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06/12/2021

A proposito del PNRR scuola

di Giuseppe Buondonno

Oltre duecento miliardi di Euro. L’equivalente, più o meno, di sei leggi finanziarie. Una massa di investimenti capace, in un senso o nel senso opposto, di riscrivere i caratteri materiali di un Paese, il destino di milioni di vite. La più grande operazione keynesiana della storia europea, pur nel pieno della pandemia che l’ha giustificata, avrebbe presupposto una grande discussione democratica; avrebbe potuto essere l’occasione, o quantomeno il presupposto, per indirizzare una crisi democratica trentennale verso il suo superamento, verso il recupero di un rapporto partecipativo (e non di semplice delega) tra società e istituzioni, tra vita reale e luoghi della politica. Niente di tutto questo. Anzi, un governo nato da un’opaca crisi “di palazzo”, con una maggioranza impressionantemente larga, ma priva di un’identità politica (se non quella di una tecnocrazia emergenziale), ha imposto persino allo stesso Parlamento della Repubblica l’approvazione, in poche ore, degli indirizzi strategici del piano, da presentare all’Unione Europea. Né, mi sembra, sugli specifici progetti le Regioni o i governi locali (tolta, forse, qualche rarissima eccezione) vogliono, o sanno, coinvolgere le comunità, anche nelle loro forme organizzate. Se ci fermiamo a riflettere un istante - e solo a titolo di esempio - persino la questione del controllo rispetto agli appetiti delle mafie su una tale massa di investimenti, viene affrontata (ammesso che lo sia) solo in chiave tecnicistica; come se non fosse il controllo sociale diffuso, la partecipazione, la democrazia dunque, il più grande e profondo strumento di garanzia contro tali interessi illeciti.

Diciamolo in sintesi: questo governo esprime più la suppurazione della crisi della democrazia, che non il suo superamento. Cerco di essere più chiaro. Siamo alla convergenza di tre processi: una crisi climatica epocale (strettamente legata al modello di sviluppo, all’aumento costante della popolazione del pianeta e dei consumi in aree del mondo finora escluse); una crisi delle democrazie occidentali che ha raggiunto livelli senza precedenti dal secondo dopoguerra; su cui si è innestata l’attuale pandemia, con i suoi effetti economici. Nessuno stupore, dunque, che maturi, da parte della élite europea (come, in forme più esplicite e brutali, in altre parti del mondo) la spinta ad un’involuzione tecnocratica e autoritaria delle stesse democrazie. Un modello di controllo delle società che, almeno temporaneamente, ha messo all’angolo la soluzione sovranista e neofascista; ma che è altrettanto decisa ad impedire che l’inevitabile intervento keynesiano si trasformi in una ristrutturazione delle società europee nel senso della giustizia sociale, di una reale centralità dei beni comuni e dei diritti universali. Come dire: è stato necessario, giocoforza, abbandonare temporaneamente le politiche di liberismo estremo e di austerità; ma bisogna difendere quel tanto di liberismo possibile, nella situazione data, e, anzi, rilanciare sia sul piano concreto, degli investimenti, sia su quello ideologico e culturale, la centralità dell’impresa privata e della produzione, anche a scapito dei diritti. Il rapporto tra capitalismo e democrazia – con buona pace di chi, anche proveniente dalle fila del movimento operaio, ne aveva teorizzato la natura consustanziale – è, d’altra parte, una variabile dipendente dagli interessi di fase, storica ed economica. Ecco perché, tra l’altro, aver rimosso la categoria del conflitto, e aver ridotto la dialettica democratica ad un mercato del consenso, è stata una vittoria profonda delle classi dominanti.

È dentro questo contesto che, a mio avviso, va letta la parte del PNRR relativa a Scuola, Università e ricerca. Perché, se l’apertura di una discussione democratica era una necessità generale, prima di indirizzare una così enorme massa di risorse; per il sistema formativo - dopo l’esperienza tragica della dad, dopo reiterate “riforme” dall’alto, spinte da logiche propagandistiche, con un precariato, storico e recente, di proporzioni rilevanti – sarebbe stata un’urgenza assoluta. Ancor più perché, da quasi trent’anni, siamo nel vortice di una rivoluzione comunicativa, culturale e antropologica che è stata ignorata o, al massimo, inseguita da queste presunte riforme; senza, cioè, che le istituzioni della Repubblica abbiano sentito minimamente il bisogno di produrre un’analisi critica, la mobilitazione di competenze scientifiche, una riflessione collettiva, per comprendere i suoi effetti sulla conoscenza, sui comportamenti, di questa e delle future giovani generazioni. Una visione dominante della politica, intesa, appunto, come mercato del consenso, impostata sui prossimi tre mesi e non sui prossimi trent’anni, del resto, non può che considerare lo studio dei processi (a parte sondaggi e listini di borsa) come una trascurabile perdita di tempo. In pochi campi, come in quello della formazione, infatti, è possibile misurare il grado di subalternità della democrazia alle logiche produttivistiche e di mercato; e anche, purtroppo, il cedimento della componente maggioritaria della sinistra italiana ed europea alle ragioni che avrebbe dovuto contrastare. La logica del governo, privata di una visione critica e della pratica del conflitto culturale e sociale, non poteva che trasformarsi – per citare un grande pensatore del Novecento – con un “nuotare con la corrente”. Era già indicativa, ormai trent’anni fa, la scelta del tre più due all’università; negli stessi anni in cui si celebravano le magnifiche sorti della precarizzazione del lavoro e cominciava a prendere corpo l’idea della scuola-azienda (come, del resto, l’aziendalizzazione delle USL, nell’altro settore decisivo per la vita delle persone). Credo che non debba sfuggire il fil rouge che unisce quella visione all’attuale PNRR, fino al documento di una Commissione della Conferenza delle Regioni (con il plauso del Ministro dell’Istruzione; carica da cui, naturalmente, nel frattempo, è scomparso, guarda caso, l’aggettivo Pubblica) sulla “didattica orientativa” (al lavoro, ovviamente!) per i bambini delle elementari. Lo ripeto un istante, perché ripetercelo è persino più utile che commentarlo: per i bambini delle elementari!

E veniamo al PNRR. Una nota linguistica (brevissima, perché è questione già sollevata da molti): l’ultima R non sta per Riforma, come i più ottimisti (o ingenui) potevano attendersi, bensì per Resilienza che, per un verso, in una politica così attenta alle mode, non poteva mancare; ma, per un altro, esprime nel profondo la logica che lo concepisce: una ripresa resiliente, cioè che torni al prima della pandemia; un ritorno a quella normalità e a quelle dinamiche che non devono, nella loro sostanza sociale, essere messe in discussione. Il “ne usciremo migliori”, così fastidiosamente retorico per molti, per altri, evidentemente, significava, assai concretamente, “ne usciremo più efficienti, ma con gli stessi presupposti di prima”.

La “Missione 4” (Istruzione e ricerca) si articola in due sezioni: “Potenziamento dei servizi d’Istruzione dagli asili nido alle università” e – tanto per essere chiari, perché i tecnocrati non hanno tempo da perdere – “Dalla ricerca all’impresa”.
Prendiamo in esame la prima sezione. Fatta eccezione per gli investimenti relativi all’edilizia scolastica, per il resto non c’è – se non in alcuni generici richiami - quello che veramente servirebbe alla scuola italiana e c’è quello che non dovrebbe esserci (perché dovrebbe essere, quantomeno, sottoposto ad un dibattito nella scuola e della scuola). Non ci sono scelte concrete e adeguate per aumentare il tempo scuola (anzi, il Ministro vagheggia di ridurlo, diminuendo di un anno, per ora, un segmento dell’istruzione superiore); non c’è il necessario maggior numero di docenti, con classi più piccole e più favorevoli ad una didattica veramente inclusiva, laboratoriale e attenta alle persone; non c’è il superamento del precariato (o, almeno, una sua corposa riduzione), né nella scuola, né nell’Università (dove, invece, il disegno di legge sul reclutamento va in direzione sostanzialmente peggiorativa); non c’è la rimozione (per citare il prezioso Articolo 3 della Costituzione) delle condizioni di diseguaglianza, degli ostacoli reali e concretissimi, nell’accesso agli studi di ogni ordine. Questioni a tratti evocate come note a margine.

Inutile girarci intorno, l’asse di tutta questa specifica misura consiste in un’accelerazione (consistentemente finanziata) della finalizzazione dell’intero sistema formativo alle compatibilità e alle esigenze delle imprese; e, dunque, alla scuola progressivamente curvata verso logiche prestazionali e di efficienza produttiva; l’innovazione coincide con la riduzione delle competenze al problem solving e alla digitalizzazione, assunta come parametro naturale di qualità formativa. Se si scrive che: “la nostra scuola primeggia a livello
internazionale per la forte base culturale e teorica”, ci si affretta a chiarire che: “Senza perdere questa eredità, occorre investire in (a) abilità digitali, (b) abilità comportamentali e (c) conoscenze applicative”. È persino imbarazzante l’assoluta centralità della “domanda di competenze che proviene dal tessuto produttivo”. Se, da un lato, si rileva che “In Italia si registra una ridotta domanda di innovazione e capitale umano altamente qualificato da parte del mondo delle imprese, a causa della prevalente specializzazione nei settori tradizionali (che rappresentano, peraltro, un vasto e inesplorato mercato potenziale per le
innovazioni) e dalla struttura del tessuto industriale (fatto in prevalenza di PMI), da cui deriva una maggiore propensione a contenere i costi e una limitata cultura dell’innovazione”; nella sostanza della proposta, i limiti del Paese vengono letti secondo lo schema, assolutamente ideologico, dell’inadeguatezza della scuola ai livelli e alle esigenze delle imprese stesse. Come se delocalizzazioni, competizione incentrata sui bassi salari, precarizzazione del lavoro, compressione dei diritti, finanziarizzazione dell’economia, non fossero le cause reali – e ascrivibili al capitalismo più assistito del mondo – della crisi occupazionale. Del resto, questa è l’ideologia, come ci insegna Marx: una rappresentazione rovesciata del mondo. Si invade la scuola di counselors, si chiarisce che: “Le abilità e competenze digitali si fondano su una forte base quantitativa”, rimuovendo completamente il fatto che, competendo al ribasso, sono spesso le stesse imprese a cercare mano d’opera scarsamente qualificata, “usa e getta” precaria e ricattabile sul piano dei diritti; che (se pure molto meno di ieri) la scuola continua a funzionare come potenziale ascensore sociale, usciti dall’ascensore i giovani trovano sbarrate le porte d’accesso a impieghi dignitosi e stabili. Ma, soprattutto, rimuovendo il fatto che la funzione della scuola non è solo – e direi non è principalmente – quella di formare lavoratori, ma di aiutare a crescere persone, formare cittadini in grado di esprimere pensiero libero, capacità critica, coscienza di sé e del mondo; è quella di rispettare i tempi di crescita, di acquisizione delle conoscenze, di vivere un contesto solidale, non concorrenziale; fuori dai tempi e dalle logiche della competizione, che, anzi, dovrebbero imparare a sottoporre a critica; dati che, mi dispiace per gli entusiasti della misurazione, non sono in nessun modo quantificabili o riducibili al dominio digitale. Questa “Misura 4” è un testo linguisticamente e storiograficamente significativo, perché rivela fino a che punto le classi dirigenti (o una parte consistente di esse) abbiano archiviato la “scuola della Costituzione”, sdraiandosi – non saprei dire con quale grado di consapevolezza – sull’idea di una “scuola per il mercato”. Chiariamo un punto importante: non è contestabile che si voglia anche migliorare il grado di preparazione professionale degli alunni delle scuole superiori; è semplicemente inaccettabile che questa pioggia di miliardi sia incentrata unicamente su questo. Viene in mente, leggendolo, un passo de L’odore della notte, di Andrea Camilleri, in cui vengono rappresentate quelle che lui chiama “le teste parziali”, che del denaro sanno persino dove espleta i suoi bisogni corporali, ma fuori da quella sfera non sanno né pensare, né vivere. E costoro vorrebbero affiancarci i counselors, per formarci a formare le future generazioni a loro immagine e somiglianza. Non sfiorati affatto dall’idea che è proprio quella logica della crescita quantitativa ad aver predisposto il peggiore disastro della storia dell’umanità; altro che transizione ecologica! Finanziano un’accelerazione nella direzione sbagliata, quando – per citare ancora Benjamin – bisognerebbe tirare “il freno d’emergenza”.

È ancor più indicativa la sezione su Università e ricerca, chiara fin dal titolo: “Dalla ricerca all’impresa”. Ciò che colpisce, più di ogni altro aspetto, è che gli atenei italiani – che hanno al loro interno un concentrato di competenze, anche scientifiche e tecnologiche, che sono i luoghi predisposti alla ricerca pubblica, non siano contemplati – come sarebbe stato logico aspettarsi – quale reale “cabina di regia” della progettazione anche per le altre misure (dalla transizione ecologica, ai trasporti, alla salute). Proprio nel pieno di un’esperienza tragica, come quella che stiamo vivendo - in cui sono stati evidenti i danni prodotti dalla privatizzazione della ricerca scientifica, dalla logica delle priorità del mercato globale nella dislocazione delle produzioni – si imposta un piano massiccio ed irripetibile di investimenti sulla sostanziale, ulteriore, subalternità della ricerca pubblica all’industria privata. Subalternità che convive perfettamente con la precarietà dei ricercatori, con l’autoreferenzialità di un certo baronato, con la rinuncia ad una riforma profonda e democratica dell’università.

Non credo sia il momento di arrendersi, né di scoraggiarsi. Credo, al contrario, sia necessario che scuola e università, in tutte le loro componenti, rialzino la testa, affermino – col necessario grado di conflittualità culturale e politica – l’elementare presupposto democratico che una così grande massa di finanziamenti (in larga parte a debito per le generazioni future), in grado di ridisegnare – come ho scritto all’inizio – le strutture (e le infrastrutture) di un Paese, sia posto al vaglio di un ampio dibattito, di un processo partecipativo; i cui tempi non devono essere necessariamente lunghi, ma non possono nemmeno essere, come sono stati finora, il pretesto per un esproprio autoritario di partecipazione.

Riceviamo e assai volentieri pubblichiamo questa riflessione di Giuseppe Buondonno sulle parti del PNRR che riguardano la scuola e sulle linee generali di politica scolastica che le ispirano.
Ci auguriamo che questo contribuito favorisca un dibattito e una volontà di partecipazione attiva, che sul tema ci sembrano quanto mai carenti. Anche nella scuola.
Abbiamo espresso altre volte le nostre opinioni al riguardo, in particolare: ..."la sensazione che abbiamo in parecchi è che, a proposito di cambiamento di paradigma, il PNRR per uscire dalla crisi e realizzare una nuova idea di scuola, sancisca e soprattutto si appresti a sostenere economicamente la direzione verso cui sono andate più o meno recentemente molte scelte istituzionali". in  Il "cambio di paradigma", o solo "di passo"?
 ("insegnare", maggio 2021).

Ciò che continuiamo a non capire è perché  scelte e prospettive, che di fatto confermano e implementano le opzioni di politica scolastica della cosidetta "Buona scuola", non dovessero piacere allora, al punto da suscitare reiterate e a nostro parere legittime proteste, e vengano ora accolte nel silenzio o con più o meno supina rassegnazione.
Leggere - per esempio, tra i tanti esempi possibili - le dichiarazioni trionfalistiche di associazioni ed enti che si gloriano di istituire (o condividere) libretti di orientamento professionale a partire dalla scuola primaria senza che nessuno (o pochi) reagisca indignato ci lascia molto perplessi. [m.a]

Scrive...

Giuseppe Buondonno Insegnante di Lettere al Liceo Artistico di Fermo; è responsabile Scuola e Università di Sinistra Italiana.