La recente lettera di denuncia dell’ignoranza dell’italiano, particolarmente scandalosa negli studenti universitari, firmata da seicento intellettuali, per lo più accademici, sebbene discutibile nei richiami nostalgici a un insegnamento della lingua astratto e normativo, ha comunque il merito di aver riportato e focalizzato l’attenzione sulla funzione propria della scuola, cioè l’istruzione dei giovani. Da tempo le istituzioni, sebbene intenzionate a realizzare una necessaria riforma dell’istruzione, non si sono più interrogate sui temi relativi alla qualità dei contenuti e dei metodi dell’insegnamento. Infatti la legge 107, e i molti discorsi sulla “Buona scuola” che l’hanno preannunciata, non hanno preso in considerazione né i programmi né la didattica. L’allarme che ora viene lanciato, soprattutto dai docenti universitari, sull’incapacità dei loro studenti di usare correttamente la lingua materna, si affianca a quello di Tullio De Mauro, ancora una volta ribadito nell’ultima sua videointervista, relativo al fatto che il 70% degli italiani tra i diciotto e i sessantacinque anni non sono in grado di comprendere testi scritti.
Appare assai utile ascoltare direttamente le parole di Tullio De Mauro, sia perché consentono di misurare il diverso spessore della sua denuncia rispetto a quella dei dirigenti scolastici del "Gruppo di Firenze", sia perché costituiscono, di fatto, una efficace risposta a quelle stesse considerazioni. [ndr]
Dunque non si può più ignorare la necessità e l’urgenza di studiare con quali mezzi, metodi, programmi è possibile migliorare l’apprendimento degli usi scritti e orali dell’italiano nella scuola pubblica. Essendo la lingua il principale strumento delle relazioni sociali, è un obbligo democratico diffonderne la conoscenza nel modo più ampio possibile tra tutti gli allievi, superando con adeguati metodi pedagogico-didattici quelle disuguaglianze delle situazioni dei genitori nella divisione sociale del lavoro che si riproducono nella scuola, generando tendenzialmente nei figli delle disposizioni e delle capacità diverse nei confronti dell’apprendimento scolastico. Prima ancora di Don Milani illustri sociologi avevano sostenuto e argomentato questa lettura della realtà scolastica (Cfr. Pierre Bourdieu, Jean-Claude Passeron : Les héritiers. Les étudiantes et la culture. Paris, 1964). Quindi Ernesto Galli della Loggia nel suo articolo “Il ribaltamento pedagogico che rovina la nostra lingua” (Corriere della sera, 6 febbraio 2017 ), volto ad attribuire a Tullio De Mauro, recentemente scomparso, la responsabilità del degrado delle conoscenze linguistiche degli studenti, ha dimostrato di non comprendere proprio il significato fondamentale di quel «ribaltamento in senso democratico della pedagogia linguistica tradizionale» raccomandato dal grande studioso e storico della lingua in ottemperanza alla piena attuazione dell’articolo tre della Costituzione (È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l'eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l'effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all'organizzazione politica, economica e sociale del Paese).
Nel 1975 questi principi vengono codificati dal Giscel (Gruppo di Intervento e Studio nel Campo dell’Educazione linguistica) nelle Dieci tesi per l’educazione linguistica democratica , dalle quali non potranno più prescindere tutti i successivi interventi di riforma dei programmi scolastici a tutti i livelli. Ma se oggi verifichiamo una allarmante ignoranza degli studenti nella comprensione e produzione di testi scritti in italiano non dobbiamo trovarne la causa in tali principi, bensì nella relativa attuazione impropria e troppo spesso incompetente.
Infatti quel «ribaltamento in senso democratico della pedagogia linguistica tradizionale», indicato come necessario da Tullio De Mauro e affermato dal Giscel più di quarant’anni fa, comporterebbe una preparazione specifica e aggiornata degli insegnanti in teoria e didattica della lingua, che continua a essere invece carente fin dalla prima basilare formazione del docente di italiano. Ne è una prova la seguente esperienza: durante il decennio della SIS (Scuola Interateneo di Specializzazione degli insegnanti, dal 1999 al 2009, quando fu soppressa dal ministro Gelmini) all’università di Torino la maggioranza dei laureati in lettere che pure avevano superato la selezione dei test di ingresso venivano costretti a frequentare preliminarmente corsi integrativi di linguistica. Come avrebbero potuto infatti sperimentare un valido, aggiornato insegnamento della lingua italiana nelle ore di tirocinio, se privi di una tale preparazione? La SIS cercava di creare insegnanti adeguati alla scuola di massa e pertanto capaci di far accedere tutti gli allievi, secondo le personali capacità indipendenti dai relativi vantaggi o svantaggi delle estrazioni sociali, alle conoscenze che rendono ciascuno senza distinzioni cittadino della Repubblica.
Negli anni Settanta anche in Italia, come altrove nel decennio precedente, si affermava la “linguistica testuale”, cioè l’analisi della lingua nella sua costruzione articolata e complessiva del testo. Le più importanti proprietà della testualità sono state identificate nella coerenza e nella coesione, ossia in tutti i fenomeni che mostrano rapporti logici e formali tra le parti del testo. Così hanno acquistato rilevanza interpretativa, per esempio, gli usi dei connettivi (avverbi e congiunzioni che indicano il tipo di rapporto logico tra le affermazioni espresse in due paragrafi in sequenza). Anche gli usi della punteggiatura sono stati studiati in questo senso. Gli insegnanti aggiornati nella linguistica testuale hanno iniziato allora a sperimentarne il potenziale didattico (ricordiamo che nel corso degli anni Ottanta in molte scuole italiane sono state attuate sperimentazioni didattiche intense e valide, sulla cui base furono poi redatti gli innovativi “ Programmi Brocca”). La prima conseguenza di un tale approccio allo studio della lingua, che incominciò ad apparire anche in alcuni libri di testo, diede un nuovo impulso alla pratica della lettura, analisi e soprattutto scrittura di testi interi, resuscitando e rinnovando le indicazioni del grande pedagogista francese Celestin Freinet(1896-1966), non a caso ripubblicato in quegli anni ( L’apprendimento linguistico secondo il metodo naturale, La Nuova Italia, 1971 ). Lo stesso insegnamento della grammatica, tra morfologia e sintassi, coniugata all’approfondimento del lessico a essa a volte funzionale, diventa efficace attraverso la pratica della lettura e soprattutto della scrittura di un testo. Fondamentale però è la correzione continua dell’insegnante, svolta con metodo adeguato alle regole scientifiche della linguistica, soprattutto mai come sostituzione del linguaggio del docente a quello dell’allievo. Va aggiunto poi l’esercizio di riscrittura del testo corretto. Per insegnare l’uso dell’italiano scritto, a tutti i livelli di scuola è indispensabile far scrivere molto spesso, anche se poco ogni volta: allievi e allieve imparano di più scrivendo brevi testi, di tipo differente, frequentemente, a livello quasi quotidiano, che testi ampi soltanto per le obbligatorie verifiche quadrimestrali.
Viviamo oggi in una cultura sociale in cui prevale l’uso dell’oralità, che linguisticamente è tale anche nelle comunicazioni dei vari Social network, attraverso Sms e chat. La stessa posta elettronica, d’altra parte, non ha più né il linguaggio né lo stile né l’ampiezza testuale delle lettere di una volta. Soltanto la scuola può quindi insegnare la correttezza della lingua scritta. Ma i rimedi agli esiti insoddisfacenti in questo campo, suggeriti dai seicento firmatari dell’appello a chi governa, non si basa sulla conoscenza del problema.
È opportuno pertanto mettere sotto gli occhi di tutti costoro e della ministra in carica, il quadro delle cause effettive dell’insufficiente apprendimento della lingua italiana nella scuola, oltre a ribadire che a monte c’è la scarsa formazione in linguistica degli insegnanti, di cui si è parlato sopra:
-scarsa pratica di scrittura di testi con relativa correzione da parte dell’insegnante (attività sostituita sempre più dai test a risposta multipla);
-mancanza di attenzione didattica all’insegnamento dell’italiano trasversale alle diverse materie;
-spesso elevato numero di allievi per classe, che riduce il tempo per la correzione degli elaborati (vengono pertanto ridotti di numero) e per l’ascolto delle esposizioni orali individuali;
- aumento del numero delle classi per gli insegnanti di lettere (da quando il docente di italiano e storia della secondaria superiore, per effettuare il servizio effettivo di cattedra -le 18 ore- e far risparmiare lo Stato sul numero degli insegnanti, arriva ad avere troppe classi, anche quattro contemporaneamente tra biennio e triennio, di cui correggere frequentemente gli scritti è impossibile).
Una vera riforma della scuola, che intenda rispondere utilmente, concretamente all’appello dei firmatari (nonostante la arretratezza delle loro relative proposte) non può non porre rimedio a tutto questo.