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10/02/2014

Perché vorrei essere un'insegnante

di Valentina Sabatini

Questo mio contributo si intitola “Perché vorrei essere un’insegnante”: mi fa sorridere il vorrei proprio perché vorrei essere insegnante ma, nonostante l’abilitazione, noi del TFA non siamo stati inseriti in graduatoria quindi vorrei essere un’insegnante ma non so quando lo sarò.

Per capire cosa mi ha spinto a prendere l’abilitazione e a voler diventare insegnante inevitabilmente guardo al mio passato di studentessa e ai professori che ho avuto io, a cosa mi hanno dato e cosa mi è mancato da parte loro.
I migliori, quelli che io reputo tali, si sono distinti per la passione con la quale vivevano il loro lavoro. Hanno studiato cose che amavano, che li appassionavano, che li proiettavano verso mondi lontani o antichi o immaginari, e quello stesso amore lo trasmettevano agli studenti, senza pretendere di plasmare delle creature a propria immagine e somiglianza, ma solo per il gusto di assaporare ancora e ancora quelle conoscenze e di dire ai ragazzi “Guardate che cose meravigliose esistono!”. E da quella passione veniva fuori un modo di insegnare efficace, perché prima di tutto avevano stabilito un legame con i propri studenti che li hanno percepiti non come estranei e sterili “professori”, ma come persone appassionate  e curiose di cui fidarsi.

Quello che invece mi ha svantaggiato moltissimo è che la maggior parte dei miei professori entrava in classe per inondarci di “bla bla bla”, quanto più se ne riusciva a mettere in un’ora e scappava via per ricominciare la maratona verbale in un’altra classe. Ma soprattutto lo svantaggio è consistito nel fatto che la maggior parte di essi non è stata per me una guida. Essi mi avevano davanti agli occhi tutti i giorni, conoscevano le mie potenzialità e più o meno potevano capire anche in cosa fossi proprio “negata”, a prescindere dai voti (i voti non c’entrano proprio niente in questo discorso). Eppure mai nessuno si è preso pena di chiedermi cosa volessi fare nella vita, quale lavoro, se fossi abbastanza informata sul mercato del lavoro, e cose del genere. Perché sarebbe stata un grossa responsabilità poi consigliarmi. Una enorme responsabilità.
Ma il punto è proprio che essere insegnanti è una grossa responsabilità.

Ecco, allora, che i motivi per cui io voglio essere insegnante sono due:

  • amo profondamente la storia dell’arte e l’archeologia, che mi proiettano verso mondi antichi e lontani, e voglio offrire e trasmettere la mia passione agli studenti che avrò, non pretendendo certo di arrivare a tutti;
  • vorrei essere per i ragazzi - e questo è forse il motivo più importante - una “guida” positiva; per il tempo che passerò con ciascuno di loro, vorrei essere un punto di riferimento positivo, prima ancora che conoscitrice eccellente di storia dell’arte.

Ho riflettuto molto, durante il mio percorso al TFA, e credo di aver definitivamente compreso che per me essere insegnante significa prima di tutto essere un esempio come adulto che continuamente si offre agli studenti, così come da mamma lo sono per mio figlio. Questo non significa assolutamente auto-considerarsi o celebrarsi come essere perfetto. Significa “solo” avere coscienza dell’enorme responsabilità che abbiamo quando entriamo in una classe.

Noi tutti sappiamo che i ragazzi con i quali abbiamo a che fare attraversano una fase delicatissima della loro vita: si stanno formando prima di tutto come persone.  Stanno definendo la loro identità. E lo stanno facendo da “schiavi” degli ormoni, dell’opinione altrui, delle mode, dell’incertezza e dell’insicurezza.
Io sono cresciuta negli anni ’80 e ’90 e al tempo non si prestava molta attenzione a queste cose, oggi però non è più possibile prescinderne. 

Il buon insegnante deve sapere che un adolescente è energia pura e non lo deve condannare per questo, ma anzi aiutarlo  ad  accogliere e raccogliere  quell’energia, per convogliarla verso la giusta direzione, in modo che da caotica essa si trasformi in qualcosa di positivo e concreto.
I ragazzi hanno bisogno di guide.
Guide che li aiutino a non perdersi fra i miliardi di stimoli che arrivano loro da ogni dove.

Hanno bisogno di guide che vedano più lontano di quanto sappiano fare loro a dieci- quindici-diciotto anni, e li aiutino a non perdersi per strada nella costruzione di se stessi. E li aiutino a creare le basi della loro esistenza come persone, prima che come studenti e lavoratori.
Questo è un compito dei genitori certo, ma anche degli insegnanti, visto che trascorrono a scuola metà delle loro giornate.
A scuola abbiamo ragazzi che sono i cittadini del futuro di questo Paese e noi possiamo contribuire alla loro “formazione” di persone prima ancora che di “studenti” in maniera positiva. Ecco, essere davanti ai ragazzi ogni giorno col nostro esempio positivo di persone prima di tutto e di professionisti poi, può davvero incidere positivamente sul mondo di domani. Certo, è una responsabilità enorme, un lavoro molto impegnativo, secondo me non adatto a tutti,   ma io voglio pensare al mio lavoro come a una specie di missione. Se avrò contribuito nel mio piccolo ad aiutare un ragazzo nella conoscenza di sé, a comprendere qual è il suo talento, quali sono gli strumenti di cui dispone naturalmente e che lo aiuteranno a lavorare e a realizzarsi nella vita, io sarò soddisfatta, anche se di storia dell’arte potrebbe sapere ben poco o addirittura niente.

Credo che il compito della scuola e degli insegnanti sia quello di aiutare gli studenti nella conoscenza di sé e di fornire loro gli strumenti necessari ad acquisire quelle competenze che gli consentiranno, una volta concluso il loro percorso scolastico, di realizzarsi come persona.

Forse molti mi considereranno ingenua e diranno “Aspetta di lavorare vent’anni nella scuola e poi vedrai tutti i tuoi buoni propositi dove saranno andati a finire!”, come mi è stato già detto in sede di esame finale del TFA. Ma io voglio credere che sarò io a rendere positivo il mio lavoro a scuola e non che sarà il mio lavoro a scuola a rendere negativa me.