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18/05/2017

Il possesso della lingua: una questione (politica) di fondo

di Mario Ambel

È ormai indispensabile affrontare che cosa si debba intendere e fare nel “campo” dell’educazione linguistica democratica per rispondere a sfide e necessità sempre più complesse. Ed è necessario farlo anche attraverso un’analisi coraggiosa dei limiti (se ci sono stati) della pedagogia linguistica del tempo che ci separa dalle “Dieci Tesi” (1975)! Personalmente ritengo che nella didattica di quelle che venivano definite allora le “abilità linguistiche” non solo non si è fatto tutto quello che si poteva e si doveva fare, ma si sono innescati, per cause diverse, alcuni processi involutivi che hanno peggiorato - anziché migliorare - la didattica disciplinare. E non solo per cause esterne alla scuola. Non ho tema ad affermare che oggi, a fronte di difficoltà assai maggiori, si insegna a leggere e a scrivere complessivamente peggio di come si faceva, o almeno si tentava di fare, nella seconda metà degli anni ottanta del secolo scorso.
Bisognerebbe poter suffragare queste percezioni di analisi e dati, che purtroppo mancano perché la ricerca e la pratica didattica restano in questo Paese territori oscuri, dove la buona volontà o il quieto vivere o qualche rito consolatorio metodologicamente innovativo prevalgono su approcci scientificamente più attendibili. Si continua a non sapere cosa e come si insegna e soprattutto a non ragionare in modo sistematico sui rapporti tra come si insegna e i risultati che si raggiungono.
Si preferisce agire sulla spinta di pulsioni emotive o di mode più o meno transitorie piuttosto che fare della ricerca educativa un terreno di indagine sperimentale e di azioni conseguenti. Così come si preferisce investire chiacchiere e denaro sugli esiti della scuola, più che sulle condizioni e i modi con cui quei risultati si ottengono. E queste sono per esempio alcune di quelle storture di sistema di cui si diceva.

Tre "trasgressori in re"

Ma prima di entrare nel merito di questioni più tecniche (che cosa e come insegnare a leggere, scrivere, ascoltare e parlare) che la rivista si prefigge di affrontare in modo più sistematico nei prossimi mesi, vorrei ricordare una questione di fondo che ha maestri autorevoli e non tutti invisi neppure a coloro che spesso e volentieri attaccano la pedagogia progressista accusandola di eccessi di buonismi lassisti. E che quindi dovrebbero condividerla. Mi riferisco alla consapevolezza che le questioni relative alla lingua e alla sua diffusione sono sempre questioni politiche.
Oggi, come negli anni venti o sessanta del Novecento, o come all’inizio e poi alla fine dell’Ottocento (ma si potrebbe far risalire e di molto la cronologia a ritroso del rapporto fra controllo della lingua e potere), tutte le volte che questa querelle esce dalle stanze degli addetti ai lavori e conquista l’onore (o il disonore) delle cronache, significa che c’è in ballo una qualche questione di natura politica.

Si potrebbero citare al riguardo posizioni note che delineano quella che viene denominata la “Questione della lingua”. Vorrei invece riprendere il ragionamento proprio da Tullio De Mauro e più precisamente da una citazione che curiosamente accomuna tre persone che sembrerebbero apparentemente assai lontane fra loro: Pasolini, Don Milani e Rodari. Nei mesi scorsi, la polemica contro De Mauro e Don Milani, spesso accomunati nella responsabilità di aver dequalificato la scuola, mi ha suggerito la curiosità di riscoprire che cosa pensasse il primo del secondo e, nel farlo, ho avuto la piacevole sorpresa di imbattermi in queste parole:

“Sia Rodari sia, prima di lui, Milani e Pasolini, sono stati personalità creative di natura particolare. Tutti e tre sono stati trasgressori e critici non a chiacchiere, ma rebus, con e nelle cose, con e nel modo di vivere e lavorare. E tutti e tre, oltre le profonde differenze, hanno avuto qualcosa di comune. La loro critica, il loro trasgredire non si è configurato additandoci mete ardue remote, straordinarie esperienze, mondi possibili inaccessibili o difficilmente accessibili a chi non sia o creda d'essere un superuomo, una superdonna. La loro trasgressione, la loro capacità di protesta creativa, si è invece esercitata sul terreno della più ovvia quotidianità. […] A questo terreno pestato dai piedi di noi tutti rinviano gli scritti, gli interventi, le invenzioni, le invettive e le speranza delle tre persone di cui stiamo discorrendo e su questo terreno essi suggeriscono che possiamo trovare e percorrere sentieri nuovi, migliori, più umani…” [1]

Tre personaggi assai diversi, dunque, tra i quali Tullio De Mauro individua alcuni tratti comuni di straordinaria importanza:
- un anticonformismo trasgressivo vissuto in re, nella quotidianità delle cose da fare;
- l’importanza della conquista delle parole e dei contesti in cui esercitarle come forma di riscatto sociale e garanzia di democrazia;
- la capacità di pre-vedere i rischi dell’omologazione, ovvero il prezzo da pagare al consumismo, allora incipiente oggi trionfante, con effetti devastanti che loro stessi avrebbero stentato a immaginare.

Le questioni (linguistiche) di cui occuparci

Sulla falsariga delle loro analisi e del loro magistero, dovremo riannodare le questioni su cui valga davvero la pena interrogarsi e agire, per esempio ponendoci una serie di questioni altamente problematiche in prospettiva didattica.

Le domande da porsi potrebbero essere:

  • In che cosa consiste oggi, come si manifesta, se esiste ancora, nella rinnovata ma non scomparsa configurazione delle nuove povertà, la differenza fra chi possiede e controlla, in base alla provenienza socioculturale, un codice forse più frantumato e destrutturato che “ristretto”? E resiste ancora la capacità della scuola di diffonderne uno più “elaborato” e soprattutto più organico e analitico?

  • In che misura l’omologazione del rapporto fra pensiero e parola, dovuta anche alla trasformazione e agli usi insistiti delle attuali forme di comunicazione social-connesse, sta riducendo le distanze socioculturali tra gli allievi, ampliando tuttavia la distanza fra la cultura scolastica e quella extrascolastica e differenziandone i relativi linguaggi?

  • In che misura, da un lato la pressione non solo semantico-concettuale ma anche logico-sintattica dei linguaggi settoriali dominanti (dalla finanza al digitale), e dall’altro i flussi migratori e la presenza sul nostro territorio di parlanti e via via anche di scriventi forniti di altre e pregresse tradizioni culturali e linguistiche modificherà o sta già modificando la lingua in uso, imponendo di ridefinire la natura stessa della lingua che dobbiamo insegnare?

Su queste strade bisognerebbe riaprire, gramscianamente e dal basso, la “Questione della lingua”, chiarirne il dato politico, reinterrogarsi su quali siano le caratteristiche del nuovo “codice”, che oggi, più che ristretto, appare frantumato, destrutturato e in grado di emarginare dal sapere critico non più soltanto i figli delle classi subalterne e i nuovi poveri, ma la quasi totalità della popolazione, e neppure più solo quella adulta, ma i bambini fin dai primi mesi di vita. E bisognerebbe farlo, senza rifuggire in nostalgie apocalitticamente luddiste né in enfasi illusoriamente integrate.

L’accostamento dei tre personaggi è di rilievo proprio nel riferimento a quella rivoluzione del quotidiano, fatta di quella "fibra umile e anonima di cui siano tessute le giornate e i lavori della nuova scuola" [2], che probabilmente non siamo riusciti a realizzare, anche se non siamo mai stati attratti dalle pallide sirene della meritocrazia difensiva e asfittica che riempie le gazzette del nostro tempo, compresa quella ufficiale della Repubblica; oppure, se e quando la realizzammo (nelle scuole a tempo pieno delle periferie urbane del Nord o nelle città emiliane), non siamo riusciti a consolidare e diffondere e quindi, alla fine, a salvaguardare.  
È quella capacità permanente di rivoluzione quotidiana e pacifica dal basso, contro le banalità e il qualunquismo, che oggi manca alla scuola, che soprattutto è venuta via via a mancare nell’ultimo ventennio, massacrato da riforme inique sul piano strutturale e conservatrici, ancorché pseudomoderniste, su quello ideologico.

Una vecchia diatriba 

Queste sono le questioni che dovremmo saper affrontare e trasformare in pratiche didattiche conseguenti ed efficaci. Ma appare evidente come si tratti di questioni che hanno a monte la necessità di scelte politiche coerenti, nel senso della scelta della direzione di marcia da dare al rapporto fra qualità della lingua e quantità e qualità di chi ne fa uso.

In fatto di rapporto fra lingua, sua diffusione, e potere alla radice delle differenti prospettive c’è sempre una questione di scontro fra conservatori e progressisti, con buona pace di chi vorrebbe che si fosse esaurita con il nuovo millennio e nel senso etimologico dei termini: tra chi propugna una conservazione della lingua in nome di una sua tradizione aulica e meritoria che non va inquinata, e chi ne accetta trasformazioni e torsioni spesso frutto non solo dell’evoluzione diacronica degli usi linguistici ma di processi di ampliamento della quantità e della varietà di coloro che ne fanno uso.

E anche in fatto di educazione, lo scontro è spesso fra conservatori (di destra?) - ovvero coloro che vogliono salvaguardare la qualità della scuola dall’eccessiva, ingombrante e inquinante presenza di quelli che“ non portati agli studi”, un tempo braccia sottratte dalla scolarizzazione di massa all’agricoltura o alla catena di montaggio e ora braccia e gambe negate alle imprese di pulizia oppure orecchie e voci ai call center - e progressisti (di sinistra?) - ovvero coloro che vogliono progressivamente ampliare il diritto di istruzione per tutti e per ciascuno, in nome di quel non uno di meno perseguito da De Mauro.

Questo è infatti il nodo politico, che anche Giusti e Raimo  richiamano, fin dal titolo parlando di "nostalgia classista", nel loro recente intervento a commento della querelle scatenata dalla “Lettera dei 600” [3]. Lo richiama in modo opportuno Annamaria Palmieri in un articolo di prossima pubblicazione: 
“Colpa di Don Milani, se i nostri allievi oggi non sanno scrivere senza commettere errori? Ma se l'accusa viene dall'accademia, ovvero dal luogo nel quale - per definizione - i poveri operai e contadini di Barbiana 50 anni fa erano categoricamente esclusi, non riuscendo a raggiungere nemmeno il diploma di scuola media, il tema da porre è forse un altro, fuor di ipocrisia: l'accusa non è rivolta, come si è cercato di far credere, contro i limiti della scuola, ma contro una scuola che non pone limiti, ovvero non seleziona a dovere chi può proseguire gli studi e chi invece farebbe bene a darsi altri obiettivi, meno 'ambiziosi'. Torna, a distanza di 50 anni, malcelata dietro parole che suscitano superficiale apprezzamento (merito, competenze, premialità) il desiderio di una scuola selettiva.” [4]

Si tratta dunque di questioni politiche che si ricollegano all’altra, che la include e istituzionalizza: ampliare il diritto all’istruzione. Non è certo un caso che la questione dell’arretramento delle competenze linguistiche sia stata posta da settori della scuola che a proposito dell’obbligo scolastico sono favorevoli alla canalizzazione precoce dei destini scolastici e professionali.
La questione politica, in fatto di istruzione, è sempre e solo una: chi può e al contempo deve esercitare il diritto e impegnare la propria personale disponibilità ad apprendere?
E qui arriviamo a una ulteriore e ormai pluriennale distorsione di carattere più generale: l’incapacità di questo Paese (di cui non a caso si discute vanamente da quella stessa metà degli anni settanta) di innalzare davvero quello che sarebbe tempo di smettere di chiamare “obbligo scolastico”, per denominarlo “diritto-dovere all’istruzione”, dedicandosi all’attuazione di una scuola veramente inclusiva, che garantisca a tutti livelli adeguati di alfabetizzazione culturale e di istruzione e tralasciando le furbate che si nascondono sotto l’etichetta “istruzione e formazione”. Da vent’anni si è voluto chiamare così il sistema che da scolastico è diventato integrato e che trova oggi la sua apoteosi nella truffaldina ideologia che sorregge l’alternanza scuola-lavoro. E non è certo un caso che nell’attuale decreto sulla valutazione che governa l’intero sistema non si parli più di “obbligo scolastico” e si diano le istruzioni per due livelli di scolarità che proditoriamente lo eludono: la fine della scuola di base e l’Esame di Stato!
E non si dica che la colpa è della "scuola di massa". La scuola di massa non esiste: una scuola che esclude il 20% degli allievi dal raggiungimento della sua terminalità inferiore e dà agli altri competenze inadeguate è una scuola che accoglie e conferma disuguaglianze, anche se ci vanno tutti.

Estensione del diritto-dovere di istruzione, sconfitta della dispersione scolastica, educazione degli adulti e rinnovamento reale della ricerca e pratica didattica: di qui passa la questione politica - ovvero la responsabilità del sistema scolastico - di migliorare gli esiti formativi, cioè le competenze dei cittadini.
Il resto è solo demagogia, più o meno ipocrita. E spesso l’ipocrisia nasce da che cosa si intenda per ciò che va appreso e da parte di chi. È tempo di riconvertire le istanze complessive che governano il rapporto fra istruzione e vita, superando le logiche e i limiti delle teorie del “capitale umano” che non solo non hanno di certo contribuito a risolvere le crisi occupazionali, ma stanno pericolosamente inquinando i pozzi dei sistemi di istruzione .
È necessario ribadire il diritto-dovere di tutti all’istruzione non nella logica dell’addestramento di varietà controllate di “capitale umano” funzionali alle logiche di mercato e alla realtà economica e lavorativa esistente (spesso per altro assai deludente), bensì nella logica del progresso dello sviluppo umano, dell’esercizio dei diritti e dei doveri di cittadinanza e di democrazia, dell’ampliamento e del confronto fra le culture. Aver affidato le strategie internazionali della crescita di competenze agli organismi economici e finanziari internazionali non si sta rivelando un buon… investimento! Neppure per l'economia.

Ricominceremo dunque a parlare di insegnamento delle competenze linguistiche, ma solo nella consapevolezza che trattare astrattamente le problematiche linguistiche e comunicative in modo avulso dalle cornici di contesto e dalle scelte politiche significa ancora una volta difendere accademie e disuguaglianze.  Ovvero fare cultura e politica conservatrice, strumentalizzando le difficoltà della scuola e delle persone. Del resto la necessità di collocare la natura e la qualità degli apprendimenti (non solo linguistici) in un orizzonte di scelte politiche e sociali è il grande insegnamento di figure come Don Milani, Pasolini, Rodari e del Tullio De Mauro "politico", così tanto  (giustamente) inviso ai suoi detrattori. Giustamente, perché su fronti opposti, nonostante la  pervicacia con cui qualcuno continua a sostenere che la grammatica sarebbe bipartisan, o interclassista, come si diceva una volta.

Note

1. Da Tullio De Mauro,  “Introduzione” a Gianni Rodari, Il cane di Magonza, Editori Riuniti, Roma 1982.
2. Cfr. Tullio De Mauro e Lucio Lombardo Radice, "Introduzione" a I nuovi programmi della scuola media inferiore, Ed. Riuniti, 1979: “Insegnare secondo Costituzione, lavorare perché la scuola sia parte viva della Repubblica democratica, ieri era solo, al massimo una possibilità: da oggi è un dovere. Quello che ieri fu intuizione e appassionante traguardo sta a noi tutti trasformarlo in routine, in fibra umile e anonima di cui siano tessute le giornate e i lavori della nuova scuola italiana.”
3. Dell'articolo di Giusti e Raimo e di altri contributi al dibattito abbiamo reso conto in "Dal dire al fare: rilanciare l’educazione linguistica democratica".
4. Annamaria Palmieri, "Contro l'ipocrisia. La pedagogia linguistica di Don Milani come atto politico", in "Il tetto" di prossima pubblicazione; della stessa autrice, su questi temi vedi  La "pedagogia" di Pasolini e Don Milani, "insegnare", novembre 2015.

 

Immagine


L'immagine a lato del titolo ritrae il bassorilievo di Antonio Canova, "Insegnare agli ignoranti" (1793), Museo Correr, Venezia.


 

Scrive...

Mario Ambel Per anni docente di italiano nella "scuola media"; esperto di educazione linguistica e progettazione curricolare, già direttore di "insegnare".

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