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letture allo specchiodopo scuola

10/08/2013

Norberto Bottani, "Requiem per la scuola?"

di Fabio Fiore - Giacomo Mondelli

Requiem per la scuola? di Norberto Bottani è uno di quei libri che sembra scritto apposta per suscitare reazioni forti e giudizi contrastanti.

 Non solo per la tesi da cui prende le mosse: la scuola pubblica in tutto il mondo occidentale non è riuscita ad assolvere al compito storico e istituzionale di garantire una acculturazione diffusa e quindi di contribuire a una maggiore giustizia sociale.  O per il giudizio a tratti impietoso sulle condizioni attuali della scuola italiana. E neppure soltanto per l’attenzione che dedica  (per altro in modo dialettico) a un tema, il merito, salvifico e strategico per alcuni, stucchevole e proditorio per altri.

insegnare ha affidato le “letture allo specchio” del libro di Bottani a Fabio Fiore e Giacomo Mondelli,   che ne propongono due analisi almeno in parte giustamente divergenti.


E invitiamo i lettori, che lo desiderano a intervenire: l’argomento è di quelli che non va lasciato cadere. Chi desideri farlo scriva a redazioneinsegnare2010@gmail.com  ; oggetto: requiem per la scuola.

La vera provocazione sta nell’ipotesi avanzata alla fine del libro: ovvero che, stando così  le cose, allora tanto varrebbe arrendersi e chiudere... E come ogni proposta di descolarizzazione, anche questa scatena anzitutto la difesa d’ufficio della funzione democratica della scuola, ma anche la consapevolezza del compito impari che una società eticamente e culturalmente sempre più disgregata e disgregante le affida. E soprattutto ci impone di interrogarci nuovamente su quale sia, davvero, oggi la sua funzione.
E allora… è giusto leggerlo e… reagire, aprire la discussione, avanzare dubbi, domande, ulteriori provocazioni...

 

 

No future?

di Fabio Fiore

 

Nello scrivere queste note sull’ultimo libro di Bottani, Requiem per la scuola? Ripensare il futuro dell’istruzione, devo ammettere una vaga perplessità. Ne condivido quasi del tutto la pars destruens: la scuola pubblica, o meglio, una certa idea di scuola pubblica, è probabilmente al tramonto. Mentre la pars construens non tanto o non solo è poco condivisibile, ma proprio non la trovo, non la vedo, insomma non c’è: l’unica scuola pubblica futura rintracciabile nelle pagine del testo è precisamente quella stessa scuola di cui si preannuncia la fine, con la sua formidabile – tutta burocratica – capacità di resistenza, di persistenza. Forse è il titolo scelto (Dall’editore? Dallo stesso autore?) a ingannare, a deludere le aspettative che di fatto alimenta: forse sarebbe stato più prudente rovesciarne l’assunto e l’interrogativo, intitolarlo, che so?, De profundis. La scuola pubblica ha un futuro? Vediamo.

La pars destruens consiste nel minuzioso ritratto dei tanti volti di una disfatta. Mi limito a un elenco sommario: la scuola «frana», è segnata da «un degrado complessivo», da una generale «carenza di idee, principi, pratiche, di visione prospettica», da «impotenza educativa» (p. 19, p. 22); la scuola «annaspa» perché il modello di civiltà a cui continua a far riferimento «è in via di liquidazione» (p. 48), perché sono saltate quelle connessioni con la società circostante che la rendevano «efficace e indispensabile» (p. 44), perché nonostante la scomparsa del mondo (agrario/industriale, statale-nazionale) per cui era stata pensata, l’impianto di base, il modello (aule, classi, orari, registri) «è rimasto pressoché intatto» (p. 22); più in generale, la scuola non ha mantenuto le sue promesse: si è rivelata incapace quasi ovunque (con le eccezioni, non riproducibili, della Finlandia, della Corea, di alcune province canadesi) di ridurre le diseguaglianze relative all’istruzione, e ovunque, senza eccezioni, di  incidere significativamente su quelle socio-economiche (a ciò, Bottani dedica tutta la seconda parte del libro, pp. 65-135). «Retaggio di un mondo ormai scomparso»,  i sistemi scolastici attuali sono a tal punto complessi, ipertrofici, costosi, inefficienti e iniqui da far dubitare che valga ancora la pena tentare di porvi mano. Quanto agli insegnanti, in chiara crisi di vocazione, non si sa più bene che farne, «come formarli, quanti ne occorrono, quanto remunerarli, come valutarli, come sostenerli». E poi, per «insegnare cosa?», «per educare a fare cosa?». Di qui, la diagnosi infausta: «con tutta probabilità, si è giunti al capolinea di un programma di gestione dell’organizzazione scolastica e degli studenti che ha avuto come modello, a livello di massa, l’organizzazione militare»; di qui, l’istruzione come «opzione negativa»: se si continua ad andare a scuola è soltanto perché «non c’è altro» (p. 46).

Tutte cose condivisibili ma non certo nuove. Le osservazioni di Bottani sugli «effetti iatrogeni» di una scuola che non cessa di espandersi mentre collassa, mi ricordano un passo di un vecchio libro di Riccardo Massa (Cambiare la scuola, Edizioni La Terza, 1997), che paragonava l’agonia del «dispositivo disciplinare» all’erpice di un racconto di Kafka che, «invece di scrivere la colpa e la punizione nella carne del condannato, lo trafigge stupidamente diventando inutile e innocuo, incapace di qualunque lavoro sul corpo e sulla mente». Se non che, in un libro che si ri-promette di ripensare il futuro dell’istruzione, Bottani non sembra rendersi conto che se oggi possiamo sperare di cambiare la scuola – e forse persino di riappropriarci di tutti quegli elementi innovativi che si illudevano di trasformarla senza porre mano alla sua struttura latente – è proprio perché quel dispositivo si è inceppato e disfatto definitivamente.

Non manca, a dire il vero, qualche cenno in tale direzione, per esempio nella timida rivalutazione della autonomia – per riassumerla in un enunciato: proviamo a ripartire dai contesti (dal territorio), dai suoi attori (studenti, insegnanti, dirigenti, famiglie), dai loro bisogni culturali concreti. Ma sono pochi cenni. Forse perché ossessionato dall’esigenza di dimostrare che l’equazione “meno soldi alla scuola meno eguaglianza ed equità” non è che un mantra, Bottani finisce per restare incagliato nel presente, per sostare in modo pressoché esclusivo sulle formidabili capacità autoimmunitarie degli apparati. Di qui, la riproposizione di schemi logori (scuola pubblica vs. scuola privata), il civettare con i fautori della descolarizzazione (salvo poi concludere che «non esistono prove» sul fatto che l’autoapprendimento possa produrre maggiore efficienza ed equità), l’uso scontato di categorie che oggi scontate non sono (Essere trattati in modo eguale basta a essere trattati come eguali? Lo statale può oggi esaurire il pubblico nell’era di Mediapolis?); più in generale, la tendenza a leggere la crisi (quasi) sempre come catastrofe e (quasi) mai come opportunità.

Certo, ha probabilmente ragione Claudio Giunta quando, nella sua recensione su “Il sole 24ore” (vedi in www.claudiogiunta.it), invita a cercare altrove il Bottani aperto al possibile e al futuro, sulle pagine del suo ottimo sito (www.oxydiane.net). Ma qui, in questo libro, il passato non è che un cumulo di macerie, il presente una lenta agonia, il futuro un buco nero. Un requiem per l’appunto, senza contropartite mozartiane.

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E basta con i funerali alla scuola (pubblica)!       

di Giacomo Mondelli

 

Annotazioni e interrogativi a margine

Anche Norberto Bottani sta provando a fare, con questo volume, il funerale alla scuola pubblica. Parliamone.  
Innanzitutto, una annotazione di carattere generale: da uno studioso dei sistemi scolastici mi sarei atteso maggior ordine espositivo e argomentativo, più dati certi e meno slogan e  salti geografici (tra l’Italia, l’UE e il mondo ) e logici.

Tocca, ora, riportare la sua tesi principale : “... i servizi scolastici pubblici avranno una ragione di essere solo se riusciranno a eliminare le discriminazioni sociali rispetto all’istruzione”. La conseguenza che ne deriva  è la seguente: “ La scuola dell’obbligo si legittima solo se garantisce a qualsiasi membro della società il conseguimento di una base comune di conoscenze e competenze. Altrimenti sono condannati a scomparire perché non giustificabili”. Ragioniamo.  
Tra l’altro, purtroppo, è storicamente provato che non sempre basta che una istituzione non funzioni perché scompaia (basti pensare alla qualità del nostro Parlamento...); non è neanche detto quindi che  il - presunto - fallimento della scuola ne provochi la sua sparizione.

Entrando, poi, nel merito specifico della tesi, viene spontaneo chiedersi se si ritiene che la ragion d’essere dei servizi scolastici sia  “l’eliminazione” delle discriminazioni sociali rispetto all’istruzione, oppure se non sia più onesto e opportuno puntare sull’intenzione, sull’impegno, sul tentativo sempre più convinto ed efficace di conseguire - progressivamente - quel risultato?
Personalmente propendo per la seconda soluzione. Anche perché non mi va di azzerare quanto si è realizzato su quel fronte  a livello italiano ed europeo, come per esempio: l’alfabetizzazione di base della generalità dei cittadini, le pari opportunità di studio garantite alle femmine rispetto ai maschi, la progressiva azione di inclusione scolastica  dei soggetti diversamente abili,  l’estensione del ciclo di istruzione obbligatoria, l’accesso generalizzato alla scuola secondaria di II grado e le sempre maggiori opportunità di conseguire il relativo titolo di studio, la maggiore partecipazione alla frequenza degli studi  universitari, ecc. E questo, ritengo abbia avuto un suo significativo valore anche nella promozione delle competenze di base poste da Bottani a “indicatore” decisivo, non tanto dell’efficacia della scuola, quanto della sua medesima esistenza.

Un ulteriore interrogativo, forse, ancora più di fondo, porgerei cauto a  Bottani:  Se anche ammettessimo che i sistemi scolastici nazionali sono nati davvero per svolgere tale compito prioritario, perché, mentre tutto cambia,  quello dovrebbe rimanere il medesimo,  nel tempo,   e non pensare invece che si sia, in realtà, modificato e ancora si vada modificando,  in relazione ai contesti sociali, culturali e politici, alle congiunture  economiche,  ai diversi momenti storici e a causa anche dello stato e delle emergenze della conoscenza, della scienza e, oggi in particolare,  della tecnologia?

Pur con i suoi notevoli limiti, con le sue innegabili inadeguatezze (di carattere “abitativo”, formativo, didattico, professionale, ecc.),  persino con le stesse disuguaglianze che la scuola ha attuato nel corso degli ultimi cinquant’anni,  comunque è indiscutibile che abbia  promosso - specie in Italia - una serie di processi oltremodo qualificanti che ha, poi, contribuito direttamente a far diventare patrimonio dell’intera comunità sociale.

Ricordiamo, tra gli altri: una più forte e attenta “cultura dell’infanzia”, una maggiore sensibilità a favore dei più deboli e bisognosi, una forte spinta all’accoglienza,  un deciso riconoscimento delle diversità e la conseguente attenzione a predisporre  cure educative differenziate, l’attenzione agli universali interessi del pianeta, una continua azione di educazione alla legalità e alla cittadinanza attiva, la forte ispirazione alla non-violenza e alla pace, ecc.

Ebbene, a questa elencazione, fa seguito una domanda: Se questi sono effetti positivi derivati dall’azione della scuola a vantaggio dei suoi “abitanti” e nei confronti della comunità, a quale ambito/settore di risultati vanno ascritti?  E, ancora, da questa domanda scaturisce un’altra: Perché non considerarli degni di dare fondamento e “rinnovato” senso all’azione della scuola?

La mancanza di buoni maestri

 Una delle cause, secondo Bottani, del perdurare della disuguaglianza nel campo dell’istruzione è costituita dalla bassa percentuale di buoni maestri. Se tanto corrispondesse al vero, sarebbe grave, anzi gravissimo. Invece, non è così: basti soltanto  considerare  quanto di buono hanno realizzato e realizzano gran parte degli insegnanti della scuola dell’infanzia e primaria (e le famose rilevazioni internazionali lo hanno pure  certificato!).

D’altronde, non è assolutamente da poco conto neanche il contributo formativo offerto da un  buon numero di docenti delle scuole secondarie di I e di II grado, nonostante le problematiche condizioni nelle quali hanno dovuto effettuare il loro intervento (rigidità dell’impianto curricolare e organizzativo, frammentazione disciplinare, scarsa “preparazione” psicologica, educativa e didattica al mestiere dell’insegnante, ecc.). Ma se anche ammettessimo che il severo giudizio di Bottani  fosse giusto  e se, di più, si ritenesse che la debole azione formativa dei docenti potesse  effettivamente costituire una delle cause della disuguaglianza, da tutto questo non deriverebbe necessariamente la conclusione dell’impossibilità di risolvere il problema della disuguaglianza. Basterebbe - nel senso che occorrerebbe - intervenire sugli insegnanti e risolvere il problema! In realtà, lo sappiamo bene, che per quanto si sia concordi sull’importanza del ruolo del docente, non possiamo, però, attribuirgli  la responsabilità unica dell’incapacità di eliminare la disuguaglianza scolastica. C’è ben altro in gioco!

A questo punto, Bottani rincula affermando che, in realtà “l’uguaglianza sociale non è un obiettivo pertinente al servizio scolastico pubblico … e che sarebbe già un grande successo realizzare l’uguaglianza scolastica di base”  e, cioè, l’acquisizione, al termine dell’istruzione obbligatoria, di un insieme di conoscenze e competenze comuni, uguali per tutti. E qui, per una volta, si potrebbe essere d’accordo con lui, anche se si rischia di dimenticare che qualche contributo al miglioramento delle condizioni generali di uguaglianza sociale la scuola  - persino da quella italiana – com si è detto lo ha pur fornito!

Entri nelle scuole, viva con i ragazzi!

Proseguendo nella lettura, ho fatto poi un po’ più  fatica a controllare la mia irritazione quando ho letto  che “… L’operazione di educazione ai valori nobili non è riuscita…”. E l’autore lo afferma con tanta sicumera! Ma non è che sta scherzando, prof. Bottani?  Perché se no, le chiederei, ma dove vive? dove è stato? ha mai insegnato ai ragazzi di ieri e a quelli di oggi? ci ha parlato? le hanno raccontato qualcuna delle loro esperienze di vita? E, soprattutto, si è mai chiesto: “Cosa ne sarebbe stato di quei bambini, di quei ragazzi, di quelle persone, di noi, delle nostre società ( in particolare di quella italiana  così tanto intrisa dei cosiddetti disvalori della contemporaneità) senza l’intervento della scuola?”. Quando, come qui da troppo tempo e troppo impunemente,  imperversano antagonismi, conflitti, violenze,  determinati dalla  voglia di primeggiare, dal desiderio di possedere, da spinte compulsive al consumo, dalla volontà ossessiva di apparire. Invece,  l’opera educativa della scuola, anche qualora si realizzasse attraverso o anche come “parcheggio per le famiglie e per la società” -  da lei così vituperato -, quantomeno è servita e serve a porre un argine a questi fenomeni, a offrire, talvolta, anche degli antidoti a questi veleni, a rallentare la velocità e, quindi, l’urto dell’impatto che provocano, se non a far imballare il loro motore.

Lo sappiamo bene, ce l’ha insegnato soprattutto Neil Postman (in Ecologia dei media e anche in La scomparsa dell’infanzia ), la scuola “deve” volere e saper andare in controtendenza rispetto alle tendenze della società, specie a quelle più nefaste ed è chiamata a esercitare un’azione di termoregolazione della vita dei soggetti che le sono affidati e, perciò, della società intera!

 Alla fine, a fronte di tanta insipienza oramai quasi “costitutiva”  dei sistemi scolastici nazionali (il “quasi” è determinato da due eccezioni, i sistemi scolastici finlandese e coreano - un pensiero, di passaggio: ma se quelli funzionano, vuol dire che qualche speranza c’è anche per il resto del mondo... o no?-) e forse allo scopo di non deprimerci/deprimersi ulteriormente, Norberto Bottani, finalmente, fa una proposta “risolutiva” dell’attuale condizione: eliminare il sistema scolastico anche perché si può imparare anche senza andare a scuola!

 A tale conclusione, il Bottani giunge incrociando  i contributi di: Peter Sloterdijk  (la scolarizzazione universale non ha prodotto società migliori);  Ivan Illich  (dato che la scuola è fallita sotto il profilo dell’acquisizione generalizzata di un bagaglio minimo di conoscenze  e della democratizzazione della società è meglio mettere a disposizione di tutti le risorse altrimenti spese per l’istruzione pubblica - come del resto sta avvenendo negli USA con la diffusione dell’istruzione domestica-); Sagata Mitra (il personal computer nel villaggio e l’autorganizzazione e la cooperazione spontanea nell’apprendimento) e, infine, Anne Barrère (se la gran massa degli studenti si forma fuori e se le prove sociali sono altre da quelle scolastiche, tocca riformulare di conseguenza l’azione educativa e formativa).

 A questo punto mi fermo, non commento la scelta, così autorevolmente sostenuta. Dico solo che ho insegnato e  sono stato dirigente scolastico in scuole situate in quartieri popolari e parecchio degradati (a Torino come a Bari) e non ho mai pensato, neanche per un attimo di lasciare fuori dalla scuola le bambine e i bambini che li abitavano.

E vorrei che si continuasse a fare così!

 

Norberto Bottani, 
REQUIEM PER LASCUOLA?
Il Mulino, Bologna, 2013, pp. 152, euro 13,00

Scrivono...

Giacomo Mondelli prima docente e poi dirigente scolastico in ordini di scuola diversi, attualmente nella scuola secondaria di II grado.

Fabio Fiore docente di filosofia e storia nei licei; fa parte della Segreteria del Cidi Torino