La prima cosa che ho pensato leggendo I bambini ci guardano, l’ultimo libro di Franco Lorenzoni, è che avrei voluto poter tornare indietro a quando avevo otto anni ed essere una delle alunne della classe di Giove di cui racconta il maestro.
Sfondo delle pagine del libro è un’aula che riesce a trasformarsi continuamente, capace di presentarsi senza muri non solo quando questi sono concretamente assenti perché le lezioni si svolgono all’aperto, ma anche quando la scolaresca si trova nel chiuso della scuola.
Sono infatti le pratiche didattiche messe in campo ad abbatterli, con i piccoli protagonisti del libro liberi in tanti modi diversi, come non sempre, purtroppo, ci capita di vedere nelle scuole italiane.
Così Nicla, Maia, Nisirin, Emilia, Tommaso, David, Lorenzo, Alessia e tutti gli altri vivono un tempo scolastico senza confini, in cui i percorsi s’intrecciano, la matematica si tocca, si vede e si costruisce tutti insieme, le scoperte fatte in passato irrompono improvvise per accenderne altre, un intero paese può diventare laboratorio e storie che arrivano da lontano, nel tempo e nello spazio, riescono a prendere vita, raccontate direttamente dai protagonisti o attraverso corrispondenze fantastiche.
Ed ecco che Ipazia o Erodoto, Socrate o Ghandi diventano amici di penna degli scolari, presenze familiari a cui rivolgere domande importanti o fare promesse preziose e commoventi. Come Manuel a Erodoto: “ Mi chiedo, se tu non fossi uno storico o non esisteresti, dei tuoi amici Socrate, Pericle e Aristofane noi cosa sapremmo?” o Cristian a Ghandi:” Noi abbiamo una recita che fa un po’ parte di te. Ti ricordi della frase che hai detto-occhio per occhio rende tutti ciechi- ecco, noi la ridiremo e proveremo a far continuare questa cosa che hai detto tu”.
Nulla è precluso a questi bambini, Lorenzoni affronta con loro temi complessi come le migrazioni, le guerre, la diversità, il razzismo, la morte, restando sempre un po’ in disparte, guida preziosa ma mai ingombrante, perché i pensieri belli e sorprendenti dei suoi piccoli allievi prendano corpo e trovino le parole giuste per venire fuori. Nella sua classe, insomma, non c’è spazio per Piaget e gli stadi di sviluppo cognitivo.
Anche il tempo nella scuola di Giove scorre diversamente, rispettato e non inseguito, non pare mai esserci affanno per un fantomatico programma da finire, ma solo desiderio di sostare intorno alle questioni, che via via si aprono con naturalezza, abbastanza perché siano sciorinate ed esplorate in maniera esaustiva e convincente. Così che possano realmente incidere sulla formazione delle identità dei bambini, lasciare un segno e magari venire di nuovo fuori, prepotenti, quando sarà naturale collegarle ad altre scoperte. Il tempo, quindi, lo decidono le domande degli allievi, la loro curiosità, i loro dubbi. Non è forse così che dovrebbe essere sempre?
Mentre procedevo tra le pagine del libro, mi sono chiesta spesso se quello che Lorenzoni mette in pratica nella sua classe possa essere trasportato altrove, sia per quanto riguarda ordine e grado di scuola, che per quanto riguarda la collocazione geografica. Una scuola elementare di un paesino umbro è molto differente, per dinamiche, platea, esigenze, da una scuola superiore di una grande città, per esempio, e certamente non tutto può risultare riproducibile.
Non si può pensare di rifare Riace nel Vasto napoletano, per fare un paragone attuale. Tuttavia sono fermamente convinta che pezzi importanti della scuola di Giove possano essere trasportati ovunque.
Nel libro a un certo punto la giovane insegnante di sostegno vorrebbe rispondere immediatamente, attraverso il suo tablet, alle mille domande sui lombrichi che, alla vista di uno di essi, irrompono tra gli scolari di Giove. Ma il maestro la ferma, consapevole che a quelle risposte bisogna arrivare lentamente, con un percorso fatto di esperienze che portano in modo naturale e avvincente alla scoperta. Troppe volte a scuola ho visto negare agli studenti la bellezza e l’ebbrezza proprio della scoperta personale, traguardo che rende sensata la fatica precedente.
Se cominciasse a diventare prassi anche il “solo” accompagnare all’apprendimento in modo tale che i risultati da raggiungere vengano costruiti insieme un po’ alla volta, come accade nel libro, e non calati dall’alto, sarebbe già una rivoluzione. E, piuttosto che seguire i percorsi prestabiliti dai docenti (più gestibili, forse, ma inevitabilmente meno affascinanti) prevalessero il lasciarsi andare dell'insegnante a quelli tracciati dagli studenti con le loro domande o incertezze, lo scoprire e imparare insieme a loro, il dare fiducia alle potenzialità dei ragazzi come Lorenzoni fa con i suoi alunni; e ancora si provasse ad abbandonare il libro di testo per usare tante fonti diverse, a smettere di procedere per compartimenti stagni per sconfinare in maniera naturale in altri saperi, differenti dalla disciplina che s’insegna. O a inserire ore dedicate al teatro in ogni scuola...
Sono queste le azioni presenti nel libro e facilmente esportabili dappertutto se solo ci fosse realmente la disponibilità ad abbandonare sentieri rassicuranti, ma molto spesso fallimentari, e a fare di esperienze come quella di Giove un punto di riferimento per un’altra visione di insegnamento. Perché se c’è una cosa che emerge con forza dalle pagine di questo libro è che un’altra scuola, per fortuna, è possibile.