La rivista “Paideutika”, fondata da filosofo/pedagogista Antonio Erbetta recentemente scomparso, ha pubblicato sul n. 17/2013 gli interventi del convegno tenuto in suo onore nel marzo 2012 a Torino.
Essi toccano le problematiche e gli approcci teorici a lui propri: l’idea di un’ “educazione come critica dell’educazione” e della “pedagogia come critica della pedagogia”, l’impostazione fenomenologica tendente al disvelamento delle “esperienze vissute” sia dell’educatore sia dell’educando, quindi delle categorie che vanno a cogliere le peculiarità del soggetto concretamente esistente: l’essere situato nel mondo e limitato dalle “condizioni storiche, sociali e culturali”, rispetto alle quali ha tuttavia la capacità di problematizzarle oltre le ovvietà dei “luoghi comuni” e dei “pre-giudizi” che caratterizzano la “chiacchiera” nella “banalità quotidiana”, e di “progettare” la propria vita ed il proprio futuro. Un’ulteriore chance – e questo è caratteristico del rapporto educativo – è il proporre all’”altro” di vivere con senso critico aprendosi prospettive nuove, non esperite e inaudite, rendendo effettiva la “possibilità” di modificare l’esistente - cristallizzato, istituzionalizzato, burocratizzato - in direzione di una vita più “autentica”, di relazioni maggiormente “empatiche” e costruttive. Strumento educativo atto a svolgere questi compiti è una “decostruzione” in grado di cogliere “l’implicito” di modelli di comportamento e di “dispositivi” sociali e mentali stratificatisi in “procedure” socialmente accettate e in professionalità definite da sequenze deontologiche e organizzative conformiste e avulse dalle esigenze vitali sia di chi fornisce un servizio che di chi ne fruisce (Cfr. A. Erbetta, "Decostruire. Che cosa e perché", in Decostruire formando, cit., pp. 15-28, e – per quanto riguarda la scuola– F. Chiarello, "La decostruzione formativa nella vita della scuola", ivi, pp.79-99).
Nell’impossibilità di render conto di tutti i contributi presenti nella rivista , segnalo innanzitutto quelli che in maniera esplicita narrano della “persona” e del “pensiero” di Erbetta: M. Gennari (op. cit. pp. 67-73) lo descrive come “affascinato” , eppur “dotato di una notevole dose di disincanto”, “circospetto” e aduso all’esercizio del “sospetto”; P. Mottana (pp.85-102) ricorda di Erbetta la “messa alla berlina di certo ottimismo pedagogico o, peggio, della deriva tecnocratica normalizzatrice”, della “superficialità esistenziale” e di “pedagogie sempre pronte a confermare i fondamenti dei dispositivi disciplinari che ci governano fin nella ossa”; M. Tarozzi (pp. 103-122), dopo aver affermato che “la condizione postmoderna, il pensiero debole, la crisi della ragione storica, il paradigma della complessità, [sono] approdati alla pedagogia con un decenni di ritardo e coniugati con un riemergente personalismo”, sostiene che “con la fine del postmoderno si riaffaccia la necessità di un pensiero non debole ma forte, nel senso di scientificamente rigoroso e qualificato da un punto di vista etico-politico”.
G. Spadafora (pp.39-57), invece, indica come possibili chiavi di lettura sulle orme di Erbetta il “problematicismo critico” coniugato con la “teoria della complessità” e la concezione marxiana della “prassi” (e della prassi educativa) “come attività pratico-critica che trasforma la realtà”; l’idea della “formazione come atto politico per la democrazia”; il concetto di un uomo concretamente esistente heideggerianamente pensato come progetto gettato nel mondo e destinato alla morte (quindi come capace di decidere in rapporto a possibilità condizionate dai “contesti”, dunque finito e sempre potenzialmente angosciato e soggetto al “rischio” dello “scacco”).
Infine, tra i molti spunti interessanti disseminati nel volume della rivista, ci piace segnalare il contributo di M. Contini (pp. 75-84), che evidenzia “lo scarto educativo-esistenziale tra le ‘nostre’ proposte e le ‘loro’ scelte”, dove il “‘nostro’” è riferito all’educatore e il “‘loro’” al soggetto educato. Rispetto ai “’nostri’” progetti, “’loro’” hanno “il diritto a cercarsi la propria felicità senza di noi”, il ruolo dell’educatore essendo quello di “motivarli e affiancarli nel progetto”, anche col rischio che la progettualità educativa approdi, rispetto alle intenzioni iniziali, allo scacco, cioè ad un esito tutt’altro rispetto a quello atteso. Questa possibilità, che ogni educatore non può non mettere in conto, potrebbe apparire anche segno di un fallimento solo apparente, se compito di ciascuno è “crescere se stesso”, non essere cresciuto da altri, essendo “la ‘coscienza pedagogica’ sartreanamente ostile a qualsiasi ‘coscienza adesa’” (a questo proposito cfr. il significativo intervento introduttivo di E. Madrussan, pp. 11-17).
Oggi, rileva F. Cambi (pp. 19-26), “l’educazione si è fatta crocevia di educazioni”, sulla spinta di “nuove agenzie”, tra cui “i media, che ne hanno ristrutturata la stessa identità plurale, scomponendone le gerarchie tradizionali”, e con l’impulso della “cultura del ’68”, in forza di cui “l’educazione è stata svelata in modo organico nel suo autoritarismo, nel suo ‘mito dell’adulto’ e nel suo procedere per modelli di classe” sì da condurre a “smascheramenti” che non escludono una “ricomposizione” in una pedagogia che induca a una crescita autonoma verso una “negazione liberatrice” e un “oltrepassamento rispetto alla ‘datità’”.
In un momento storico in cui predomina una pseudopedagogia ministerialmanageriale, le letture qui proposte possono essere un buon antidoto nei suoi confronti.