischiando di rimanere addosso per tutta la vita. Gli studi dimostrano che già all’età di tre anni e mezzo le diseguaglianze si cristallizzano [3].

Il mondo della scuola e dell’università, quasi dimenticato, messo ai margini dell’agenda politica rispetto ad altri settori, si è così trovato impreparato ad affrontare la fase di emergenza legata alla pandemia.
Durante la fase della didattica a distanza, che chiamerei in modo più appropriato didattica dell’emergenza, la scuola si è retta unicamente sull’impegno e sulla dedizione degli insegnanti, che hanno affrontato la situazione mettendosi in gioco in prima persona, così come hanno fatto in momenti precedenti ogni volta che la scuola si è trovata in situazioni di difficoltà legate al continuo taglio di investimenti.
In questi mesi la didattica dell’emergenza è stata importante perché ci ha permesso di non interrompere quei legami complessi che caratterizzano la scuola come comunità di ricerca, di pratiche e di relazioni, mantenendo vivo il rapporto con i bambini, i ragazzi e le loro famiglie. Ma, come è stato più volte ribadito, la didattica a distanza non è scuola, perché la scuola comprende condizioni di spazio, tempo, relazione che si possono attivare unicamente in presenza.
Lo spazio ha un ruolo fondamentale per il processo di apprendimento degli studenti. Il bambino e il ragazzo devono potersi confrontare faccia a faccia tra loro e con gli insegnanti durante l’elaborazione di un’attività; avere la possibilità di lavorare in coppia e in un piccolo gruppo; potersi muovere, lavorare e relazionare in uno spazio condiviso; avere occasioni di incontro e di scambio con altri allievi della scuola. L’ambiente digitale è uno spazio virtuale, astratto, ed è perciò un tipo di ambiente di apprendimento diverso dall’aula scolastica, che non solo è uno spazio fisico, ma è anche un luogo simbolico, nel quale l’alunno percepisce il legame con il proprio gruppo classe e attinge da esso i segni della propria esperienza. Lo spazio fisico, che era, e deve ritornare a essere, l’elemento distintivo e condiviso del fare scuola, si è ristretto improvvisamente alle abitazioni, ambienti molto diversi tra loro e quasi mai adatti all’apprendimento. Lo spazio pubblico scuola è entrato nello spazio privato casa, creando una situazione ibrida che ha prodotto disorientamento.
Oltre allo spazio, anche il tempo ha una precisa valenza pedagogica.  Nella scuola in presenza è un tempo disteso, coerente con l’idea che l’insegnamento di una disciplina non possa riguardare esclusivamente i contenuti di conoscenza, ma debba anche favorire l’approccio a strategie, metodi, linguaggi che ne sostengono il processo di organizzazione. Nella didattica a distanza il ritmo è serrato, il tempo scuola ridotto e ciò non consente di tenere conto delle diverse modalità di apprendimento di ognuno.
Nella didattica a distanza sono inoltre cambiate le relazioni: senza il contatto diretto dei corpi la relazione è unicamente virtuale. Quello che più è mancato ai bambini e ai ragazzi sono le relazioni e il “calore umano” che stanno attorno alla vita del gruppo classe. A scuola il modello didattico si fonda sull’autonomia degli alunni, in un lavoro autonomo, ma non in solitudine: è un lavoro personale in un percorso collettivo, condiviso con i compagni e seguito prima, durante e dopo dall’insegnante, che si accorge delle difficoltà e interviene, rapportandosi direttamente con il ragazzo, supportandolo, rassicurandolo. A distanza tutto ciò è impossibile: l’allievo è solo.
A essere maggiormente penalizzati dalla didattica a distanza sono stati gli allievi stranieri, con nessuna o scarsa conoscenza della lingua italiana, i bambini e i ragazzi le cui famiglie appartengono alle fasce più svantaggiate, i cui genitori, per quanto responsabili e affettivamente presenti, non hanno le competenze tecniche e gli strumenti culturali per supportarli e, soprattutto, gli allievi disabili, per i quali l’inclusione passa prioritariamente attraverso la relazione e la socialità che si realizza all’interno della comunità scolastica.
Molti studenti hanno seguito in modo discontinuo le proposte didattiche per problemi legati al digital divide, diversi altri non hanno partecipato al dialogo educativo a distanza perché demotivati o non interessati. Sono questi i ragazzi che già a scuola facevano fatica, ma che venivano coinvolti e motivati dal rapporto diretto con i compagni e gli insegnanti, che passava anche attraverso la comunicazione non verbale, inesistente in ambiente virtuale, dove non sarà mai possibile dare una pacca sulla spalla o prendere per mano qualcuno.
Tutto ciò sicuramente avrà una ripercussione negativa sulla dispersione scolastica.
Non bisogna inoltre dimenticare l’asilo nido e la scuola dell’infanzia, che sono spariti dall’agenda politica nazionale e che sono stati ricordati dai mass media unicamente per rimarcare la parte assistenziale legata alla necessità dei genitori di riprendere le attività lavorative.
L’asilo nido e la scuola dell’infanzia sono un ambiente di apprendimento a forte valenza educativa e sociale, significano contatto, esperienze, gioco. I bambini frequentandoli sviluppano l’identità, le prime autonomie personali, potenziano la lingua, vivono relazioni sociali indispensabili per un’equilibrata crescita. Con la didattica a distanza sono stati bruscamente interrotti i percorsi educativi ed è stata compromessa l’idea di scuola come comunità stabile con un patrimonio condiviso, scandita nella sua organizzazione di routine, di sistematicità, intenzionalità e pianificazione.

La situazione emergenziale è stata anche un’occasione per asservire la scuola a logiche esterne. Il Cidi Torino ha elaborato documenti di riflessione in cui si evidenzia come vi sia un attacco sistematico alla scuola pubblica da tutti i fronti.
Già da tempo è stata messa in discussione la laicità della scuola, basti pensare al fatto che dal 2017 i docenti di religione e di materie alternative sono entrati a far parte della Commissione d’Esame nella scuola secondaria di primo grado. [4] Inoltre il Miur ha disposto, in merito alla composizione delle commissioni relative agli esami di Stato nella scuola secondaria di secondo grado, che i docenti di religione con contratto a tempo indeterminato possano concorrere alla nomina di Presidente [5]. Queste norme, come più volte sottolineato da associazioni di insegnanti, di genitori e da organismi delle minoranze religiose, sono incongruenti con l’impianto laico e pluralistico della scuola pubblica espresso nella Costituzione Italiana.
Inoltre, in occasione della pandemia i finanziamenti alle scuole paritarie (molte della quali sono confessionali) sono raddoppiati arrivando a 150 milioni di euro, oltre alla quota destinata alle sedi degli Esami di Stato. La novità sta nel fatto che, oltre alle scuole paritarie della fascia 0-6, a cui vanno circa 80 milioni di euro, sono stati destinati 70 milioni di euro alle scuole per i ragazzi fino ai 16 anni, scuole che erano in crisi di iscrizioni anche prima del Coronavirus e che sono frequentate solo dal 30% degli iscritti negli istituti paritari.
Sulla scuola, inoltre, c’è una forte pressione sull’innovazione tecnologica. Già da qualche anno intorno alle scuole agiscono agenzie private che si occupano della formazione tecnologica degli insegnanti e che hanno organizzato corsi di formazione e campus in collaborazione con Microsoft, Google ed altre corporation, corsi riconosciuti dal Ministero dell‘ Istruzione e sponsorizzati dagli Uffici Scolastici Regionali. Il numero di webinar e di corsi organizzati in questo periodo per i docenti è stato veramente impressionante. Sono inoltre stati organizzati incontri e dibattiti che hanno coinvolto le più diverse figure che giocano un ruolo decisivo nell’orientare e governare la scuola in tutte le sue articolazioni creando confusione tra il concetto di modernizzazione tecnologica e quello di modernizzazione culturale, che in realtà non coincidono: la prima riguarda la modernizzazione degli strumenti di comunicazione, la seconda gli obiettivi di senso entro cui si inscrivono le pratiche della comunicazione. Per esempio si possono usare strumenti nuovi e sofisticati per fare una lezione di tipo tradizionale basata sulla prassi della spiegazione/studio/interrogazione. Le nuove tecnologie devono essere all’esclusivo servizio dei processi di apprendimento/insegnamento e devono essere governate in modo consapevole, con una riflessione pedagogica, coscienti del fatto che non sono in sé sufficienti per migliorare la qualità quotidiana del fare scuola.

Quello che sembra emergere dalle informazioni qui raccolte rappresenta solo uno dei molteplici piani su cui si stanno attivando forze, interessi e visioni, che stanno accerchiando il mondo della scuola, ciascuna con le proprie rivendicazioni. Si vedano per esempio il documento dell’ANP, o le posizioni espresse dal vicepresidente di Confindustria che ipotizza per l’istruzione un patto pubblico-privato, o le proposte contenute nel documento redatto dalla Commissione Colao, che pongono la formazione al servizio delle imprese e della competitività economica.
Ci sono profondi interessi in gioco: la scuola viene vista come un’opportunità di investimento appetibile e di profitto per il settore privato e, in particolare, per le grandi multinazionali.

Un processo analogo sta avvenendo nel mondo dell’università e della ricerca, che è strettamente collegato con il mondo della scuola. Come afferma Angelo D’Orsi [6], la crisi economico-finanziaria del 2007-2008 è stata usata come alibi per accelerare i processi di privatizzazione e per ridurre gradualmente il fondo di finanziamento ordinario per l’università e la ricerca. La scelta è stata quella di dirottare i finanziamenti verso le università “d’eccellenza”, togliendone proporzionalmente a tutte le altre.
Nell’ultimo ventennio si sono moltiplicati gli atenei non statali e, con lo sviluppo tecnologico, sono nati quelli telematici o a distanza. Il business delle università private è oggi fiorente e lo ha ricordato nella scorsa primavera l’Eurispes [7], sottolineando come nel comparto non statale risultino in aumento costante gli iscritti e i laureati.
In questo discorso rientra anche il fiorire di master, corsi e certificazioni privati volti ad aumentare il punteggio in vista dell’aggiornamento delle graduatorie dei docenti.
Un vero e proprio business in cui a farne le spese sarà ancora una volta la qualità della scuola pubblica e, di conseguenza, la società intera.

È quindi importante non perdere di vista la centralità che deve avere la scuola nella nostra società per il ruolo fondamentale che riveste in quanto esperienza di quella che Domenico Chiesa definisce umanizzazione culturale e che fa sì che, attraverso il valore della conoscenza, i bambini e i ragazzi si impadroniscano della cultura prodotta dalle generazioni che li hanno preceduti. Il processo di umanizzazione è un processo continuo, che dura tutta la vita, perché intrinseco al nostro essere esseri umani e, come tali, individui in continua e perenne evoluzione. La dimensione neotenica è ciò che ci distingue dalle altre specie viventi, ma il processo non è neutro: nel comportamento sociale nulla è naturale, solo l’orientamento della cultura può stabilire la direzione verso cui si rivolge una società [8].
Il risultato complessivo di lungo termine dell’intera formazione scolastica è la maturazione di una capacità critica. Come afferma John Dewey, nel lavoro formativo, accanto all’apprendimento superficiale degli argomenti, vi è un processo parallelo e contemporaneo, da lui definito “apprendimento collaterale”, che porta alla formazione di abiti mentali e che ha fondamentale rilevanza in un processo di formazione. Mentre le conoscenze possono infatti essere dimenticate, gli abiti mentali, una volta strutturati, sono persistenti e condizionano per tutta la vita il modo di pensare e di affrontare la realtà di ogni persona. Ecco allora l’importanza e la centralità della scuola che, formando abiti mentali, contribuisce a riprodurre un determinato modello di società.
Dare a tutti i cittadini gli stessi strumenti di conoscenza e far maturare in ogni individuo la capacità critica - come affermato nel documento del Cidi di Torino Sì, allora cambiamo la scuola (davvero!) [9] - significa rendere le persone in grado di fare scelte consapevoli, di emanciparsi dalla generazione che precede e dalla collocazione sociale di partenza, come azione di riscatto dei singoli ma in un progetto di riscatto sociale.
Una scuola-azienda, invece, ha come obiettivo la creazione non di cittadini, ma di produttori: sarà una scuola che molto probabilmente non si porrà nemmeno il problema di dare a tutti gli stessi strumenti di base, indispensabili per partecipare alla vita democratica, e sarà una scuola che plasmerà un tipo di società basato sulla meritocrazia, sulla selezione e quindi sull’acuirsi delle diseguaglianze sociali.

Lamberto Borghi affermava che la scuola dovrebbe essere riformata come una comunità di liberi dubitanti. Occorrerà allora guardarvi non come a una azienda, governata dai principi che regolano il mondo dell’impresa e gestita in modo verticistico, ma come a una comunità di liberi dubitanti, dove vige uno spirito di discussione libera, aperta, tollerante: una scuola che, come comunità democratica, formi e induca allo spirito critico e allo spirito democratico perché, come aveva affermato Pietro Calamandrei all’alba della nostra Repubblica: “Se si vuole che la democrazia prima si faccia e poi si mantenga e si perfezioni, si può dire che la scuola, a lungo andare, è più importante del Parlamento e della Magistratura e della Corte Costituzionale” [10].

Nel cercare di dare centralità alla scuola, un ruolo importante - lo ha sottolineato Massimo Baldacci nell’incontro organizzato dal Cidi di Torino [11]  - possono averlo le associazioni e i sindacati, che devono lavorare in rete con altri soggetti, facendo sistema per arrivare a stravolgere il senso comune diffuso. In questo periodo il Cidi è stato vivo, propositivo, ha organizzato webinar interessanti su come gestire la situazione di emergenza, sta interrogandosi su quanto accaduto e facendo proposte su come gestire la ripartenza, ma, soprattutto, ha elaborato uno spazio di pensiero per il futuro promuovendo l’iniziativa democratica degli insegnanti.
Occorre, quindi, chiederci in che modo sia possibile ricreare e rigenerare la scuola, e non solamente rinnovarla, trasformandola in un centro di ricerca in materia di innovazione metodologica, disciplinare e didattica, in un luogo in cui le azioni di cambiamento possano essere orientate al miglioramento dell’apprendimento di tutti e di ciascuno. Dobbiamo chiederci come sia possibile costruire una scuola che sviluppi il gusto e la soddisfazione di conoscere, di imparare, in sostanza di diventare adulti eternamente in ricerca.

Sono problemi e interrogativi che da anni attraversano la scuola e il paese. Dobbiamo allora chiederci come si possano risolvere, con quali forze, con quali energie, ma soprattutto, quale apporto possiamo dare noi come Cidi per contribuire a migliorare la qualità quotidiana del fare scuola, per realizzare una scuola della Costituzione che sappia fronteggiare le nuove sfide educative.

 

Note

1. Cfr. Commissione Colao (a cura di), “Istruzione, ricerca e competenze”, Schede di lavoro in  Iniziative per il rilancio Italia 2020/2022, p. 92.
2. Cidi Torino,È tempo di pensare. Ripartire dall’idea di scuola per cambiare la scuola (davvero!)”, webinar, 17 giugno 2020.
3. Cfr. Save the Children, Il miglior inizio – Disuguaglianze e opportunità nei primi anni di vita, Save the Children Italia onlus, 2019.
4 D.M. 741/2017, art. 4.
5 C.M. n. 5222, 27 marzo 2019.
A. D’Orsi, “Rovesciare il rovesciamento: una nuova fisionomia dell’università”, in “Micromega”, 4/2020.
7. Eurispes, “La trasformazione in società di capitali delle Università non statali”, 2019.
8. D. Chiesa, “C come cultura”, in S. Nosari e A.M. Venera, a cura di, «C» come... Educare al pensiero creativo, critico, civico, Aracne, 2018.
9. Cidi Torino, Sì, allora cambiamo la scuola (davvero), 2015.
10. P. Calamandrei, “Prefazione”  in G. Ferretti, Scuola e democrazia,  Einaudi, 1956.
11. Cidi Torino, “È tempo di pensare”, cit.

Scrive...

Claudia Dogliani Docente di lettere nella scuola secondaria di I grado; Presidente del Cidi Torino

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