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18/12/2021

Data scientist e capacità critiche: quale filosofia serve ai cittadini?

di Stefano Penge

Noi stiamo lavorando con il piano nazionale di rilancio per ridefinire per i ragazzi la capacità di non esser solo data scientist, ma anche utilizzatori di data”. Leggo questa frase del ministro Bianchi riportata in un articolo di Giuliana Ferraino sul Corriere del 26/09/21, edizione online [1].

Nello stesso articolo ci sono altre citazioni, tutte relative ad un convegno su Etica e Intelligenza Artificiale organizzato a Venezia dall’associazione Aspen Institute Italia. Per esempio: “Impareremo per tutta la vita, perciò pensiero critico e creatività sono cruciali”, Francesco Profumo, Fondazione Sanpaolo. Oppure: “In questo senso l’intelligenza artificiale è un’opportunità per liberare le prossime generazioni: facciamo fare alcune cose alle macchine e usiamo al meglio l’intelligenza emotiva per metterla al servizio dei clienti e dei dipendenti”, Francesco Caio, Saipem.

Su queste dichiarazioni si è basata una polemica relativa all’introduzione della filosofia nei “tecnici”. So pochissimo di scuola secondaria e di che cosa significherebbe questa introduzione in termini di ore sottratte altrove, classi di concorso, etc. Non so, se non per racconti di amici, come si insegna oggi la filosofia nelle scuole italiane, quali sono i manuali disponibili, quali i metodi più attuali. Quindi dovrei semplicemente tacere.

Ci sono però alcune cose che non mi convincono.

Cominciamo dai “data scientists”.  È davvero curiosa l’espressione usata da Bianchi: “non solo data scientist ma anche utilizzatori di dati”. E’ curiosa perché, per la mia personale esperienza, un data scientist è un esperto di estrazione di significato dai dati, esperto di pulizia, aggregazione, indicizzazione di dati. E’ qualcuno che ha sicuramente conoscenze di informatica (basi di dati, ma anche algoritmi) e molto probabilmente di programmazione (per esempio Python e la librerie Scikit-learn). Insomma è un giovane brillante, desideroso di far carriera, che ha in mano un giocattolo meraviglioso e lo vuole usare dovunque e comunque. Non ha nessuna voglia né tempo di mettersi a riflettere sul valore etico delle sue operazioni, sugli effetti a medio termine sulla vita sociale. Non vuole, soprattutto, che qualcuno gli ponga dei vincoli, dei limiti che non sono intrinseci. Usa i dati, quali che siano, ma è del tutto indifferente - professionalmente almeno - al loro significato. Anche perché non viene pagato per indagarlo.

Invece le persone normali potrebbero in effetti usare i dati in funzione dei loro interessi. Potrebbero usare i dati scritti nelle etichette dei cibi per scegliere cosa acquistare e mangiare. Potrebbero consultare i dati pubblicati da ISTAT per scoprire in quali città e regioni ci sono più probabilità di trovare lavoro e in quali c’è una qualità dell’aria migliore per decidere dove trasferirsi. Potrebbero contare quante ore stanno seduti durante la giornata, fare una media annuale e valutare l’opportunità di andare a correre una volta ogni tanto. Ma di solito non lo fanno. Preferiscono usare l’app “TellMeWhatToDo” che gli fa un bilancio delle calorie, gli suggerisce cosa mangiare e anzi glielo ordina direttamente su Foodora.

Insomma: i ragazzi non sono affatto data scientist più di quanto non abbiano un dottorato in matematica a diciott’anni. Non usano i dati, ma usano servizi proposti da altri che sfruttano grandi moli di dati, di solito senza che i ragazzi stessi (proprietari e produttori di quei dati) ne siano consapevoli.

Un piano nazionale di rilancio dovrebbe proprio partire dalla consapevolezza di questo squilibrio. In questo senso si potrebbe interpretare la proposta dell’inserimento della materia “filosofia” dove non c’è, come sottolineatura dell’importanza dello “spirito critico”, che per molti è un po’ la cifra del filosofo: il filosofo è colui (mai colei, si sa) che si pone domande, che dubita. Socrate, Cartesio.

Questo potrebbe essere il senso della frase di Profumo citata nell’articolo: occorre apprendere ad esercitare il pensiero critico. Che è un po’ la stessa cosa che si diceva, e si dice ancora, a proposito del coding: si deve fare coding in classe per imparare il “pensiero computazionale”, che è un tipo di pensiero critico ma applicato alle informazioni.

Come si impara il pensiero critico? Studiando la storia della filosofia, studiando Pirrone, gli empiristi inglesi, Des Cartes, Kant? Non è facile rispondere, anche perché la nostra tradizione è un po’ diversa da quella anglosassone. C’è un problema di metodo didattico: ammesso che il dubbio cartesiano sia il modello, non basta leggere tutti gli scritti di Des Cartes, o più verosimilmente un riassunto di quegli scritti, per acquisire quel modello e saperlo applicare in altre situazioni. Né tutta la filosofia è stata analisi critica della pretese di conoscenza della Ragione. Allora si parte con il dibattito sul “debate”…

La mia esperienza di studio della filosofia è basata sui tre anni canonici della secondaria e su quattro anni di università. Su questa base, quindi senza nessuna pretesa di universalità, credo che si possa anche acquisire, con la pratica personale e l’esercizio in classe, un metodo col quale affrontare le discussioni tra pari senza far prevalere il più forte, come credo che si possa imparare a non dare per scontato che tutto quello che dicono gli adulti è vero; o che si possa imparare ad analizzare una sedicente dimostrazione, per esempio all’interno di un discorso politico o pubblicitario, per valutarne la correttezza logica.

Ma purtroppo non basta questo per rendere le persone consapevoli, ad esempio, della posta che è in gioco con la raccolta e la trasformazione massiccia dei dati personali, o con la sostituzione delle competenze umane con competenze simulate artificialmente, o con la crescita pianificata del debito ambientale. Le buona abitudini del pensiero devono essere accompagnate da un’analisi del contesto reale, della concreta situazione in cui ci troviamo tutti. Bisogna sapere che dietro la “rete” ci sono milioni di dispositivi programmati da qualcuno per raccogliere e scambiarsi dati in funzioni degli obiettivi di business. Il web non è un mare di documenti dove fare surf spensieratamente, è una fitta trama di conversazioni tra agenti che hanno protocolli comuni ma obiettivi diversi, e si contendono le risorse disponibili; risorse di cui noi umani facciamo parte. Se proprio dovessimo usare una metafora naturalistica, sarebbe meglio quella di un giardino. Non il giardino idilliaco dei poeti e dei pittori ma quello concreto, reale, dove le specie vegetali e animali si appoggiano l’una sull’altra, si sfruttano e si fanno una concorrenza spietata per accaparrarsi le limitate risorse esistenti (luce, aria, acqua, sostanze organiche) e riprodursi.

Naturalmente non c’è niente di male ad avere degli obiettivi economici. Meno bene  quando questi obiettivi non sono così trasparenti, o quando prevedono l’acquisizione del dominio totale su un segmento di mercato eliminando ogni possibile concorrenza. Molto meno bene  quando tra gli obiettivi c’è il controllo completo della vita delle persone del pianeta, per lo meno di quella parte di popolazione che è in grado di spendere. Sarebbe il caso che i ragazzi, ma anche i docenti, imparassero a distinguere.

Altrimenti quello che succederà è proprio quanto auspicato da Caio: da un lato macchine programmate per obiettivi che non conosciamo e che offrono servizi più o meno intelligenti, dall’altro gli umani che le vendono senza capirle.

Note

1. Cfr. Giuliana Ferraino, "Il ministro Bianchi riscopre la filosofia: «La porteremo negli istituti tecnici»", in "Corriere della Sera", "L'Economia", 26 settembre 2021.

Parole chiave: filosofia nei tecnici

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Stefano Penge Filosofo prestato all'informatica, formatore, autore di software e di saggi sulla didattica con gli strumenti digitali.

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