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21/11/2018

Tutte le parole a tutti - La lingua della cittadinanza

di Alba Sasso

Dedicato a Tullio De Mauro, del Cidi maestro, amico e socio fondatore, che nel Cidi c’è sempre stato, a partire da quando il Cidi nacque. [ *]

La nascita del Cidi

Quando e perché nacque il Cidi, lo racconta Bice Chiaromonte, una delle fondatrici, nel suo libro Donna, ebrea e comunista: “Per tutto il corso degli  anni ’60 molti di noi insegnanti, impegnati o no in organizzazioni di partito e sociali, ci sentivamo, più o meno consapevolmente, insoddisfatti di come la sinistra affrontava il tema della scuola e dell’insegnamento. Si discuteva in quegli anni di selezione di classe e per alcune frange della sinistra l’essere democratici coincideva  col rifiuto del libro di testo, della lezione ‘ex cathedra’, del nozionismo, col non dare voti, col farsi dare il tu dagli alunni.”
Ma non era certo questo il senso più profondo e autentico di un movimento, quello del ’68, che aveva parlato nella scuola e nell’Università di diritti, di partecipazione democratica, della necessità di una diffusione senza precedenti del sapere e della cultura –superando gerarchie sociali e di classe, che ancora erano decisive per filtrare l’accesso ai livelli alti dell’istruzione –, di rottura con ogni forma di autoritarismo. Ciò che quel movimento aveva messo in discussione non era soltanto la pratica quotidiana del fare scuola, ma l’organizzazione complessiva del sistema. Questa idea che una scuola più uguale dovesse essere una scuola più facile, era un orientamento solo di una ‘parte’, minoritaria, anche se influente di quel movimento. Per altro verso, risultava limitante anche l’ipotesi che ai problemi di una scuola che stava cambiando pelle e diveniva a ritmo sconvolgente ‘di massa’ –un’altra scuola, come non si era mai conosciuta– si potesse rispondere con una dinamica solo sindacale. Erano due risposte inadeguate, e due letture deboli.

Si trattava allora di rendere operativa, concreta, quotidiana  un’elaborazione sulla scuola e una riflessione sul cosa e come insegnare e perché,  che partisse da quanto, in quegli anni, aveva messo in discussione l’ordine delle cose presenti nella scuola e nell’Università: dal movimento degli studenti alla riflessione di tanti intellettuali, interpretando, perciò, la lezione del ’68.
Era una grande sfida. “Con Luciana – racconta ancora Bice – una sera di ritorno da Ariccia, da un congresso della CGIL-scuola, ci dicemmo che serviva  qualcos’altro.”
Qualcos’altro che non fosse né un partito, né un sindacato. Serviva un luogo nel quale confrontarsi  su cosa insegno domani e come, su come dovessero cambiare la scuola, i suoi contenuti, la didattica. Si trattava, insomma, di ripensare  il sapere della scuola, nel concreto del quotidiano, mettendo in discussione le pratiche correnti, i modelli  ripetitivi e gerarchici, ragionando, in un percorso democratico, sulle modalità del fare scuola.
Per garantire a tutte e tutti, uguaglianza di risultati.
A cominciare dal possesso pieno degli strumenti fondamentali per raggiungere quei risultati.
Tutte le parole a tutti, appunto.

E questo per  fare dell’istruzione la leva di una crescita civile e democratica del Paese. Quel ‘qualcos’altro’ di cui parlavano Luciana e Bice fu il  Cidi. Era il 1972. E fu una straordinaria intuizione. Ma anche un azzardo. C’erano Luciana Pecchioli, Bice Chiaromonte, Tullio de Mauro, Carlo Bernardini, Lucio Lombardo Radice, Ermanno Testa, Franco Baratta, Maria Teresa della Seta e tanti altri alla  prima riunione, quella costitutiva, alla Casa della cultura a Roma.
E cosi ce la racconta Tullio De Mauro, da allora presenza ‘militante’ costante, nella vita e nella storia del Cidi:
“Una sala affollatissima [alla Casa della Cultura di Roma]. Mi pareva di non conoscere nessuno, si succedevano interventi pieni di rigurgiti di cascami milanisti [l’allusione era a Don Milani] contro la scuola borghese, la cultura classista, la scienza capitalista, a favore della promozione per tutti, con 18 politico per tutti fino alla laurea. Ma dov’era la scuola vera, era quella l’iniziativa democratica degli insegnanti? Ribollivo, non riuscivo a trattenermi dal chiedere di parlare.
Cercai di spiegare che quello non era Don Milani ma uno spaventa passeri raffazzonato; che c’era certamente un uso politico  e classista della scuola, ma dei saperi della scuola, borghesi o no, lui voleva rendere padroni, facendoli studiare a fondo, anche duramente, contadini e operai; che per lui la scuola invitata a portare avanti tutti nello studio era la scuola dell’obbligo, per almeno gli otto anni della Costituzione; e la scuola successiva (a quel tempo metà delle giovani leve veniva espulsa prima di arrivare alla licenza media) a lui pareva un lusso. Di conseguenza nei licei e nelle Università il ‘non bocciare di Barbiana’ non aveva diritto di cittadinanza e, insomma, si poteva anzi, nel caso, si doveva bocciare chi non studiava. Mentre parlavo la sala era percorsa da un’agitazione crescente, qualcuno soltanto annuiva, i più mugugnavano e alla fine si levò un muggito di condanna.
Dal rischio del linciaggio fui salvato da un professore allora già anziano, fieramente democratico e assai stimato da tutti gli insegnanti, che collaborava a Paese sera trattando di scuola e firmandosi Quintiliano. Il professore si alzò, riportò il silenzio nella sala e disse: “Guardate che De Mauro è un galantuomo”. Continuò dicendo che “le idee di Don Milani non erano quelle di promuovere tutti, ma di far studiare tutti, che è diverso”. Citò a sostegno Gramsci. Infatti, una cosa era il ‘non lasciare nessuno indietro’, utilizzando la socialità della scuola per dare un’opportunità e strumenti di comprensione a tutti, un’altra il promuovere tutti e accettare il dilagare dell’ignoranza.” [1]

Ma mentre De Mauro andava via, gli si avvicinavano furtivamente alcune insegnanti che gli sussurravano: “Noi siamo d’accordo con lei”. Mentre captò un commento acido di un docente, che disse: ”Queste cose le fanno dire a lui, ma anche loro le pensano”, riferendosi alla presidenza del Convegno.
Nonostante questa partenza tempestosa il processo  di fondazione del Cidi si avviò, anche in altre città italiane. Nel breve volgere di pochi anni nacquero e si consolidarono numerosi Cidi in Italia, tra cui Bari.
E del Cidi Tullio De Mauro fu socio fondatore,  amico affettuoso  e compagno sempre presente  e disponibile. Un punto di riferimento.

L'impegno civile

Quel che spingeva uno studioso, un intellettuale, uno scienziato come Tullio De Mauro, già autore di testi fondamentali non solo nel campo della linguistica, ma nella storia culturale del Paese – e ne cito solo due Storia linguistica dell’Italia unita (prima edizione Laterza ’63) e l’introduzione, traduzione e commento del Corso di linguistica generale di Ferdinand De Saussure del ’70 – a un così deciso, lucido  e appassionato impegno civile era la profonda condivisione morale e culturale dell’art. 3 della nostra Costituzione. L’articolo che ne rappresenta uno dei capisaldi: il principio di eguaglianza. Ma, come De Mauro non mancava mai di ricordare,  era ed è il comma 2, quello da sottolineare, perché chiama in causa la Repubblica, lo Stato nel suo compito di rimuovere gli ostacoli per rendere percorribile la strada per l’eguaglianza. È l’unica volta -sottolineava ancora De Mauro, che la Costituzione usa la parola ‘compito’- una parola scolastica che non a caso i Padri costituenti hanno scelto.
E uno degli ostacoli all’eguaglianza era ed è proprio l’ignoranza.

Ma c’era ancora tanta strada da fare. Perché, come diceva Pietro Calamandrei, questo progetto di Costituzione non è l’epilogo di una rivoluzione già fatta, ma il preludio, l’introduzione, l’annuncio di una rivoluzione nel senso giuridico e legislativo ancora da fare. Dobbiamo a Tullio De Mauro, come  ricorda Sabino Cassese, il fatto che il nesso tra semplicità, e comprensibilità del linguaggio nella scuola, ma anche nella vita quotidiana, ed eguaglianza sia diventato ‘senso comune’.
Fu in quegli anni che Tullio De Mauro si adoperò, e non fu facile, per la pubblicazione dei ‘Libri di base’ con gli Editori Riuniti, per il quotidiano Due parole. Insomma, per rendere accessibile il ‘sapere’ attraverso la “non oscurità” del messaggio linguistico, che fosse una sentenza di un tribunale o una scritta nell’autobus. (Per esempio: Obliterare il biglietto dell’autobus…)
“Quando parliamo di cose che riguardano la vita di tutti (…) dobbiamo essere capaci di trovare e far trovare le parole il più possibile semplici. Questo è un diritto civile.” (Linguaggio e vita sociale, 1978, Lezione alle Frattocchie).

De Mauro avvertiva la forza di un conflitto: il linguaggio serve per comunicare, ma può essere usato anche per dividere e gerarchizzare. Per evitare che prevalga questo uso ignobile della parola, bisogna intervenire su due leve: la diffusione effettiva e generalizzata della conoscenza e la chiarezza e comprensibilità del linguaggio.
E in realtà c’era molto da fare in un Paese dove negli anni ’70 il tasso di analfabetismo era ancora alto e la scuola media unica, nata per superare i percorsi, separati da una profonda gerarchia culturale e sociale della scuola media e dell’avviamento professionale, ancora non aveva gli strumenti per garantire a tutte e tutti il raggiungimento dei risultati, perché non bastava, certo, aver aperto la porta a tutti, se il contesto restava quello di una scuola pensata per pochi.  (Vedi Fabbri e dottori).
Bisognava allora rovesciare questa logica e rivedere dalle fondamenta il sapere della scuola, un sapere da garantire a tutte e tutti, e lavorare alla costruzione di pratiche didattiche conseguenti.

Le "Dieci Tesi"

Nel 1974 Tullio De Mauro legge a un convegno del Cidi su “Organi collegiali e rinnovamento culturale e democratico della scuola” un testo, poi rivisto da Raffaele Simone, discusso col Giscel, e in seguito  assunto dal Giscel stesso come base per l’elaborazione de “Le dieci tesi per un’educazione linguistica democratica”.
“Le dieci tesi” furono poi pubblicate e ampiamente diffuse dal Cidi e diventarono per il Cidi stesso oggetto di studio, riflessione e traccia di lavoro.
Non saremo mai troppo grati a Tullio de Mauro per aver fornito con quel documento potente, anche bello da leggere, indispensabile per ragionare del nesso profondo tra sapere, democrazia, uguaglianza, un percorso di analisi, ricerca, riflessione, piste di lavoro inesauribili,  sicuramente un orizzonte di senso.

Si sviluppò in quegli anni nella scuola e sulla scuola una forte iniziativa del Cidi: affollate discussioni in varie città d’Italia  sul tema d’italiano (1973), su lingua e dialetti (1974), su proposte alternative all’insegnamento  tradizionale dell’italiano (1975).
Quelle stesse dieci tesi forse non apprezzate fino in fondo dalla cosiddetta Accademia furono riprese, nel loro spirito di fondo,  dai  “Nuovi programmi della scuola media” e poi da quelli “della scuola elementare”, persino dagli “Orientamenti per la scuola dell’infanzia”, e poi ancora nei cosiddetti “Programmi Brocca per la scuola media superiore”, elaborati da larghissime commissioni, che vedevano la presenza e il coinvolgimento di docenti universitari, di personalità della cultura, di rappresentanti delle associazioni degli insegnanti  e anche di tantissimi insegnanti. Un vero e proprio salto di qualità: un’elaborazione intellettuale cominciava a diventare linea guida, e a segnare il senso comune democratico di un nuovo modo di ‘fare scuola’.

E ritroviamo il segno di quell’elaborazione in molti libri di testo successivi, penso al libro di italiano di Raffaele Simone, libro coltissimo e anche guida didattica, penso alla didattica delle ‘4 abilità’, al  cambiamento profondo rispetto all’insegnamento tradizionale dell’italiano.
Questa vasta produzione di testi, questo dibattito nelle commissioni ministeriali, nei gruppi di ricerca, nelle associazioni professionali democratiche laiche e cattoliche (Cidi, Giscel, Lend, Mce, Aimc, Uciim) ha contribuito in quegli anni a far entrare nella scuola nuove modalità di insegnamento e apprendimento dell’italiano, quella educazione linguistica democratica che aveva come obiettivo la realizzazione di un’eguaglianza sostanziale.
“Pierino non incontrerà meno difficoltà di Gianni nel momento in cui a entrambi si richiederà non solo di parlare come ‘un libro stampato’, ma di padroneggiare tutta l’intera gamma delle possibilità espressive.” (si legge in Scuola e linguaggio, Editori riuniti, maggio ’77).
Finché ci sarà uno che conosce 2000 parole e un altro che ne conosce 200, questi sarà oppresso dal primo. “È la parola che ci fa uguali”. È questo il messaggio che viene  dall’esperienza e dalla pratica della scuola dell’Acquedotto felice a Roma, di Don Sardelli, avviata nel 1975.
Su questo terreno ora, come allora, si gioca una partita di democrazia. Il possesso pieno della lingua, il diritto al sapere sono  diritti da garantire a tutte e tutti, non possibilità  accessibili solo a chi se le può permettere. Si tratta di diritto alla cittadinanza.

Il ruolo degli insegnanti e della scuola pubblica

Ma quella elaborazione, quelle proposte, quel lavoro era ed è affidato alla pazienza, all’intelligenza di tanti docenti, e senza l’iniziativa di quel grande esercito, non si potranno mai vedere buoni risultati.
E perciò De Mauro ha sempre tenuto in gran conto i/le insegnanti e gli insegnanti, il loro prezioso lavoro. Fino a rivendicare per loro stipendi più alti. E anche quando dette vita alla Commissione ministeriale per i nuovi programmi della scuola volle che accanto a intellettuali e docenti universitari ci fosse una forte presenza di insegnanti e delle loro associazioni.
Tullio De Mauro non è stato solo un grande studioso e un grande maestro, autore di numerosissime ricerche e di lavori, dei quali altri parleranno, è stato uomo di grande passione politica, è stato Ministro e nel breve tempo del suo Ministero è riuscito a mettere in piedi un’ampia commissione sui programmi della scuola e aperto una discussione nel Paese sulla cultura della scuola. Poi arrivò lo tsunami Moratti e tutto fu cancellato.

Fu promotore nel 2003 di un "Patto per la scuola pubblica", firmato anche da maestre/i professoresse e professori che poneva tra gli obiettivi prioritari la generalizzazione della scuola dell’infanzia, la creazione di un sistema di educazione degli adulti (ambedue puntelli per rendere più efficace il percorso scolastico e combattere l’analfabetismo). Nell’ottica di una scuola che rimuove gli ostacoli e che garantisce pari opportunità. Appello che, oltre a rappresentare un vero e proprio programma di governo, conteneva la richiesta di un grande investimento di risorse intellettuali e morali, politiche ed economiche nello sviluppo del nostro sistema di istruzione e ricerca.

“Imprenditori, finanzieri, svegliatevi, anzi svegliamoci tutti!"- dice De Mauro- se non vogliamo precipitare a rotoloni lungo la china di un Paese a civiltà sempre più limitata -come diceva Paolo Sylos Labini. Ogni soldo destinato a scuola e istruzione non è una spesa né per i privati, né per lo Stato. È un investimento in salute, sicurezza, sviluppo di tutti e tutte.
Mentre un basso livello di istruzione della popolazione, la cosiddetta  “ barriera dell’istruzione” è elemento di freno in primo luogo per lo  sviluppo economico di ogni paese. Come può crescere un paese - si chiedeva De Mauro- con un numero così basso di laureati, il 9%, a fronte di una media europea del 21%, e con la presenza di 2 milioni di analfabeti, 15 di semianalfabeti, 15 a rischio di ricadere nell’analfabetismo?
Perciò si batté con forza  per un sistema di educazione degli adulti e insieme a Saverio Avveduto, mitico presidente dell’Unla, fu in prima fila nella lotta contro l’analfabetismo. 
Fu anche un grande polemista: penso alla sacrosanta polemica con Lucio Russo – autore di Segmenti e bastoncini – e a quella con Vassalli, il quale  si scagliava, come periodicamente avviene nel nostro Paese, contro Don Milani, dal titolo Tanto furore non capisco. Polemiche intelligenti e sorridenti, umane, come era nelle sue abitudini.

La scuola secondo Costituzione

Abbiamo voluto, in questo convegno a lui dedicato, parlare, e lo faremo già in parte oggi e soprattutto domani, di proposte didattiche concrete, di quello che si insegna e si apprende, e come, a scuola. Ragionare di come tutte le parole a tutte e tutti si garantiscano attraverso tutte le discipline, attraverso conoscenza e studio. Senza lasciare indietro nessuno. Provando e riprovando. Ragioneremo dunque sul rapporto tra lingua e apprendimento dei saperi disciplinari, parlando di esperienze realizzate nelle classi e di prospettive.
E presenteremo il progetto che vedrà impegnate alcune scuole di tutta la regione nello studio di quindici opere di scrittori nati in Puglia. Valorizzando, per questa strada  il tema delle lingue identitarie di cui già parlavano le “Dieci tesi”, come prezioso patrimonio personale di ognuna e ognuno.
La nostra scuola – dice De Mauro nel bel libretto Minima scholaria  – dovrebbe esserci compagna privilegiata nel processo di acquisizione della “capacità di muoversi tra prodotti e repertori sparsi nello  spazio culturale: dovrebbe insegnarci a sapere le parole e a saperle ‘mettere insieme’, a darci bussole e punti cardinali”. E in questa chiave le e gli insegnanti diventano “accompagnatori per la formazione, più che insegnanti di contenuti”, come dice Mario Ambel [2].

Nella prefazione del libro, edito da Laterza nel 2001, che raccoglie i brevi scritti di quella rubrica mensile che   De Mauro curava su  insegnare, la rivista del Cidi, l’autore ci dice che molti di quegli scritti si rifanno appunto alla prospettiva disegnata dall’articolo 3, comma 2 della nostra Costituzione, “presbite”, come lui stesso la definiva, la prospettiva di una scuola che sappia accogliere le differenze per farne comune ricchezza e che ci renda tutte e tutti meglio capaci  di essere di volta in volta governanti e governati, egualmente partecipi della vita della società in cui viviamo. “Nel maturare questa prospettiva, aggiunge, dobbiamo tutti moltissimo, io credo, e certamente devo io a quanto in un quarto di secolo si è costruito nel Cidi. E perciò dedico queste pagine a Luciana Pecchioli, con affetto antico, che nuove esperienze hanno solo, se possibile, accresciuto.”

Con questo convegno siamo noi a sottolineare quanto deve la scuola italiana, la cultura della scuola italiana e la cultura del nostro Paese a questo straordinario intellettuale e maestro che con semplicità, cultura  e passione  ci ha mostrato la strada da percorrere.
Sappiamo che, negli ultimi anni, quel cammino è stato ed è complesso e accidentato, che quegli obbiettivi sono stati penalizzati dai continui tagli al  finanziamento della scuola, operati da governi miopi e ostili, e da una burocratizzazione dell’organizzazione, che ha chiesto agli insegnanti non qualità di risultati, ma tempo in più e, spesso, inutile, fatica.
Politiche attraverso le quali si rischia di rendere debole e marginale il sistema pubblico dell’istruzione. Scelte, che hanno messo in discussione l’idea di una  scuola di tutte e tutti: la scuola   che accoglie e promuove. Su molti aspetti, si rischia di tornare indietro, per esempio proponendo sistemi di valutazione sempre più selettivi, penalizzando  l’inserimento dei soggetti diversamente abili, una buona pratica  della scuola italiana ridotta spesso alla pura custodia o consegnata alla medicalizzazione. E penso alla mancanza, infine, di un urgente dibattito sulla cultura della scuola, oggi. Un dibattito che si confronti con i nuovi modi di apprendere e di vivere dei giovani e dei giovanissimi e si interroghi su come possa e debba cambiare il sapere della scuola rispetto all’ampliarsi continuo delle conoscenze, alla sempre maggior integrazione di campi di ricerca, linguaggi, concetti, metodi.
Ecco, sotto attacco è stata ed è proprio la scuola “secondo Costituzione”, la scuola che, come prima dicevo, ha il compito di rimuovere gli ostacoli per un’effettiva eguaglianza, e di garantire pari opportunità a tutte e tutti, senza distinzione alcuna. 

“Diversi ma uguali nella scuola di tutti”, non era solo uno slogan ma la bandiera di un impegno civile.
Continua a non esserci su questo terreno una visione stra­te­gica, e un’idea di svi­luppo legato all’investimento nel sapere: un pro­getto gene­rale di raccordo tra istru­zione, for­ma­zione, ricerca e lavoro, un’idea  del ruolo della scuola e della cul­tura nel mondo glo­ba­liz­zato .
Ma sappiamo anche che “sapere per tutte e tutti, democrazia, partecipazione” non sono nella nostra scuola parole dimenticate o dismesse.
E che l’orizzonte che ci aiuta a camminare è la prospettiva di una scuola che sa accogliere le differenze per farne comune ricchezza - penso, per fare un solo esempio, al lavoro straordinario che centinaia di scuole fanno con bambine e bambini immigrati-; una scuola che renda tutte e tutti meglio capaci di essere di volta in volta governanti e governati, attori consapevoli, partecipi e protagonisti della vita della società in cui ciascuno si trova a vivere.

Ecco, del valore di questo lavoro della e nella scuola,  pochi sono stati convinti come Tullio De Mauro.
E così De Mauro risponde  a Paola Mastrocola  mai stanca di criticare la scuola e “a suo dire” il lassismo degli insegnanti:
“La crescita dell’istruzione, e quindi della crescita complessiva del Paese è dovuta al fatto che il  bisogno popolare di istruzione ha trovato accoglienza nelle nostre scuole. Sono le scuole e gli insegnanti che di anno in anno ci hanno fatto crescere fino a mutare di condizione. Certo la scuola non può tutto e ci sarebbe bisogno di tanto altro.
Ma è la scuola che ha lavorato e lavora in salita per portare avanti i nostri figli. Si limitasse a registrare e riprodurre le condizioni degli adulti ai test di profitto del programma Pisa ci dovrebbe restituire non il 20%, come avviene, ma il 70% di quindicenni con difficoltà di lettura e scrittura.
Perciò possiamo essere orgogliosi di quello che la nostra scuola ha saputo e sa fare, per il capitale umano e sociale che ha creato e che continua a creare.[3].

Grazie Tullio!

 * Relazione tenuta al Convegno nazionale del Cidi a Bari il 25 ottobre 2018

 

Note

1. Cfr. T. De Mauro, "Se insegnare è il compito di ogni giorno", da 40 anni di Cidi per una scuola migliore, a cura di Emma Colonna e Margherita D'Onofrio, © CIDI, 2012; in "insegnare", 10.01.2017. 
2. Cfr. Mario Ambel,
 Il possesso della lingua: una questione (politica) di fondo, "insegnare", 18.05.2017
3. Cfr. T. De Mauro, "Il paese cresce se studiano tutti", "Corriere della Sera", 11.05.2011.