Stralciamo da un articolo di riflessione professionale su un attività di comprensione del testo e scrittura la parte relativa alle considerazioni di un allievo e una allieva sul senso della scuola.
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Il fine della scuola, ovvero “A cosa serve un prof?”
Veniamo infine alla questione più importante, che trascende ampiamente i problemi relativi alla comprensione del testo, per coinvolgere invece il senso stesso della scuola e il suo ruolo sociale.
Il testo da comprendere e commentare poneva una questione di fondo, richiamata anche dal titolo: “A che serve il Professore?”. Anche se nel testo la questione è ricondotta all’antagonismo con i social e al rapporto fra quantità delle informazioni (ampiamente e maggiormente disponibili fuori dalla scuola) e qualità delle capacità di selezione e interpretazione (prerogativa invece della scuola), è sintomatico come agli occhi di allieve e allievi, la questione assuma una valenza più generale. E finisca col coinvolgere una domanda sempre più ricorrente e oggi, forse, particolarmente drammatica.
In tal senso sono estremamente interessanti due fra le risposte fornite in sede di commento.
Scrive Lucio (nome di fantasia), uno degli allievi:
L’allievo è talmente convinto di questa sua opinione, frutto di sue personali convinzioni o di discussioni familiari, da attribuirla al testo stesso. Per farlo vincola la possibilità dei docenti di orientare alle scelte future alla loro capacità di essere più informati e disponibili a parlare del web.
Scrive invece, quasi all’opposto, Giuliana, un’altra allieva.
Anche questa allieva estende la valutazione del ruolo della scuola e in qualche misura la attribuisce al testo stesso, ma in direzione opposta. Qui il ruolo e il senso della scuola sono finalizzati “a sviluppare un pensiero critico e a relazionarsi con gli altri”, obiettivi che fanno sì che la funzione della scuola sia ben più alta e significativa di quella di “internet”.
Anche qui due considerazioni. La prima è che gratificante, per un’insegnante di italiano, scoprire di avere in classe due allievi che espongono due tesi così contrapposte, anche se forzando un po’ la comprensione del testo (ma siamo in sede di commento libero). Significa che in qualche misura stanno imparando a ragionare e anche autonomamente, fuori da schemi indotti (quanto meno a scuola) o precostituiti.
La seconda considerazione è che queste due argomentazioni propongono una dialettica antica, ma oggi più che mai attuale, e anche politicamente divergente.
La contrapposizione che altrove definiamo come il conflitto fra formazione del “capitale umano”, da un lato, ed educazione in quanto “sviluppo umano”, dall’altro, trova qui due formulazioni apparentemente semplici, ma in realtà complete e chiare.
A che cosa serve dunque la scuola? Da un lato la scuola che serve a trovare lavoro, dall’altra la scuola che fornisce capacità di giudizio critico e convivenza civile. Si tratta di una contrapposizione antica, ma quanto mai attuale. Proprio in questi mesi, in virtù del Ministero del Merito e di circolari sull’Orientamento in tal senso inequivocabili è tornata fortemente in auge la tesi di Lucio.
E analogamente chi da anni si oppone agli eccessi della deriva neoliberista della scuola, assai forte come tentazione anche nel nostro Paese, lo fa in nome di una educazione alla cittadinanza, nella quale capacità di giudizio critico e capacità di convivenza civile hanno un ruolo strategico e decisivo.
Forse oggi ancor più di qualche decennio fa, perché si fa più fatica che nel secolo scorso a individuare nel lavoro e nella cultura del lavoro strumenti e fini di quella emancipazione individuale e collettiva che dovrebbe essere il vero fine e la reale peculiarità della scuola, per ciascuna/o e per tutti, anche indipendentemente dal lavoro e dal ruolo sociale che svolgeranno in futuro. Come sostiene Giuliana.