Ho pianto alla morte di Mario Lodi, che sentivo come un fratello maggiore, al quale mi univano la storia professionale, gli ideali politici, persino le origini in quella terra basso-padana così ricca di genialità contadina e artistico-culturale, istinto cooperativo, lucida e dignitosa volontà orientata verso il "far da sé", senza piagnistei e infingimenti, anche nei momenti più tragici dell'esistenza privata e collettiva.
Torno a piangere oggi, alla morte di Umberto Eco.
Non mi sono mai sentita - nei suoi confronti - come una sorella minore: come avrei potuto? Come potevo osare, davanti a uno dei massimi testimoni di una cultura sterminata, che non solo si nutriva di un sapere acquisito sui documenti del passato, ma della contnua "lettura" di ogni stimolo cartaceo, multimediatico, relazionale - in una parola, "semiotico" - proveniente dall'universo circostante ?
Questo è ciò che Umberto Eco mi ha insegnato: e cioè che la cultura è una perenne, ostinata (e qualche volta eroica) ricerca di risposte, che ci costringono a porci (e a porre) domande sempre più articolate, sempre più complesse, sempre più "aperte" verso orizzonti via via più alti, più problematici, più "relativistici".
No, non mi sento "sorella" di Umberto Eco. Sono - e resterò per sempre - sua figlia e allieva. Così ne piango le spoglie. Anche se mi riscalderanno per sempre le sue parole.