La notizia è passata fugacemente: Francesca Albanese, giurista italiana, specializzata in relazioni internazionali e diritti umani, da anni rapporteur speciale delle Nazioni Unite sui territori palestinesi occupati, non ha ottenuto dal governo di Tel Aviv il permesso di entrare in Israele, perché giudicata "antisemita". Persona sgradita al regime.
Da cosa nasce questo divieto? Ebbene, persino nell' isterico e sfiancante dibattito post-sanremese, dopo una generosa frase di Ghali, è tornata dominante l'incomprensibile semplificazione per cui parlare dell'eccidio dei palestinesi in atto a Gaza e a Rafah, con 28.000 vittime di cui più del 70% donne e bambini, o denunciare con dati alla mano come inaccettabile la spropositata reazione di guerra del governo ultraradicale di Israele, definendola “genocidio”, significa avercela con gli ebrei, indipendentemente dagli strumenti di analisi che si usano; nel caso di Albanese, questi strumenti sono l'approfondita conoscenza del diritto internazionale e della storia passata e recente dei territori occupati e di Gaza, e l’analisi è indubbiamente qualificata.
Infatti, e non è un caso, “J’accuse” è un libro che non ha trovato alcuno spazio nei dibattiti televisivi, nonostante l'autorevolezza della casa editrice (RCS) e e dell'autrice, che è proprio Francesca Albanese: un libro-intervista, pubblicato lo scorso novembre, che qualche chiave di lettura su quel che sta accadendo ce la fornisce, se siamo disponibili a vederla. Il volume è uno strumento per orientarsi in un dibattito pubblico ormai "drogato", perché analizza e riprende dal passato alcuni inconfutabili aspetti della questione arabo-israeliana, come la violenta occupazione dei territori colonizzati o la questione irrisolta dei due Stati.
Il libro della Albanese finisce per ricordarci che Israele e Palestina parlano a tutti noi ogni giorno, e non solo dal 7 ottobre: ci parlano per ogni anno che si è fatto passare dal 1948 senza impedire la violazione del diritto internazionale e umanitario.
Il volume, diventato dopo il 7 ottobre inevitabilmente un instant book, ha un altro pregio: usare per la sua ricostruzione SOLO e sempre lo strumento del diritto. Non l'opinione, la diffamazione di parte, la violenza ideologica e settaria.
La relatrice riferisce, attraverso sette capitoli, sette parole-chiave, quanto ha visto in terra palestinese da anni in ragione del suo incarico per l’ONU, senza per questo giustificare o minimizzare l'orrore di quel giorno terribile, dell'attacco terroristico di Hamas da cui origina l'attuale brutale massacro di un popolo.
Un aspetto interessante dell'intervista è che vi trova finalmente luce, in uno dei capitoli più intensi, il concetto di "disumanizzazione" con il suo significato di violenza epistemica e anche linguistica. Trattare in modo disumano i civili palestinesi lasciati senza acqua, cibo, elettricità, benzina, possibilità di rifugio (l'attacco a Rafah chiude infatti il cerchio) è molto più che una strategia di guerra difensiva e legittima; è un teorema: i civili palestinesi sono, agli occhi dell'ultradestra che governa Israele (e non solo...), "colpevoli" del 7 ottobre, perché coinvolti consapevolmente da Hamas, contro cui non si sollevano. Da questa posizione discende il corollario secondo cui il loro sterminio non deve suscitare lo stesso orrore delle vili azioni di Hamas. Anzi. Questo teorema che identifica un intero popolo con una parte, peraltro non maggioritaria, lo ritroviamo in altri contesti analoghi, dove c’è necessità di una narrazione polarizzante: come se si identificassero tutti gli italiani con il governo postfascista della Meloni, tutti i napoletani con qualche banda di camorristi (ops, talvolta càpita..), e tutti gli ebrei del mondo con Netanyahu (che è appunto l'assunto illogico da cui siamo partiti).
Questa identificazione di comodo, sia chiaro, favorisce la disumanizzazione, da qualunque parte essa provenga. E, sottolinea l'Albanese, rende possibile dimenticare che la striscia di Gaza è la più grande prigione a cielo aperto del mondo da molti anni, da decenni.
Un ulteriore elemento, scomodo da rammentare: la legge dei grandi numeri ci dice che delle 28.000 vittime palestinesi che oggi contiamo, aggiornabili di ora in ora, solo una parte (al massimo 6-7000) è costituita da maschi. Se di questa parte, volendo esagerare, addirittura un terzo fossero combattenti e terroristi (e così non è), si stanno affamando, sterminando e mutilando un 90% di civili senza una ragione, se non quella di seminare ancor di più l'odio perché diventi eterno... E i dati numerici non sono sovrastimati: la conta dei corpi recuperati e dei feriti (oltre 50.000) viene dall'esercito di Israele, non da Hamas.
Un'altra tragica verità contenuta nelle pagine di “J’accuse”, nel capitolo intitolato “Apartheid”, è che tutto il mondo ha la grave responsabilità di non aver smantellato un sistema di segregazione dura e violenta nei territori occupati, praticato dal governo israeliano verso i palestinesi. Da questo sistema sono stati favoriti oggi i terroristi di Hamas (come ebbe modo di notare persino Guterres), i cui crimini efferati e brutali sono stati doppiamente armati e che Albanese più volte sottolinea, proprio per non giustificarli.
Ma, come la storia ci insegna, il terrorismo è un metodo, sancito come illegale nel diritto internazionale, che non ammette reciprocità. Nessun governo democratico può comportarsi da terrorista. Nessun governo, benché suprematista come quello israeliano, può ergersi contro il diritto umanitario internazionale e riscriverne le leggi.
E nemmeno i nostri media possono farlo. La violenza epistemica si conserva anche nelle pieghe del linguaggio, quando diciamo "xxxx palestinesi uccisi" e non diciamo da cosa, o da chi; viceversa, va detto, dei terribili crimini commessi il 7 ottobre sappiamo tutto, anche i più atroci e barbarici particolari. Sottacere il complemento d'agente, o non usare le parole che andrebbero usate per definire il massacro, la privazione dell’indispensabile per la sopravvivenza, la brutalizzazione di decine di migliaia di donne e bambini è una forma di violenza linguistica e culturale che talora ci sfugge. È corruzione del linguaggio, quindi catastrofe intellettuale e cognitiva.
Questi ed altri i contenuti di un libro che, comunque la si pensi, va letto e fatto leggere...a tutti, anche discutendone con gli studenti in modo critico-costruttivo. In un momento difficile in cui persino chi è deputato a dire la verità, come i media di informazione, mente o la omette e la confonde, insegnare a riflettere sull'uso delle parole, la loro semantizzazione, le modalità della narrazione appare oggi responsabilità che ricade sulla scuola, specie se si intende parlare anche del presente della parola, come diritto da rivendicare. E per far questo il nostro primo compito da educatori è impedirne il fraintendimento.
Il J’accuse di Francesca Albanese non è affatto un libro anti-semita: sarebbe come accusare Zola di aver scritto il suo da filosemita, osserva nella brillante post-fazione Roberta De Monticelli. Nel palcoscenico del dibattito pubblico bisogna smettere di pensare che l'altro, si chiami Ghali, o Dargen D'Amico, o Guterres, o Francesca Albanese, per non citare il tribunale dell'Aja, sia un giustificazionista antisemita se invoca la fine del massacro: perché è proprio la polarizzazione amico/nemico che riduce le società democratiche e liberali a tribù.
"La verità prima di tutto", era l'incipit del libello di Emile Zola. Rendiamole il giusto onore, alla verità, anche in memoria delle decine di giornalisti uccisi nell'ultimo ventennio di conflitto arabo-israeliano (quasi 50) che sono morti proprio per raccontarla.