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18/09/2018

Precarietà e incertezza

di Martina Curatolo

Sono stati spesso analizzati e denunciati i guai che derivano dalla ormai cronica incapacità di risolvere il problema del precariato. Ma è comunque opportuno, talvolta, ricordare quanto tale condizione incida sulla vita delle persone, oltre che sull'efficacia dell'intero sistema scolastico.

Il governo Gentiloni aveva deciso di svolgere due concorsi: uno per chi aveva tre anni di servizio e l’altro per tutti i giovani che avessero conseguito i 24 crediti universitari in materia psicopedagogica senza avere esperienza d’insegnamento.  Finalmente noi giovani insegnanti avevamo un obiettivo in cui sperare e a cui prepararci: ci siamo iscritti nuovamente alle università, rimpinguandone le casse, per poter sostenere nuovi esami propedeutici al concorso.

Il nuovo governo adesso si è rimangiato tutto e sembra che per noi tutte/i  le strade siano nuovamente chiuse.

Una delle caratteristiche della nostra società contemporanea è la mancanza di progettualità: la capacità di progettare è ciò che ci consente di vedere lontano, provando a prevedere cosa potrebbe succedere per fronteggiare le possibili difficoltà e per impiegare le proprie energie in maniera costruttiva.
Sembra al giorno d’oggi che questa capacità sia diventata silente a livello politico e istituzionale e che tale assenza si rifletta sulla vita dei singoli, finendo per farli vivere nella contingenza. 
A oggi, non si cerca più di prevedere quale possa essere il benessere della collettività e del cittadino per farsene carico con un progetto politico, ma vige l’arte del “rattoppo”: le cose vengono lasciate andare, senza amore e senza cura; il problema viene preso in considerazione solo quando è ormai già presente. 
L’esempio eclatante sotto gli occhi di tutti è il viadotto Morandi: se ci fosse stato un progetto, una sensibilità nel prendersi cura delle infrastrutture sul territorio, la sciagura si sarebbe evitata con la manutenzione continua del ponte.

Noi giovani stiamo pagando la conseguenza di questa mancanza di progettualità, dell’essere confinati nel contingente e questo fatto, alla lunga, ha delle ripercussioni importanti sulla società di oggi e anche per quella che verrà. Sembra che si sia creato un circolo vizioso: ogni generazione scrolla le spalle, pensando che diventerà un problema della generazione successiva, che non lo riguarda da vicino; chi ha scrollato le spalle sono i nostri padri e le nostre madri, che svolgano un ruolo istituzionale o meno, e forse noi a nostra volta saremo costretti a rifarlo.  Questo schema interpretativo non è applicabile solo all’influsso che la situazione lavorativa del precariato ha sulla scuola, ma anche allo sfruttamento delle risorse planetarie ecc.
Questa tendenza investe purtroppo tutti i campi della società, però vorrei spostare l’attenzione su quello che conosco meglio, quello scolastico.

Quando io ero studentessa al liceo ho visto i primi insegnanti precari, che si alternavano ogni anno solo per alcune materie. Posso testimoniare  con certezza, perché l’ho vissuta in prima persona come esperienza, quanto questo crei ai discenti numerose difficoltà iniziali e insicurezze nella disciplina: ogni anno bisogna conoscere da capo quell’insegnante chi è e cosa pretende. Parallelamente  - naturalmente -  l’insegnante fa il lavoro contrario, quindi ci vuole tempo per stringere una relazione, capire le tecniche giuste che si adattano al gruppo classe; magari per il supplente il titolare precedente non ha fatto un buon lavoro, allora si parte con lo svolgere il programma di due anni in uno o di tre anni in uno. Tutti fatti che finiscono per alimentare incertezze e confusione.
Per un adulto sicuramente la sfida è sempre stimolante anche se faticosa, per ragioni che spiegherò più avanti, per uno studente essa diventa snervante: ha la sensazione di non capire, di essere lui il problema. Inoltre, il continuo alternarsi di insegnanti  aumenta la sensazione –che i giovanissimi oggi purtroppo hanno già- di insicurezza e precarietà, il famoso “sentirsi contingente”, non venendo inseriti in un progetto lungo che li veda come diretti protagonisti del loro apprendimento e come artefici della loro sicurezza personale.
Insomma, questo sistema va a minare la sicurezza e l’autostima del ragazzo che ha bisogno di essere inserito in un percorso lungo di formazione per sperimentare le proprie capacità e diventarne consapevole; dato che la scuola prepara alla vita.

Anche per l’insegnante ogni volta è una sfida, un mettersi in gioco -come lo è del resto per l’alunno-, ma la sua capacità di progettare si limita sempre a un anno al massimo o alla durata della sua supplenza, che non sa né quando arriverà né se ci sarà. Si vive in un tempo sospeso che è al di là del tempo, nell’attesa della chiamata o della convocazione. Quando entri in una classe è una classe su cui ha lavorato qualcuno prima di te: gli alunni hanno delle ben precise aspettative legate al lavoro precedente, su cui bisogna lavorare per poterle cambiare. Noi insegnanti siamo persone, per quanto possano esistere standard oggettivi su cui calibrare il lavoro, ognuno di noi è unico e irripetibile e svolge il suo lavoro in modo unico e irripetibile. La parte più delicata, almeno per me, che consente di arrivare al cuore e alla mente dei ragazzi è il rapporto di fiducia che si deve costruire giorno per giorno e –ogni anno- è una sfida che tende a ripetersi (a seconda della durata della supplenza). Dedicarsi al massimo a loro e al rapporto con loro consente, nel mentre e poi, di passargli le nozioni che si vogliono trasmettere. Questo lavoro massimamente delicato va ripetuto per ogni supplenza. 
Naturalmente il bravo insegnante, che ha passione e competenza, cerca di dare sempre il meglio di sé, in ogni circostanza, anche se sa che molto probabilmente non potrà continuare il suo lavoro l’anno successivo. Come se l’agricoltore non avesse la soddisfazione di vedere e godere del proprio raccolto, ma si fermasse all’aratura e il suo prodotto venisse preso poi da qualcun altro.
A fine anno in ogni caso ci si saluta come fosse l’ultima volta, perché quasi sicuramente lo sarà.

Per noi insegnanti giovani è terribile il sentimento di “incertezza” che ci caratterizza, che dalla sfera lavorativa si estende, come una macchia d’olio, al resto della nostra vita: questo sentimento di “estraneamento”, di non sapere dove saremo il prossimo anno o tra un mese oppure -ancor peggio- se lavoreremo, va ad incidere sul nostro lavoro, sui legami con gli altri e altera anche la nostra sicurezza. Spesso sento colleghi più grandi di me che si lamentano pensando a quanta energia hanno dedicato a questo meccanismo di reclutamento o che hanno cambiato provincia o regione, nella speranza di avere più possibilità, sacrificando la loro vita personale. I sentimenti che predominano nella nostra generazione sono l’instabilità, l’insicurezza, l’ansia, la paura di non avere denaro e lo stress dovuti al non poter mai pensare oltre l’annualità.

Questa è serenità sottratta a una generazione: da una parte si mina la fiducia nei ragazzi che stanno sui banchi e dall’altra, parallelamente, si rende insicuro e frammentario il lavoro per chi è dalla parte della cattedra, in una  condizione per niente semplice.
Queste sono le generazioni che pagano la crisi, pagano (e paghiamo) gli errori dei padri, delle madri, dei nonni e soprattutto dei politici.

Ci state rubando il nostro avvenire, costringendoci a sopravvivere invece che vivere. 
La politica ci dimentica, perché non siamo la parte importante dell’elettorato e perché spesso siamo poveri. Una società che dimentica i propri giovani è destinata al fallimento, a non avere un avvenire, perché non ha più valori da trasmettere.
Questa è una vergogna per l'Occidente, che si fa vanto di aver creato i diritti a tutela del lavoro e della dignità dell'uomo, così presenti nelle carte costituzionali, quanto spesso disattesi nella realtà.
Mi viene da pensare alla civiltà dell’isola di Pasqua: gli abitanti di quelle isole hanno distrutto tutte le loro risorse per costruire gli enormi monoliti, mastodontici ed enigmatici a forma di volti umani, motivo per cui ancora oggi l’isola è visitata.  In modo analogo, anche la nostra società sta sperperando risorse del pianeta per accumulare beni di consumo, che ormai non sono neanche più così durevoli, distruggendo le proprie risorse. L’unico parametro considerato fondamentale, come nuova unità di misura, è lo spread e i verdetti emessi dalle agenzie di rating, che sostituiscono le autorità di un tempo.

Mi chiedo veramente dove vogliamo arrivare e quando incominceremo di nuovo a percepirci come comunità, dove i problemi dei giovani e delle future generazioni riguardino tutti, dato che siamo tutti connessi, e come soggetti e oggetti di un progetto, di un nostro prenderci cura.