Provate a proporre la visione di un film alla classe, a certi tipi di classe: il più delle volte rispondono con suggerimenti loro, come se mai si fosse spiegato l’utilizzo del cinema nella scuola, quanto la scelta debba essere del docente e perché. E che si vogliono integrare contenuti didattici, far riflettere su una tematica esistenziale, o sul linguaggio cinematografico, o solo godere del valore artistico di un’opera filmica, senza altri fini strumentali. Acquisizione, questa, degli ultimi anni, finalmente.
È proprio sul valore e sull’estetica però che non ci intendiamo. Anche per gli adolescenti il film dev’essere bello, ma bello per loro significa vivace, coloratissimo, diretto. E giù una serie di titoli di pellicole a noi sconosciute, come se avessimo espressamente chiesto: “Bene, quale film volete vedere domani?”
Quasi impossibile trovarne uno condiviso; ma poi siccome l’intenzione non è quella di compiacerli, l’idea felice di vedere un film in classe si fa spesso imposizione. Spiegati gli obiettivi, si osservano i visi durante la proiezione, quando il buio non è totale, o si ascoltano i piccoli rumori fino ai respiri: il silenzio che esprime consenso, se va bene, l’insofferenza dell’agitarsi sulla sedia, se va male.
A loro, almeno ai miei studenti del biennio (con stravaganti eccezioni: Ivan sostiene che il suo regista preferito è Kubrick!), piacciono le storie concrete, pochi simboli, per carità, e poche cose non dette. Non amano, come nella narrazione scritta, le ellissi e le sfumature, le sequenze descrittive, i dialoghi impegnativi. Meglio se le scene scorrono veloci, se il ritmo non rallenta; poche esitazioni, poche raffinatezze stilistiche. Non parliamo dei sottotitoli, che sono intollerabili anche per parecchi adulti. Ma i titoli di testa e di coda sono un’inspiegabile perdita di tempo; hai un bel dirgli che ci predispongono al film all’inizio e ci fanno stare con le emozioni alla fine, perché quelle vanno consumate in fretta, anche al cinema. E così, mentre noi ci innamoriamo sempre più della sobrietà di film girati per sottrazione, loro amano solo quelli fatti di aggiunte: forti, chiassosi, aggressivi.
Cesare Musatti definiva attacchi di angoscia cinematografica queste sensazioni, che in sala si ricercano ormai dagli anni Ottanta: effetti speciali e tecnologia tanto elaborati da offuscare la trama. A noi bastavano Hitchcock e Dario Argento o i thriller psicologici di Polanski; abbiamo amato l’ansia che prima di salire si intuiva e il tremore della casualità paralizzante, una discendenza kafkiana, la nostra, che forse è andata perduta.
Le sensazioni forti non sono legate solo alla paura. Se si ride, per loro, non si possono aspettare tempi morti tra una gag e l’altra. L’azione e l’avventura devono essere frenetiche, e l’effetto catartico può avvenire solo se non ci sono state pause tra una scena spettacolare e quella successiva.
A proposito di sensazioni forti, il peggior film che ho visto su consiglio dei miei studenti è stato Therteen: storia di una ragazzina tredicenne che, traviata dall’amica molto più disinvolta di lei, vive un concentrato di esperienze distruttive inimmaginabili. In cento minuti, la raccolta completa sugli stereotipi di un’adolescenza difficile: assenza del padre, inadeguatezza della madre, attrazione per la compagna più scafata, trasgressione per affermare la propria identità. Il racconto non prevede passaggi interiori: tra luci da pessimo video clip, colori accesi, musiche frastornanti, scene psichedeliche, la ragazzina in un attimo si trasforma da studentessa modello con divisa scolastica, calzettoni e codini, a sexy girl sboccata e volgarotta. Direttamente dalla Barbie all’estrema dissolutezza. Il lieto fine è previsto, ci mancherebbe!, perché la madre prende in mano la situazione e salva la figlia impedendole di frequentare l’amica.
Se il film non fosse così urlato, così sopra le righe, se l’esibizione della gioventù bruciata fosse meno eccessiva, rifletterebbe davvero il bisogno di essere visti e salvati dagli adulti. Esprimerebbe, dal nostro punto di vista, il processo di individuazione del bambino che vuole atteggiarsi da grande, senza mediazioni. Ma mostrare così platealmente furti, alcool, bugie, autolesionismo, droga ovviamente, e sesso a profusione, lo rende poco credibile e di pessimo gusto. Per noi un minorenne e amplificato Sex and the city, insostenibile; per loro un’opera d’arte!
È l’età, certo, molto cambiata negli ultimi dieci anni, anche nelle scelte cinematografiche, forse per la facilità con cui i ragazzi, fin da piccoli, reperiscono ogni tipo di pellicola in rete. Tanto da rendere quasi improponibili, da parte nostra, gli stessi film del passato. Con modelli come Therteen, che adesione possiamo avere noi quando imponiamo L’armata Brancaleone? Un classico a scuola, quando si studia il Medioevo, in seconda media e in terza superiore.
E il bianco e nero, poi! Però con gli studenti bisogna insistere, perché ai miei di prima superiore l’anno scorso è piaciuto Ladri di biciclette e a tutti i ragazzi del triennio persino Maledimiele di Marco Pozzi, di cui si parla in un altro mio articolo di questa rubrica: “Le ragazze studiano di più o studiano troppo?” Forse il nostro errore è quello di continuare a svilire le loro preferenze, di sostituirci coi nostri saperi (anche cinematografici), di rimanerci male se, incontrati alla cassa del cinema, entrano in una sala diversa dalla nostra, invece di essere contenti per averli visti lì e non a bere da qualche parte.
Io ho imparato (un po’ tardi: è il mio ultimo anno di scuola!) a presentare alcuni film come documenti storici e non capolavori. A non pretendere che, se gli anni passati si è sempre visto Galileo di Liliana Cavani in quarta ed è piaciuto, continui a succedere ancora. In questo caso, è bene spiegare in quali anni è stato prodotto, che nel 1968 era vietato ai minori di diciotto anni e quanto il clima ideologico fosse diverso da ora. Incuriosirli, e prepararli di più di quanto non si facesse una volta. L’esordio è pressappoco questo: “Non so se vi piacerà, guardatelo come fosse una lezione di storia, poi, se vi piace, tanto meglio”. È facile che siano loro a mettere in luce debolezze e ingenuità del film; i ragazzi più grandi sorprendono, e ti chiedi come mai, cresciuti a pellicole senza pretese, riescano a essere così incisivi nelle critiche.
L’anno scorso ho avuto il piacere di segnalare una mia studentessa di quarta alla giuria Premio Donatello Giovani. Il suo compito era quello di visionare una serie di film della stagione e votare quello migliore su cui scrivere una recensione. Certo, Domiziana aveva un bel nove in italiano, mantenuto anche ora che è in quinta. Propongo qui in calce la lettura del suo testo su Un giorno devi andare di Giorgio Diritti: una bella soddisfazione!
Recensione di Domiziana Turcatti*
Un giorno devi andare, di Giorgio Diritti, non è una fuga; è la concretizzazione di una grande sofferenza che ogni uomo prima o poi si ritrova a fronteggiare: la presa di coscienza di un apparente fallimento, che impedisce la vita, che allontana dal senso dell'esistenza. Si parla dell'umile coraggio disperato di chi, perdendo tutto, ha avvertito il vuoto straziante dell'anima, forse fino a prima sconosciuta e mai realmente ascoltata; di chi ha agito nella verità, deciso a dare una svolta sincera alla propria vita, messa in dubbio dalla vita stessa.
È Augusta che, sconfitta dagli eventi, sente di dover andare, lasciare le fredde montagne del Trentino Alto Adige per le selvagge terre del Brasile. I motivi della sua improvvisa partenza vengono lasciati intuire con discrezione, forse perché non sono davvero una condizione necessaria per giustificare e comprendere le sue scelte. La morte di un figlio mai nato, del quale scorgiamo solo la toccante immagine dell'ecografia in una notte di pianto della giovane donna, e quella del padre sono la spinta che le permetterà di aprire la mente e il cuore ad un universo sconosciuto (interiore ed esteriore).
Augusta si affida all'instancabile suor Franca e alle sue certezze, accompagnandola nell'evangelizzazione di quei popoli che, pervasi da una cultura profondamente diversa da quella occidentale, non comprendono il suo insegnamento. Per questo Augusta si sente estranea davanti ai gesti innocenti di quegli uomini semplici, che non sanno lenire i suoi dolori e il peso dell'insignificanza. Infatti, lo spettacolo della natura e l'ampiezza dello sguardo che si posa sulle distese d'acqua la invitano ad una riflessione per lei insostenibile.
Diritti ci dimostra come la condizione necessaria della ricerca sincera sia il completo abbandono dei propri punti di riferimento e dell'affanno per colmare il vuoto interiore con un credo che appartiene alla vita di un altro.
E allora Augusta parte in solitudine, verso il degrado sociale delle favelas, con la sguardo ancora privo di senso, ma finalmente libero e consapevole che la sua ricerca ha per scopo la fatica dell'incertezza. È pronta ad essere, semplicemente, e a sperare, abbandonando le vecchie sicurezze, allargando le braccia a valori nuovi e inattesi da sperimentare finalmente in maniera autentica.
È questo il passo significativo, il primo gesto vero, che coincide con l'inizio del suo viaggio spirituale. Attraverserà le terre sconfinate dei sorrisi e delle grida infantili, dell'affetto fraterno, della compassione, del tenero amore privo di aspettative, nonostante la corruzione, la promiscuità e la criminalità che il regista non ci risparmia. Vivrà nell'eterno presente, luogo dell'anima, dove la frustrazione del passato diventa gioia del ricordo e l'ansia del futuro non è altro che speranza.
Forse Augusta, così lontana da casa, riesce a riconciliarsi con i suoi affetti: la vediamo correre e giocare coi i piatti da musicista del padre gaia e spensierata, seguita da tanti bambini in festa. Quell'oggetto diventa simbolo di un lutto che si sta elaborando e, finalmente, nell'unica commovente videochiamata con la madre, riuscirà a confessare la nostalgia per il padre. È l'eloquente immagine della pioggia, che raccoglie in sé e porta via il marcio delle case ammassate, a esprimere l'avvenuta pacificazione con ciò che è stato.
Augusta è pronta per tornare all'inizio del suo percorso e si accinge ad affrontare il sentimento di nullità nel grembo della natura che ingloba e dissolve. La sua anima, ora silenziosa e piena di un nuovo senso d'umanità, è tesa semplicemente in ascolto. Torna a perdere lo sguardo nell'illimitatezza delle distese d'acqua, in una sana solitudine che abbraccia la vita, senza più rinnegarla. Col viso offerto alla pioggia battente, Augusta sembra compiere un rito di purificazione e di abbandono a quello che sarà.
Giunti a questo punto, come suggerisce il finale aperto, la ricerca forse non conta più, così come il ritornare o il restare.
* Domiziana Turcatti è nata nel 1995, vive a Venegono Inferiore (VA) e frequenta ora la Classe 5^stD del Liceo Scientifico Tecnologico ISISS Ludovico Geymonat di Tradate (VA)
A seguire... si può leggere anche Uno squarcio nella memoria...