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28/08/2014

Qualche spunto di riflessione

di Giuseppe Bagni e Francesco De Vanna

In questi giorni imperversa la discussione sulla riforma della scuola. Bisogna evitare, innanzitutto, che le urgenze dell'agenda politica privilegino la velocità a discapito dell'approfondimento e della condivisione. Le riforme, specie quelle del sistema educativo, non si fanno a tavolino, ma predisponendo grandi spazi di ascolto, di confronto, di approfondimento, con tutti i soggetti interessati.
Noi che scriviamo qui a due mani siamo un insegnante di chimica che si dovrebbe ritenere esperto dopo oltre trent'anni di insegnamento e un ex studente che ha meno anni di quanti il professore ne ha di scuola. Due persone di generazione diversa, quindi, ma che condividono l'amore per la scuola e il desiderio di confrontare le loro esperienze e dare un contributo condiviso.
Non vogliamo entrare nel dettaglio delle proposte: ci sarà tempo. Avanziamo solo alcuni spunti di riflessione.

1. Difendere la scuola pubblica, perché è ancora oggi un motivo di vanto e una ragione d’orgoglio del nostro Paese. “Pubblica” non in termini oppositivi rispetto alla formazione privata o d'élite, ma come paradigma reale dell’art. 34 della Costituzione: “La scuola è aperta a tutti”. Una scuola pubblica non è qualunque scuola "aperta al pubblico", ma quella che sappia riconoscere tutte le intelligenze di tutti i ragazzi, "non uno in meno". Uno spazio d'inclusione e d'integrazione delle diversità, dove studenti di età diverse e con vissuti del tutto differenti condividono il tempo, le parole, le gioie ma anche le fatiche. Un laboratorio di cittadinanza, libero e plurale, in cui gli studenti non siano visti come consumatori o divisi per potere d'acquisto.

2. Per una nuova scuola democratica. Abbiamo bisogno di una scuola che sappia valorizzare le eccellenze e includere le marginalità. In questi anni si è parlato molto (e anche un po' a sproposito) di "meritocrazia", dimenticando che essa non funziona in una scuola senza equità come quella italiana. Il che non significa né dequalificare l’insegnamento né diventare “buonisti”, ma capire le attuali tendenze e le contraddizioni della mobilità sociale. Secondo i dati OCSE-PISA  in Italia le differenze non risultano dalle attitudini individuali, ma sono la combinazione di tre fattori determinanti: la scuola che frequenti, il contesto geografico, il livello d'istruzione dei genitori. Così la funzione di bilanciamento sociale viene a mancare. I tassi di abbandono scolastico sono quasi nulli tra i figli di laureati (2,9%) e di genitori che svolgono professioni specializzate (3,9%), mentre sono altissimi tra i figli di genitori che hanno frequentato solo la scuola dell’obbligo (27,7%) e di genitori che svolgono professioni non qualificate (31,2%). Ma la scuola che punta solo sui migliori non è la scuola migliore.  Al contrario, i Paesi con gli standards qualitativi migliori (tra gli altri, la Finlandia) hanno tassi di dispersione prossimi allo zero. Da questo punto di vista cruciale è il ruolo svolto dalla scuola dell'infanzia e dalle opportunità educative che un territorio è complessivamente  in grado di offrire.

3. Retribuzioni. Solo il 12% degli insegnanti si sente apprezzato e considera ben valutato il proprio lavoro. Migliorare e restituire fiducia si può: le retribuzioni, in generale, devono essere adeguate ai livelli europei, ancor prima di ogni ulteriore valutazione specifica o premiale.  Per questo è necessario metter mano al blocco degli scatti stipendiali e rinnovare il contratto nazionale degli insegnanti, fermo al 2007.  Inoltre, la qualità dell’insegnamento dev’essere misurata a partire dal lavoro in aula, che è quello più importante. Le soluzioni organizzative delle “ore” o delle “funzioni organizzative” in più legate ai progetti non funzionano. Un cattivo insegnante resta tale anche se diventa vicepreside o torna a scuola al pomeriggio. Al contrario, spesso i docenti migliori svolgono solo attività d’aula, ma lo fanno molto bene. Costringerli a una corsa per accaparrarsi responsabilità organizzative sarebbe solo demotivante per loro e dequalificante per il sistema formativo. Si deve invece arrivare a un sistema di valutazione che coinvolga tutti i soggetti interessati alla scuola, più approfondito e corretto di quelli che abbiamo attualmente a disposizione, che metta in risalto la qualità del lavoro in aula.

4. Reclutamento.  Più del 50% degli insegnanti italiani ha 50 anni o più, con una media che si assesta sui 48,9 anni; soltanto l’1% degli insegnanti ha meno di 30 anni. Una classe docente di età media più bassa è inevitabilmente una classe docente più motivata al rinnovamento e all'innovazione didattica. Il Governo procederà all’immissione a ruolo di 29 mila nuovi docenti assunti sia dalle graduatorie a esaurimento sia dai vincitori senza cattedra del 2012. Circostanza, questa, che si concilierebbe con il nuovo concorso previsto per i primi mesi del 2015 e con l’impegno a immettere in ruolo circa 100 mila insegnanti nei prossimi 3 anni. Ma non bisogna dimenticare che nei prossimi anni andrà in pensione il 40% del corpo docente: da questo punto di vista il turn over previsto è insufficiente. Se si vuole davvero “cambiare verso” alla scuola, bisognerebbe bandire il concorso ogni due anni, senza penalizzare i precari “storici”. Infine, bisogna definire una volta per tutte la questione dei percorsi abilitanti (TFA e PAS), prevedendo una laurea specialistica con tirocinio che porti all'abilitazione. Ma dev’essere chiaro, una volta per tutte, superando il caos normativo degli ultimi anni.

5. Didattica. La scuola post-unitaria ha costruito una trasmissione simbolica dell’identità nazionale; quella del Dopoguerra ha insegnato a leggere e a scrivere: nient’altro, ma già così fu una rivoluzione. Quale compito assegniamo alla scuola contemporanea? Il mito della produttività e dell’efficienza ha ridefinito priorità e curiosità: formativo è diventato sinonimo di utile, e utile – a sua volta – ormai significa utile subito. Per questo è necessario superare il dibattito stucchevole che contrappone la scuola del sapere disinteressato a quella del sapere professionalizzante: tenute separate, queste sono due mitologie del passato, da abbandonare se non vogliamo continuare a legittimare un sapere povero di agire e un agire povero di sapere. Quello che va messo al centro è il dovere di dare senso alle cose che si fanno. Tornare a questa discussione significa ignorare completamente i temi del curricolo e delle competenze, e con essi quello di una didattica incentrata sugli studenti. Abbiamo risentito parlare di programmi d'insegnamento quando da anni la scuola migliore lavora alla costruzione di curricoli che si pongono l'obiettivo di far diventare ogni studente un "soggetto competente". Un obiettivo ben lontano dall'essere raggiunto, ma che già di per sé individua un percorso che esclude le vecchie pratiche di trasmissione di un sapere finito ad un soggetto che lo riceve passivo, per guardare a metodologie laboratoriali in cui la conoscenza si costruisce nello studente come patrimonio indistinto e indistinguibile di sapere e saper agire. La matematica, la letteratura, la storia e la geografia, la musica e la geometria, tutte assieme, costituiscono l’asse culturale di quel patrimonio immateriale che aiuta a decifrare la complessità del mondo. Senza eludere il fatto che questa trasmissione ha bisogno di profondità e di lentezza, di sedimentazione e di elaborazione, cioè ingredienti del tutto diversi rispetto a quelli proposti dalla logica del “furore dissipativo” del nostro tempo. Ma quella che dobbiamo recuperare per davvero è una “visione” di scuola, chiarendo sin dall’inizio a che tipo di cittadinanza vogliamo aspirare.

6. Privati. Rispetto agli aiuti alla scuola privata abbiamo già espresso implicitamente il nostro parere al punto 1 e 2:  tutte le risorse dello Stato devono andare alla scuola pubblica e democratica. Rispetto invece al ricorso dei contributi privati come sostegno alle scuole non vi vediamo né novità, né soprattutto credibilità. Più volte in questi anni si è invocato l’aiuto dei privati, ma la situazione economica è sotto gli occhi di tutti e, almeno per il momento, non sembra lasciar intravedere grossi miglioramenti. Nel Paese con il tasso di investimenti in innovazione e ricerca più basso d’Europa, quanti privati saranno disposti ad “aiutare” le scuole?  Peraltro, per le Università, già la riforma Gelmini aveva previsto il coinvolgimento di enti e società private mediante l’indicazione di membri esterni nei CdA degli Atenei. Ma deve essere chiaro che questo modello non ha affatto generato risorse aggiuntive per il sistema universitario che, anzi, resta incagliato in una decadenza sempre più evidente.

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Immagine a lato: Una scuola come tante, © insegnare