Rileggo per me e per chi vorrà condividere le mie riflessioni, i “nuovi” Programmi del 1979, partendo dall’art. 1 del D. M. 9 febbraio, che individua nell’art. 34 e nell’art. 3 le finalità di una riforma indirizzata a garantire a tutti per almeno otto anni l’accesso alla cultura.
A tali “ finalità”, si legge, è indirizzata la scuola media “nella sua impostazione educativa e didattica, nelle sue strutture, nei suoi contenuti programmatici”. Una finalità che ritroviamo, a contesto mutato, nelle Indicazioni nazionali 2012, e agganciata al primo ciclo.
Scelte che mi sembrano in contrasto con l’affermazione di chi – prevalentemente studiosi di economia o esponenti del mondo economico e produttivo - definisce la “scuola media” (oggi secondaria di primo grado) ancora l’anello debole del sistema educativo senza tener conto del contesto in cui essa è nata e si è sviluppata nel corso degli anni.
Una affermazione fatta propria negli ultimi giorni anche dal Ministro Bianchi per giustificare una eventuale scelta politica a vantaggio di un possibile intervento in grado di risolvere gli annosi problemi strutturali, in particolare il mancato rapporto con la scuola primaria e con la scuola secondaria di II grado.
Definita la “scuola di mezzo”, la scuola secondaria di primo grado non è finalizzata ora come allora “all’accesso alla scuola secondaria di secondo grado, pur costituendo il presupposto indispensabile per ogni ulteriore impegno scolastico”, né può essere vista come una scuola primaria più lunga, essendo destinata all’età della prima adolescenza.
Coerentemente con questa impostazione, pongo una domanda e avanzo qualche proposta.
La Costituzione fissa la durata della scolarità obbligatoria a “almeno 8 anni”, una scelta che fu poi portata nel 2007 - con il D.M. 22 Agosto 2007, n. 139, art. 1- a 10 anni, in risposta anche alle sollecitazioni europee.
In quella stagione abbiamo sentito la politica affermare che obbligo scolastico è come dire “diritto – dovere a 12 anni di istruzione e formazione”, che il diritto all’istruzione a 16 anni si può esercitare a scuola e nei percorsi di formazione professionale e nell’apprendistato, che si può accedere a un obbligo formativo fino a 18 anni, coerentemente con il principio dell’apprendimento lungo tutto l’arco della vita. Scelte, a mio parere, assai discutibili perché mescolano istruzione e formazione professionale rinunciando all’obbligo nella scuola fino alla maggiore età per tutte e per tutti.
In un sistema educativo fortemente orientato dal profilo di competenza della popolazione adulta è mancata nel nostro Paese una riflessione approfondita sui luoghi dell’apprendimento formale (la scuola alle diverse età), proponendo la politica scolastica un’idea di competenza (competencies) che proviene dal mondo del lavoro, in contrasto con la stessa idea di competenza culturale. Pur in presenza di una domanda estesa di istruzione superiore, è stato sacrificato il principio dell’equivalenza formativa dei percorsi di istruzione superiore, come si può leggere nelle premesse agli ordinamenti didattici vigenti nei licei e nell’istruzione tecnica e professionale e nei profili di uscita, in nome di presunte “filiere”.
Intanto gli abbandoni, la dispersione scolare, i NEET sono aumentati e si sottrae alla scuola la titolarità dell’istruzione predisponendo le condizioni perché i soggetti attivi sul territorio (il terzo settore) si faccia carico di fatti educativi, compreso il recupero degli apprendimenti.
Chi sa leggere i dati odierni può confrontare questa tesi con quelli ancora disponibili in rete sul percorso faticoso per l’accesso al sistema scolastico a partire dagli anni 60 degli aventi diritto, i tanti rapporti Invalsi che si sono succeduti negli ultimi 20 anni, i rapporti europei annuali, per rendersi conto che i problemi che vanno sotto il nome di dispersione scolare non sono elevati, anzi il tasso è ancora elevato in alcune regioni italiane, in genere a sud e nelle periferie urbane del nord.
Se posso insistere, ritengo opportuno che, in questa fase, la politica e la società facciano molta attenzione a quel che si intende per Livelli Essenziali delle Prestazioni, per sussidiarietà, per autonomia differenziata, sapendo che le scelte che sono in carico allo Stato non possono essere negoziate a livello territoriale in un sistema formativo integrato. Occorre rendere effettivo il diritto all’apprendimento nella distinzione dei ruoli e delle competenze.
Faccio riferimento, tra gli altri, al tempo scuola e all’insieme delle azioni a supporto della qualità dell’insegnamento e degli apprendimenti e del sistema educativo territoriale, alla formazione iniziale e in servizio degli insegnanti. Scelte dello Stato e talora inopportunamente delegate alle Regioni senza un controllo democratico delle risorse disponibili, senza attenzione ai ritardi strutturali e culturali accumulati nel Paese, nelle grandi città e nelle cosiddette aree a rischio.
Travolti dalla pandemia, nell’ultimo anno, abbiamo tralasciato di occuparci davvero delle diseguaglianze e della povertà educativa, assicurando esclusivamente un numero imprecisato di dispositivi tecnologici (iPad, pc, smartphone, banchi ergonomici) e lasciando le scuole e gli insegnanti soli a farsi carico di aspetti culturali e professionali che avrebbero potuto fare, nelle condizioni date, la differenza, senza nemmeno supporre che la DAD non si improvvisa, soprattutto se sono ancora diffusi programmi, interrogazioni e voti.
Torno alla scuola media e alla fascia di età fra gli 11 e i 14 anni. So che in molte situazioni in cui si fa scuola in presenza le problematiche strutturali condannano gli studenti a connessioni antimeridiane di 5 ore e, dove non ci sono gli spazi, a turni pomeridiani altrettanto corposi. So ancora che sono molti i bambini e i ragazzi disconnessi. So che Il tempo prolungato è residuale, condizionato dalle norme che, intraprese dalla ministra Gelmini, hanno consentito la prosecuzione dell’esperienza esclusivamente laddove i Comuni hanno a disposizione le risorse per integrare l’offerta formativa. Ovvero quasi mai. Una politica dissennata aggravata in alcune regioni del Sud dall’assenza dei nidi, del tempo pieno nella primaria, segnata dal numero dei ragazzi per classe, cresciuto a dismisura nelle scuole dei centri urbani. I genitori sempre più scelgono la scuola che ritengono migliore (per sentito dire) a vantaggio di una malintesa libertà educativa che spinge a scegliere la scuola e gli insegnanti in una sorta di libero mercato.
E così la scuola media diventa l’anello debole e la meritocrazia viene confusa con il merito. Non sarebbe opportuno invece ragionare su quali aspetti di contesto si pregiudica l’acquisizione di traguardi per lo sviluppo delle competenze in uscita dalla scuola media per tutti i ragazzi che la frequentano? Penso che dovremmo sacrificare una impostazione che collega la scuola allo sviluppo economico e produttivo, badando invece a un obbligo scolastico in linea con lo sviluppo culturale del Paese.
L’obbligo scolastico, oggi di istruzione, non può essere delegato altrove. Né può essere condizionato dal mercato del lavoro, mai così precario come negli ultimi anni. L’antica difficoltà dei preadolescenti a muoversi nel passaggio dalla scuola primaria alla scuola secondaria di primo e di secondo grado va risolta con efficaci azioni culturali e professionali. La scuola media non era ancorata negli anni ‘70, né può esserlo oggi, alla scuola secondaria di II grado, né può trovare spazio proponendo un allungamento della primaria. E’ un’idea di istruzione selettiva che condiziona quanto accade nella scuola fra gli 11 e i 14 anni. L’estensione dell’obbligo a 16 anni non è la stessa cosa se i ragazzi si trovano scolarizzati nel biennio dei licei, o nell’istruzione tecnica e professionale, o nella formazione professionale, o nei corsi per adulti. Di fatto sono stati resi possibili percorsi diversificati per gli aventi diritto a più scuola per tutti, ma è una scelta che condiziona l’agire educativo degli insegnanti della primaria e della media. Sempre più registro l’assenza di una scuola a misura di apprendimento. Se prevarrà la tesi che “fuori dalla scuola è meglio”, il Paese dovrà rinunciare per sempre alla crescita culturale e all’equità .
La denuncia di don Milani e di Pasolini sul finire degli anni ‘70 su una riforma che non aveva scalfito il modello precedente dovrebbe farci riflettere sul senso di una scuola democratica nel 2021 e nel futuro, se essa deve ancora dirsi istituzione della Repubblica. I problemi non si risolvono continuando a ritenere che l’istruzione è per pochi, per quelli che ce la fanno. Attrarre e trattenere i preadolescenti e gli adolescenti a scuola è possibile solo a condizione che si investa in conoscenza agita, destinando cure e risorse alle situazioni in cui l’emergenza è strutturale.