Nonostante gestione e partecipazione dei seminari avvengano per i noti motivi in remoto, abbiamo deciso di mantenere la dicitura "C'era per noi" per i report di convegni e seminari, in parte perché anche seguire on line è un modo, seppur diverso, di "esserci", ma soprattutto per dare continuità col passato e prospettive per il futuro agli incontri in presenza.
Complessità e prospettive al tempo del coronavirus.
Questo il titolo del Convegno annuale ANP, tenuto all’inizio del mese corrente in rete, o meglio, come si è voluto precisare nel programma, in un’“aula virtuale”. Avere abbinato alla scuola la parola festival, allusiva di una festa popolare o di una rassegna spettacolare per varietà di eventi ci è sembrata una scelta di una certa quale audacia (o velleità?), specie se la timeline di riferimento, la “cornice”, si è configurata pur sempre con “il tempo del coronavirus”. Ma come si richiede da più parti di non essere dei menagramo e di pensare positivo, Flavio Insinna, chiamato ad aprire il festival, ha maliziosamente proposto ai presenti di “sognare la scuola” (che non c’è) sulla base di una frase slogan piuttosto sconcertante, quel “Ti conosco mascherina”, che a noi partecipanti ormai invecchiati, ha fatto tornare in mente un manifesto elettorale della DC durante la campagna politica del 1948, dove la stessa frase campiva sovraimpressa sul volto di uno Stalin sì sorridente, ma dallo sguardo per l’appunto nascosto da una mascherina. E noi, pubblico del festival, ci siamo chiesti con una certa curiosità, chi intendesse “smascherare” il nostro bravo Insinna, dal momento che sono subito comparsi, ben seduti accanto a lui, saltellante, la ministra del MI Lucia Azzolina e il presidente ANP Antonello Giannelli, loro senza mascherina, ma a debita distanza securitaria.
Eppure il gioco di "smascherare" ha funzionato, e per tutto il festival: non riguardo alle maschere, che peraltro nessuno indossava, ma alle intenzioni profonde ogni tanto affioranti di una intera giornata occupata da ben cinque affollate tavole rotonde tutte abilmente condotte dalla giornalista Ilaria Iacoviello di Sky tg24.
Tra i partecipanti delle tavole rotonde la maggior parte non era costituita da insegnanti di scuola, ma da docenti universitari e da esperti “esterni”, fatto questo a nostro parere, piuttosto increscioso. Perché, quando ci si affida a consulenti ed esperti estranei per formazione e professione alle esigenze e al senso della scuola secondo Costituzione, che non sono certo le stesse dell’università o del mondo imprenditoriale, è chiaro che su certe questioni, come per esempio la DAD, o se preferite DID, si è caldeggiata l’esperienza con l’occhio “pionieristico” di chi ne vede in superficie la novità, ma non le difficoltà e gli equivoci livellate dall’emergenza, o di chi, stando un bel pezzo avanti nelle motivazioni e nelle applicazioni del digitale, pensa di bypassare con disinvoltura la necessaria formazione critica, riflessiva, degli insegnanti in proposito e magari propone, se è un manager del settore, percorsi e pacchetti già pronti ma del tutto disancorati dalle esigenze della didattica curricolare reale. Varie quindi le mascherature/smascherature in questo senso, in primis della ministra che, con serena leggerezza, ha confermato l’etichetta di validità didattica per la DAD, e ne ha prescritto improbabili "Linee guida".
Né le buone regole ("nove lezioni" le ha denominate il relatore) proposte da Gino Roncaglia, né gli sforzi di Enrica Ena di illustrare come praticabili le condivisibili prospettive di una "scuola a bassa direttività" consentono di dormire sonni tranquilli e di valorizzare quanto di buono avremmo dovuto impararare dall'emergenza. Il fatto stesso di dover denominare in senso alternativo all'esistente quell'idea di scuola rivela le preoccupazioni che la scuola reale, in particolare quella spesso richiesta o vagheggiata dalla stessa ANP, stia andando in tutt'altra direzione. Così com'è significativo che Gino Roncaglia abbia presentato come "controverse" le tre "lezioni" della pandemia che dovrebbero essere le più propulsive. E quando la conduttrice interpella il filosofo Luciano Floridi su come costruire le basi di una didattica formativa in ottica digitale, non ci si deve sorprendere più di tanto che lui risponda “partendo dai fondamentali”. Ma quali sarebbero questi fondamentali etici? Il pluridisciplinarismo curricolare? Il rafforzamento dei saperi scientifici? Il neoumanesimo?
Perché, a sua volta, la Future manager Cristina Pozzi ha citato Edgar Morin e l’obbiettivo di un processo educativo che attivi strumenti di diverso tipo, legati sì alle acquisizioni di base, ma anche alla conoscenza del sé, alle varietà culturali, alle aperture di nuovi scenari. E invece Alberto Grillai, delegato per le Scuole Professionali Salesiane nel Veneto, ritiene necessario lavorare sulla persona aiutando i ragazzi a trovare qualcosa che piaccia loro, e curando per loro una relazione che favorisca mentalità aperte e flessibili.
E a proposito della flessibilità ci si aspetterebbe che risulti esaustiva la spiegazione che ne ha dato il neuroscienziato Leonardo Fogassi, avendo lui scientificamente comprovato il legame esistente tra plasticità neurale, movimento del corpo, percezione analitica degli oggetti, sulla scia di quei processi emotivi e cognitivi della prima infanzia descritti da Dewey, Piaget e Montessori. E invece no, la conquista della flessibilità viene proposta come la dote di resilienza necessaria a padroneggiare la condizione sempre più precaria del lavoro e alleggerire l’eccesso di specializzazione.
Sì da farci supporre, che si voglia fare inghiottire definitivamente ai giovani l’amaro calice della mancanza di un lavoro qualificato e salvaguardato. Ipotesi questa non del tutto peregrina, perché nella tavola rotonda intitolata “Le competenze per le nuove sfide” è intervenuta una coppia di giovani “bocconiani”, che a partire dagli anni Ottanta avremmo potuto tranquillamente definire come gli yuppies della “Milano da bere”. Oggi, invece, essi rappresentano quel doloroso nomadismo di giovani sia pure preparati, anzi “gasati”, costretti, se non emigrano, a inventarsi strane etichette di lavoro precario come il “South working”, nella fattispecie un lavoro stagionale di animatori in Puglia…
Insomma, un mélange di buone intenzioni e di prospettive contraddittorie, nelle quali si fa fatica a districarsi, a discernerne il grano dalla crusca e a capire la reale sostanza dell'idea di scuola sottesa o attesa. A partire dalle domande incalzanti di Insinna, e data la riconosciuta complessità del “tempo virus”, che praticamente ha scoperchiato nel bene e nel male la scuola dell’autonomia, le risposte hanno aperto, ma anche chiuso o socchiuso prospettive di vario livello, creando una sconcertante alleanza tra esistenza, resistenza e reticenza. In effetti la scuola pubblica, sia pure “scassata”, sfilacciata, impoverita, miracolosamente esiste ancora e resiste come può, una scuola che entrambi gli interlocutori hanno dovuto apertamente difendere, se non altro per il loro altissimo ruolo direttivo: la Ministra, con una passione quasi materna, il Presidente, con un piglio da manager equilibrato e sapiente, tuttavia abbandonato e isolato nelle sue gravi responsabilità di gestione e di cura.
Nella buona sostanza, dunque, è emerso sin dall’inizio che più che una scuola da sognare, la scuola è da salvare, non solo dal virus, ma dal suo stesso passato/presente. E qui fa capolino la reticenza, perché nessuno dei due interlocutori ha pensato di mettere a fuoco i soggetti responsabili dei malanni pregressi, che il virus, come essi hanno comunque concordemente affermato, ha diffuso e aggravato. Chi sono i responsabili delle nominate classi pollaio, dei servizi fatiscenti, dei trasporti inadeguati, del precariato permanente, ma soprattutto di una idea di scuola senza potere inclusivo e senza contenuti culturali e competenze adeguati a una istruzione/formazione per tutti? É evidente che se si misconoscono, si accantonano i fondamenti di una operatività didattica a dir poco incerta e ingiusta, e non si danno garanzie alla risoluzione delle disfunzioni tecniche di cui la scuola è solo in parte responsabile, né la Ministra, né il Presidente, né gli intellettuali, gli scienziati, gli esperti intervenuti alle sia pure interessanti tavole rotonde potranno alimentare speranze prossime a una qualche certezza costruttiva: siamo sicuri, infatti, che il 7 gennaio ci sarà un piano di trasporti adeguato? Siamo sicuri che man mano si ristabiliranno le condizioni di una didattica in presenza meno obsoleta o taroccata? Che si comincerà a disporre per gli insegnanti una formazione permanente obbligatoria alla cui organizzazione gli ambiti si sono dimostrati largamente inadeguati? Che si procederà a una istruzione/educazione digitale in cui le potenzialità dello strumento e dei mezzi impiegati non vadano confuse con il progetto, la visione del mondo e la gestione del progetto non cadano in mano a piattaforme e coach mercantili? E a finalità culturali e sociali omologanti anziché emancipanti? (R.A.)