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una recensioneoltre la lavagna

31/05/2024

A proposito di "Ecce infans -Diseducare alla pedagogia del dominio" di Marco Maurizi, Novalogos, Anzio Lavinio (RM), 2024

di Rosanna Angelelli

Un saggio denso di riferimenti culturali e per molti aspetti politicamente scomodo, a partire dal titolo in latino. Con Ecce l’autore presenta al lettore il soggetto/oggetto della sua riflessione e lo mette in posizione: ecco l'infans [1].
Nel sottotitolo, invece, Maurizi nomina un atteggiamento pedagogico -la “pedagogia del dominio”- a suo parere così negativo da doversi ricorrere a una diseducazione.

Qualche osservazione, innanzitutto sul soggetto: infans è un termine desueto anche nella sua versione italiana di “infante”. Oggi useremmo non solo la parola “piccolo” o “bambino”, ma dovremmo aggiungervi anche la voce al femminile.
Qual è allora il vantaggio di questo arcaismo? Pensiamo che con questa forma sostantivata dal participio del verbo fari, onnicomprensiva di diversi generi (in latino c’è anche il neutro) Maurizi abbia elegantemente superato la questione della determinazione del soggetto, per mettere in evidenza l’azione del “dire”, comune a ogni umano che si affacci alla vita. Infatti da fari (che ha un significato ben diverso da dicere), si deduce quell’affabulazione dalla funzionalità attiva/passiva (fari è un verbo deponente) e dai suoni e gesti assai complicati fino ad apparire misteriosi, con cui l’infans appena nato cerca di relazionarsi ai segnali della voce e del corpo di chi lo ha messo al mondo e/o lo sta accudendo. Segnali per entrambi tutt’altro che neutri, ma carichi sin da subito di reciproche aspettative “affettive”.
Sulla specificità e complessità di questo processo di scambio tutt’altro che semplice Maurizi apre le sue riflessioni nella prima parte del saggio, quella più filosofica, intitolata “Pedagogia della diseducazione”. Innanzitutto egli si sofferma a delineare la complessità delle possibili condizioni interiori di ciascuno di noi.

Il sapere psicoanalitico, che, bene o  male, ciascun adulto occidentale mediamente acculturato ha orecchiato, ci dice che abbiamo fatto tutti, da infanti, una vera e propria fatica ad accordare in parole lo scambio tra due alterità: l’alter implicito in noi, onnicomprensivo di varie identità, o per meglio dire di vari moti di espressione del sé, in continua elaborazione, e al di là di etichettature razionali ed etiche;  l’alter degli interlocutori esterni, che, essendo più “adulti”, hanno in qualche modo imbrigliato in comportamenti sociali di responsabilità e di pertinenza comunicativa il loro vissuto emotivo e irrazionale.  La subordinazione dell’infans rispetto a costoro non è però totale. L’infans esercita comunque un suo potere proprio per il fatto di essere un essere altamente immaturo. Egli, proprio per il suo bisogno di cura per sopravvivere, diventa per chi lo accudisce lo specchio (spesso imbarazzante e gravido di interrogativi) di una propria specifica memoria di crescita. Gli adulti ci guidano al prosieguo di vita dopo la nascita, comunicandoci quelle emozioni, intenzioni, prescrizioni molto spesso corrispondenti al loro precedente livello di emancipazione personale. Di fatto, si sono levati in piedi, hanno camminato e preso a comunicare i desideri e le intenzioni con gesti e in linguaggio verbale sempre più strutturati e complessi.

 Ma allora, a quale punto di questo processo inevitabile si colloca il rischio della “pedagogia del dominio”? E chi ne sono i responsabili? La reciprocità della dominanza ci appare ineluttabile, si tratta di non trasformarla in dominio coercitivo. E di riconoscere che questo dominio si può nascondere anche nel fine stesso della tolleranza. Considerazione questa piuttosto imbarazzante.
Nel coté filosofico di Maurizi sull’infanzia appaiono indubbiamente tracce del pensiero nicciano: la “volontà” di potenza, segno di una pulsione dinamica illimitata insorge di fronte ai legami pur sempre coercitivi della socialità (di questa si ha bisogno ma la si vorrebbe plasmare e dominare con le più varie astuzie di sentimenti e ragioni man mano che si cresce).  Ma traspare anche il segno di quel decostruzionismo identitario caro a Deleuze, che ha definitivamente affondato nel nonsenso le categorie assolute dell’essere care all’idealismo. La vita continua a sciogliersi nel divenire sociale, nella complessità e nella variabilità di eventi dai molteplici esiti, oppressivi ma anche libertari e per questo l’attrazione e lo scambio possono continuare in un positivo equilibrio/disequilibrio purché…  l’umanità non si irrigidisca in sistemi sociali sopraffattori o falsificatori dei processi stessi di vita. E purché all’accompagnamento leggero, affettuoso, paziente dell’infans verso una sua primaria emancipazione non si sostituisca una ossessiva misurazione/valutazione di artificiosi traguardi di successo.

Leggendo questa parte del saggio, ci sono venuti in mente quei modi del dire quotidiano che implicano i confronti “precoci” sulle competenze di un bambino da parte di  parenti, insegnanti e più genericamente adulti, del tipo: “Il mio bambino ha camminato prima dell’anno!” “Mah, il mio ha parlato tardi…” “Carlo disegna già le casette…” “Mia nipote piange a dirotto se si sporca …” “Il mio mangia come un lupetto” “Ahhh, il mio mi rifiuta la carne” “Non mi parla ancora bene!”, ecc.

Il processo di civiltà -dice Maurizi- è produttivo e progressivo nella misura in cui conduce gli impulsi sregolati sotto l’egida di un ordine centrale, abolendo così la cieca particolarità della natura e rendendo possibile l’universale. Fatale, però, appare tale di­namica nel momento in cui rivela il proprio tratto totalitario e paranoide, negando meccanicamente la possibilità dell’altro attraverso la vuota identità.”

E la citazione ci ha fatto vestire la “vuota identità” dell’oggi con gli abiti non dell’infanzia ma di una adultizzata precocità estetica per le bambine (uso del trucco, abiti succinti, scarpette con il tacco) e agonistica per i bambini (tute, giubbotti e cappellini griffati con le sigle dei club sportivi più famosi) purché si corrisponda al modello di bambino/a dell’influencer mediatico di turno o del campione del momento, perfino nella scelta del nome proprio. E l’alternativa educativa (la diseducazione) a questa pedagogia del dominio che stinge in mercato (la precocizzazione costa di più rispetto all’infanzia di cinquanta anni fa ma alimenta, per esempio, il sistema della moda) dovrebbe essere ritagliata invece sulla lucida consapevolezza da parte dell’adulto educatore dei feticci della sua infanzia. Sentiamo sempre Maurizi:

Occorre allora pensare il bambino, non per misurarlo, ma perché esso possa farci da misura: perché nel momento in cui il nostro interesse si rivolge a lui, come educatori o genitori, è chiaro che ciò che stiamo perimetrando, nell’atto stesso in cui ci interroghiamo, non è tanto chi abbiamo di fronte ma chi siamo noi e come intendiamo atteggiarci rispetto al nostro essere-stati. L’imma­gine del sapere che ne emerge […] è dunque quella di una pedagogia dell’età adulta o di una pedagogia negativa, critica, volta all’e­mancipazione della razionalità pedagogica dal feticcio stesso dell’infanzia che la affligge…
Con l’esito che: Tutto ciò che siamo come sogget­ti umani e razionali si riproduce solo attraverso la rimozione e la squalificazione dell’altro in noi (il corpo, la sensualità, l’animalità, l’inconscio, l’infanzia, ecc.). Tutto ciò che chia­miamo “natura” è un’abbreviazione di tale alterità, ciò che dobbiamo costantemente negare per affermarci come adulti intellettuali-razionali-umani-autocoscienti, ma che non pos­siamo mai veramente distruggere perché esso rimane il segre­to motore dell’intero processo.”

Osservazioni queste che dovrebbero guidarci verso una pedagogia che formi senza deformare, senza mutilare le potenzialità psicofisiche, mantenendo aperta quella verità secondo cui non c’è un percorso riflessivo che dia al soggetto una definitiva stabilità psicologica, un equilibrio permanente della coscienza del sé salvaguardando le memorie in una narrazione stabile.
Per comprovare questa sostanziale e per certi versi ineluttabile contraddizione che domina l’individuo fino al deprecabile svuotamento della sua personalità se la cultura della società in cui vive gli ha forzato le libertà del sé sin dall’infanzia, Maurizi si serve delle riflessioni filosofiche al negativo della scuola di Francoforte riguardo alle radici del successo in Europa della cultura hitleriana, per concludere poi, questa volta in positivo, con un salutare “Dopo Auschwitz”. È questo il capitolo della prima parte del saggio, dove si analizzano, in nome di una “pedagogia del non-identico”, le idee emancipanti di Adorno sull’educazione, in particolare quella che dovrebbe snodarsi attraverso la creatività della musica e delle arti figurative.

Nella seconda parte del saggio “La scuola della crisi” l’autore sposta la sua attenzione sulle questioni dell’educazione scolastica in Italia. Le sue considerazioni sono guidate sia da motivazioni politiche (di una sinistra molto critica anche nei confronti di alcune sue personalità), sia dall’esperienza pregressa di insegnante di Storia e Filosofia.
C’è una premessa implicita allo svolgimento del suo pensiero: la scuola trae il senso del suo esistere dal profilo politico dello Stato di cui è istituzione fondamentale. Essa è pertanto soggetta ai cambiamenti che lo Stato subisce o promuove nel corso della storia e che sono ineluttabili. Infatti le migliori Costituzioni democratiche nate dalla coincidenza di forze politiche certo differenti ma nel momento della loro stesura reciprocamente concordi, non garantiscono la perenne stabilità dello Stato. Nel corso del tempo, le specifiche istituzioni che lo strutturano e sorreggono possono subire profonde modifiche essendo cambiate l’economia, la politica, la cultura, la società del periodo fondativo. Queste rotture, tuttavia, possono portare a ridimensionamenti salutari della rigidità dello Stato stesso, indebolendone la pervasività nei confronti dei cittadini e aprendo in loro orizzonti reattivi di protesta e ribellione.
É la teoria marxiana della rigenerazione attraverso l’effetto di scardinamento delle contraddizioni, di cui possiamo vedere per il momento le conseguenze paradossali di chi finora ha tentato una razionalizzazione. Infatti, anche un eccesso di specializzazione può essere il segno di un dominio negativo delle istituzioni, che semplificano in stereotipi angusti principi e valori universali togliendo loro densità e mobilità storica.  Ed è questo il fenomeno di costruzione/decostruzione che sta capitando anche alla scuola italiana, dove da tempo e, nonostante un accanito riformismo neoliberale di vario colore politico, lo scollamento tra se stessa come istituzione, le sue componenti interne, in primis studenti e insegnanti, e la società all’esterno, è molto forte. Che fare allora?

Non ci sembra che Maurizi creda a un anno zero della scuola in cui essa possa risorgere dalle ceneri della sua crisi per un prodigioso intervento auto riformatore grazie ad anticorpi culturali e pedagogici interni al suo essere scuola pubblica.  La scuola non è l’araba fenice del mito e la sfiducia di Maurizi su una possibile  autogenerazione rifondatrice poggia su due questioni: le forze politiche che attualmente la governano o la vorrebbero governare o vorrebbero tornare a farlo sono inadeguate; la scuola è di per sé “inattuale”, contraddittoria, mutante. É lo stare insieme stesso di tanti soggetti differenti per età, formazione, carattere, a riplasmarsi disperdendo gli sforzi di una sua organica e salda strutturazione. L’inclusione -e questo è un pensiero che condividiamo- se da una parte è un principio universale di altissimo valore etico culturale, dall’altra, nella sua realizzazione non può che comportare una complessità educativa continua, una instabilità permanente.

Molto incisive (e anche inconsuete) ci appaiono le osservazioni di Maurizi anche sul profilo professionale dell’insegnante, delineato al “negativo” per evidenziare la positività destabilizzante del suo lavoro. L’attacco che oggi si fa alla inadeguatezza culturale dell’insegnante, alla sua passività di fronte a un lavoro sempre più frammentario e burocratico, gli sembra essere l’effetto (e non la causa) della mancata realizzazione del ruolo, assai caro alla sinistra, ma in fondo anche alla destra, di mediatore didattico della complessità. Entrambi gli schieramenti caldeggiano in un certo senso un sistema didattico “forte”.  Ma dov’è il perché di questa sconfitta? Maurizi pensa di individuarlo nell’inseguimento di una politica scolastica a cui ormai manca il sostegno della cittadinanza. È caduta l’immagine magico sacrale dell’insegnante “missionario”, nel senso di chi dovrebbe giustificare qual­siasi suo sacrificio personale (anche finanziario) con “un fine più alto e nobile”. E questa caduta oggi viene rinfacciata a mo’ di feticcio ideale proprio da chi si è reso più disponibile a sostenere il tecnicismo pedagogico.
La visione di Maurizi è dunque laicamente impegnata, ma non tale che per l’insegnante si possa oggi propugnare il ruolo di un Maestro carismatico, almeno rimanendo “dentro” e muovendosi a favore di una società della globalizzazione, che gli appare così profondamente illiberale verso ciascun individuo, da far partire proprio dall’infans la colonizzazione delle libertà personali e di parola. L’iper-pedagogia e le questioni di “cura” su protocolli di dominio (qui traspare anche lo scetticismo di Michel Foucault) si sono diffuse insieme con l’iper-tecnologia, anzi quest’ultima si sta sostituendo all’insegnante in carne e ossa e quindi alla relazione educativa faccia a faccia.
E se per caso un giovane incontrasse un Maestro, riuscirebbe ad avvalersi della sua azione illuminante? La risposta è negativa, a meno che il giovane in questione si fosse già reso uno spirito libero in grado di non subire la dominanza. Maurizi ammette che se fosse dovuto tornare a insegnare avrebbe avuto anche lui problemi di comunicazione con studenti che sono molto cambiati, ma indica una via che in un certo senso è stata da lui percorsa nella prima parte del saggio: dovrebbe essere il giovane a motivare l’insegnante con le sue esigenze, con le sue domande, anche con le sue sfrenatezze. E l’insegnante dovrebbe essere consapevole del portato e dei limiti “storici” della sua formazione e accettare di “diseducarsi” anche lui, mettendo in discussione a questo punto quella “pedagogia del Dominio” alla quale è stato sottoposto a suo tempo, magari anche con risultati positivi nel passato.

Un ritorno al ’68? Sì e no. Sì, perché la centralità del giovane è chiaramente ribadita, insieme con una forte istanza di futuro, che dovrebbe liberarlo dal conformismo e dagli stereotipi. No, perché Maurizi non individua in questo momento una forza ideale nella scuola in grado di imporsi anche all’esterno: la società non le permette di esprimersi se non attraverso rigide prescrizioni organizzative e di controllo, con un eccesso di comandamenti pedagogici, con l’ossessione del risultato inteso come prodotto da valutare alla pari di una merce di scambio. Se la società italiana, come sta accadendo, versa in una crisi democratica e di valori etici universali particolarmente forte, non è la scuola, pur con nobili sforzi, a poterla cambiare. Oltretutto, come abbiamo sopra detto, la pluralità e la differenziazione dei suoi utenti la rende in un certo senso permanentemente fragile e, nel caso che il sistema politico esterno risulti inadeguato a rinforzarla e oppressivo, allora nulla potrebbe essere più positivo per essa che una sorta di paradossale resistenza interna a ogni sua ri-definizione. Perché: "Di nulla questo sistema ha più paura che di un luogo che si astrae, e sia pure illusoriamente, dai rap­porti sociali vigenti e in cui valgano altre tempi, altre leggi, al­tri principi, altri valori. Non perché questi tempi, queste leggi, questi principi e questi valori siano buoni di per sé (tutt’altro), ma perché disegnano una cornice ove è possibile pensare quei saperi e quei rapporti secondo altri parametri e praticare un’universalità diversa dalla globalizzazione del mercato che condiziona interamente le vite di docenti, studenti e famiglie appena mettono piede fuori dall’i­stituzione scuola. [… La sua inattualità è qualcosa che va salvaguardato non per il passato che rappresenta e che ha contribuito a realizzare, ma per il futuro che si nasconde nelle sue pieghe e nelle sue ferite. Chi immagina un’educazione che funzioni senza l’elemento del negativo ha completamente interiorizzato il modello della macchina e ce lo spaccia per l’immagine della libertà."
Le migliori riforme della scuola tra gli anni Sessanta e Ottanta del Novecento furono dovute a una società che spingeva la politica al cambiamento. E la politica era organica alla società. Oggi Maurizi non crede al fatto che l’insegnante possa esercitare facilmente la sua professione in modo “disinteressato”, vale a dire nell’ordine della libertà di pensiero e di creatività che spetterebbe al suo ruolo di intellettuale. Un ruolo per altro ambiguo, perché l’insegnante è pur sempre un pubblico dipendente pagato dallo Stato, per il quale svolge i programmi educativi decisi dalle politiche di governo.
Né crede che l’insegnante, come ricercatore di significati e prospettive “aperti” possa sempre attirare il consenso degli studenti verso una visione pacificatrice e appaciante dello Stato. Ma non ritiene neanche accettabile l’atteggiamento di alcune voci di riformatori di aree politiche diverse[2]  che sono all’apparenza in contrasto tra loro, ma in realtà accomunati da un medesimo pregiudizio: poter fare una “diagnosi” neutrale dello stato dell’istruzione pubbli­ca in Italia, dimostrando di riuscire “a nascondere “le “simpatie” e “antipatie” rispetto ai modelli pedagogici vigenti”. Infatti, come precisa Maurizi, una diagnosi oggettiva dei problemi della scuola dovrebbe presupporre anche una risposta alla loro risoluzione o basarsi sulla valorizzazione del senso della sua esistenza entro uno Stato costituzionale che per esistere e funzionare si è impegnato a sua volta per la libertà e l’uguaglianza dei suoi cittadini.

Le domande più pregnanti allora potrebbero essere: rispetto a quale/quali modello/i di Stato la scuola è in crisi? Quale significato la società attuale continua ad assegnarle rispetto al passato? Se l’istituzione della scuola pubblica è motivata dall’art. 3 della Costituzione, perché non si riesce a soddisfare pienamente le sue richieste, a difendere i valori universali di libertà, uguaglianza, ecc.? Qual è, come si chiede anche Maurizi, “un senso generale di quello che dovrebbe essere lo scopo, la finalità intrinseca e sociale dell’istruzione nel suo complesso”?
L’ultima questione ci appare di rilevante importanza, perché la cultura digitale sta mettendo a rischio la stessa persistenza di una scuola reale sia pubblica che privata. Basti pensare alle università telematiche a pagamento che riescono a scavalcare ogni riflessione sulla complessità dei saperi e sulle finalità della ricerca, per formare laureati idonei alle specializzazioni richieste dal sistema economico e produttivo del momento molto “meglio” e più in fretta dell’Università in presenza. E sono pronti anche pacchetti di prodotti della IA che finiranno per dissolvere la figura del Maestro, con buona pace delle sue funzioni pedagogiche più o meno liberatorie e rispettose dell’infans: che è a sua volta sempre più recalcitrante sia rispetto ai protocolli della pedagogia del dominio che a quelli della cura, e ci appare sempre più alla ricerca di evaporazioni culturali in un altrove sovraccarico di Avatar e realtà aumentata.

Ma qualche scintilla di malessere sarebbe salutare per lui, se gli adulti gliela lasciassero percepire senza i filtri edulcorati delle buone promesse di principio o le minacce securitarie. Noi pensiamo infatti che a forza di distinguo civilissimi, di analisi storiche sempre più complicate, di richieste di pause e tregue politiche interlocutorie, di letterature e letture consolatorie, di ciarle massmediatiche strampalate e ripetitive, di paure ossessive, evaporano proprio le immagini più scomode e dirette della realtà: povertà, violenza, degrado, razzismo, guerra.

Note

[1] Ecce infans ci ha richiamato in mente l’Ecce homo con cui l’arte religiosa cristiana presenta l’immagine di Cristo torturato e insultato durante il suo cammino al Calvario.

[2] L’autore cita due saggi sulla scuola italiana ritenuti comunemente da autorevoli commentatori come i portavoce di due opposte tendenze riformatrici. Si tratta di P. Mastrocola, L. Ricolfi, Il danno scolastico. La scuola progressista come macchina della disuguaglianza, La nave di Teseo, Milano 2021; e di Christian Raimo, L’ultima ora. Scuola, democrazia, utopia, Ponte alle Grazie, Milano 2022.  Maurizi non lesina critiche a entrambi i saggi, che a suo parere sono accomunati dalla tendenza a non prendere le distanze da quella società neoliberista che di fatto ha prodotto l’attuale degenerazione della scuola. I primi vorrebbero riqualificarla ottimizzando la cultura classista di origine gentiliana e spacciando per merito l’affermazione di pochi all’istruzione “alta” di cui comunque il sistema ha bisogno; il secondo peccherebbe di un pregiudizio anacronistico e di presunzione politica,  pensando da una parte di rinforzare la scuola con misure di principio che si sono affermate nel secondo Novecento perché organiche ai valori della società dell’epoca e alle politiche che la sostenevano; dall’altra, proprio perché non vedrebbe la contraffazione di certi ideali da parte di una sinistra che da Luigi Berlinguer in poi di fatto si è posta nel solco del neoliberismo, sarebbe convinto che la scuola così rinforzata sarebbe addirittura in grado di rinnovare la società italiana attuale.

 

Marco Maurizi
 

"Ecce infans
diseducare alla pedagogia del dominio"


Novalogos 2024

 


pp. 160, euro 15,00

 

Scrive...

Rosanna Angelelli Di formazione classica, già insegnante di materie letterarie nei licei, è stata per anni redattrice di "insegnare".