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18/05/2023

Calvino e la casa degli alveari

di Lina Grossi, Roberta Russo

…il racconto è un’operazione sulla durata, un incantesimo
che agisce sullo scorrere del tempo, contraendolo o dilatandolo. 


Un classico è un libro che non ha mai finito di dire quel che ha da dire. 

I. Calvino

La rapidità è un tema di cui Calvino discute nelle Lezioni americane ritenendo che si tratti di uno dei valori letterari da preservare nel tempo. Calvino è stato uno scrittore di racconti e la sua produzione narrativa ne offre ampia conferma. I suoi racconti richiamano le opere di quei disegnatori e pittori, che abbozzano rapidamente, schizzano un’idea e poi la lasciano così. Ma già così l’intuizione, che ha animato la loro fantasia e mosso la loro mano, è efficace. Il lavoro successivo di elaborazione, attento in Calvino, ne perfeziona l’insieme.

La casa degli alveari è un racconto profondo, avvincente e denso di significati, ma meno noto di altre pagine di Calvino. Per questo, nell’ottica delle parole citate in esergo dello scrittore, del quale ricorre quest’anno il centenario della nascita, è apparso utile riproporne la lettura.

Il racconto appartiene al primo periodo delle short stories dello scrittore, compreso “tra l’estate del 1945 e la primavera del 1949” [1]È l’undicesimo del corpus di Ultimo viene il corvo, collocato intenzionalmente dall’autore in una posizione di passaggio tra le prime due tematiche portanti della raccolta: il racconto di guerra e di violenza, il racconto picaresco del dopoguerra, il paesaggio ligure [2].

Il racconto, incentrato all’inizio sulla casa, è una sorta di monologo del protagonista/io narrante della storia.  La casa, come indica il titolo e sottolinea l’uso insistito del termine legato all’idea di possesso (casa mia, la mia casa…), è un alveo, un nido protettivo, in cui il protagonista si è rinchiuso per sopravvivere.

Un interessante studio sulle varianti redazionali [3], condotto sulla base di un confronto tra la versione manoscritta del racconto e l’edizione definitiva, pone in evidenza alcuni aspetti di grande rilievo ai fini dell’interpretazione di questo singolare racconto. Si propone di seguito un esempio [4] di modifica del testo, in un passaggio cruciale del racconto:

Edizione 1949 Edizione manoscritta
L’ultima, quella donna nera della falce. Il cielo era carico di nuvole, ricordo, nuvole scure che correvano. Ecco: sotto la corsa del cielo, per la ripa brucata dalle capre, le prime nozze umane, io so che negli incontri umani non ci può essere che spavento e vergogna uno dell’altro. Questo io le chiedevo: spavento e vergogna, nient’altro che spavento e vergogna negli occhi, solo per questo io con lei, credetemi. Quella doveva essere l’ultima: presa di violenza, da vederla urlare sotto, a occhi sbarrati, con orrore, una volta, non nausearmi ancora della loro insaziabile, imperiosa arrendevolezza. Fu allora che successe il fatto: fu allora che lei, rovesciata su per quella ripa, stravolta di terrore, lei, da stravolta di terrore, la vidi, con me, capite che non resisteva più, capite che faceva finta ancora, di dare unghiate, di respingermi, faceva finta, schifosa razza umana di cagne, poi sarebbe tornata a graffiarmi, forse a cavarmi gli occhi con unghie, ma allora faceva finta, socchiudeva gli occhi, lei non voleva altro, anche lei.


Nell’edizione manoscritta il testo narrativo racconta una storia che presenta una descrizione cruda e realistica di fatti, mentre in quella finale l’io narrante esprime direttamente le emozioni più profonde e penetra nella dimensione più nascosta e dolorosa del protagonista. Calvino, con una scrittura serrata e asciutta, procede per eliminazione delle parti più descrittive per dare forza ai pensieri che si agitano nella mente dell’io narrante, come accade quando usa la congiunzione ecco, che introduce in modo diretto, senza altre spiegazioni e per associazione di idee, non gli eventi ma i pensieri dell’io narrante.

Scritto poco dopo la fine dell’esperienza della guerra e della Resistenza, La casa degli alveari ha un titolo che dice un qualcosa di compiuto in sé: è il racconto dell’esperienza, reale o immaginaria, di un incontro fatto dal giovane Calvino con qualcuno completamente al di fuori dagli ambienti che frequentava.

Un incontro, fatto chissà dove, con un dropout nella cui mente i pensieri si affollavano, confusi e disordinati, ronzando continuamente e sovrapponentisi l’uno all’altro come le api che ronzando si sovrappongono l’una all’altra nell’alveare in un agitarsi confuso, in realtà solo apparente perché invece pieno di “sapienza antica”.

Calvino “sente” che così ronzano e si sovrappongono i pensieri nella mente di quell’uomo che si è rifugiato tra i monti e non vuole avere più a che fare con gli esseri umani. Un pover’uomo sì, ma “pieno di sapienza antica”.

I suoi pensieri, pensieri fastidiosi come ronzii, hanno un loro senso, sfuggente alla logica che accomuna gli uomini. Nascono da un oscuro dolore che comporta la necessità assoluta di tenersi lontano dagli altri esseri umani sempre e comunque. L’uomo nasconde un segreto che vuole confidare. O forse no.

L’io narrante, dunque, è il dropout che ha l’impulso di raccontare della sua vita. Vive appartato tra i monti in una casa cui non si può arrivare in alcun modo poiché il sentiero per arrivarci lui lo ha distrutto, distrutto e coperto da rovi: così non è individuabile da alcun essere umano: “E non scaccio i roveti, mi piacerebbe che coprissero tutto, anche me”.

La voce dell’uomo sembra quasi di sentirla, rauca, mentre afferma il bisogno assoluto che ha lui di tenersi ben lontano dagli esseri umani e dai loro cani “servili”. Egli, dice, non vuole niente e non deve niente. I suoi bisogni sono soddisfatti dalla natura stessa: dalle lumache, dalle patate “germogliate e viola”. Da anni vive con capre e api, poiché le capre non “danno confidenza e non ne prendono” ,

Quando la notte le api dormono, non c’è pericolo che alla sua casa si avvicinino gli uomini perché hanno paura di lui. E con ragione. Ed è ciò che lui vuole. Ma ronza nella mente dell’uomo un pensiero fastidioso: hanno ragione “non perché certe storie che raccontano di me siano vere; menzogne, sono, degne di loro...”.

Con una zaffata improvvisa l’odio avvolge la mente dell’uomo: “Quando al mattino vedo tutt’attorno il mondo e le case pigiate, naufragate nella loro falsa fraternità, so che un giorno roveti ed erbe ricopriranno le piazze, e salirà il mare a trasformarle in rocce”. E scaglia contro l’umanità quasi una maledizione.

Poi alla sua mente avvolta e occupata dai roveti torna la presenza affettuosa delle api che brulicano attorno alle sue mani senza pungerlo quando prende il miele e, amiche, gli si posano addosso “come una barba vivente”. I pensieri dolorosi si placano: il tempo passa senza che lui voglia più tenerne conto: i roveti soffocano “l’assurdo tempo umano”. Ma di nuovo, improvvise vibrano domande e pensieri pungenti: perché dovrebbe stare tra gli uomini e lavorare con loro? Perché se ha schifo delle loro mani sudate, dei loro rituali, delle loro femmine “dalla saliva acida”?

Eppoi ancora ronza un pensiero diverso: quelle storie no, non sono vere. E la rabbia sale: hanno sempre raccontato storie su di lui gli uomini, “razza bugiarda”!
Come ronzii di api ronzano altri pensieri che si giustappongono: è il ricordo di quella volta che era sceso giù, aveva udito donne ridere e aveva avuto il dubbio tormentoso di sbagliare. Era fuggito a nascondersi tra i monti. Di tanto in tanto gli capita di incontrare uomini che abbattono i tronchi uno per uno. E finge di non vederli. Lui è quei tronchi estirpati, trascinati verso valle. Le piste scoscese, non più trattenute dalle radici, sotto la pioggia battente provocheranno frane. E pensa che così dovrebbe andare in malora tutto il genere umano. Gli ronza nella mente un altro dubbio in quanto sa bene che, se hanno paura di lui, hanno ragione: “quel fatto successo o non successo” che vibra nella sua testa si sovrappone pungente a un’altra immagine, quella della donna vestita di nero con la falce. Si aggrovigliano altri pensieri tormentosi nella sua mente: si chiede, ricordando il silenzio della valle, se qualcuno possa aver visto o sentito. Ma ogni notte si sente accusare da voci. Ancora un’altra angoscia torna a tormentarlo: “No, non è vero che nel prato sopra la mia casa ci sia il suo cadavere seppellito. E se quei cani si fermano ad annusare …è perché c’è una vecchia tana di talpe”.

Sembra dunque che Calvino abbia voluto sperimentare un linguaggio nuovo, coerente con il disagio emotivo espresso dal protagonista/io narrante, di cui non fornisce alcuna descrizione: non ha un nome e non ci sono tratti fisici. Conosciamo i suoi pensieri a tratti confusi, possiamo intuire la sua sofferenza.  Non è una figura picaresca a tutto tondo come lo sono altri personaggi dello scrittore o i protagonisti di Pian della Tortilla di Steinbeck – per fare un altro esempio – i quali rifiutano la società e le sue convenzioni, preferiscono essere poveri ma liberi, credendo solo nel valore dell’amicizia.

È un personaggio sui generis - come lo è il racconto nell’ambito della raccolta - con tratti del gusto picaresco [5] quali la presenza di un narratore/protagonista, la tendenza a una vita isolata e fuori dalle regole sociali, un evento drammatico che segna una svolta nella sua vita.

Del resto, le linee tematiche portanti della raccolta in qualche modo si intrecciano, come avverte lo stesso Calvino quando afferma: “È superfluo osservare che spesso le tre linee si congiungono”. In questo particolare racconto caratterizzato dalla vicenda di un asociale, è fortemente presente anche il paesaggio della Riviera, con i suoi colori intensi e le tinte nette: il giallo della riva di ginestre, la casa bianca per un intonaco calcinoso, la patata viola, le colline perdute nel buio, l’alba che rischiara il tutto. E poi, sempre attraverso gli occhi del protagonista – con un uso insistito del verbo vedere – la visione della vallata che scende, il mare altissimo, la città fulva e calcinosa, il baluginare dei suoi vetri, il fumo dei suoi fuochi.

Quel mondo che l’io narrante considera esterno e lontano è, in realtà, ricostruito/rivissuto attraverso gli stimoli percettivi, in particolare la vista, e descritto con un lessico sensoriale: lo guardo ogni giorno, vedo (casa mia, la vallata, le case del genere umano, la città), fingo di non vederli ecc. Non mancano gli altri sensi: il tatto (i funghi molli e umidi); l’udito (mi avvicinai senza che lei sentisse, sento le voci).

Questo breve racconto è costruito su una serie di contrasti che riguardano la spazialità: vicino/lontano (la casa e gli alveari/gli altri, la città); la rappresentazione luce/buio (l’alba, i colori/la notte); la dimensione esistenziale: amore/morte (impulso sessuale, nozze/donna con la falce), amore/odio (affetti umani/solitudine, rancore); la relazione oppositiva: io/loro (io/genere umano; la dimensione valoriale: verità/menzogna. Questi contrasti delineano la condizione psico-sociale dell’io narrante ma possono rappresentare anche una condizione più generale di sofferenza, inquietudine e disagio esistenziale, presenti in molte pagine della narrativa novecentesca.

Temi sui quali Calvino continua a ragionare nel suo percorso letterario e che sente anche propri, come uomo del suo tempo. Emerge nella sua lezione americana [6].

Note

1. Cfr. "Note e notizie sui testi", a cura di M. Barenghi, B. Falcetto, C. Milanini, in Romanzi e racconti, a cura di M. Barenghi e B. Falcetto, Milano, Mondadori, 1991, I, pp. 1266- 67.
2.  Ibid., 1262 -63. La vicenda editoriale della raccolta, pubblicata nel 1949, Ultimo viene io corvo è complessa. Scrive Calvino per la nuova edizione del 1969: “Nella 1ª edizione i racconti erano ordinati secondo criteri d’affinità, ma senza divisioni in gruppi; la raccolta del 1958 era costruita secondo una più elaborata architettura. Qui preferisco dividere la materia in tre parti, per mettere in evidenza tre linee tematiche del mio lavoro di quegli anni. La prima è il racconto “della Resistenza” (o comunque di guerra e di violenza) visto come avventura di suspense o di terrore, un tipo di narrativa che eravamo in parecchi a fare a quell’epoca. La seconda linea è pure comune a molta narrativa di quegli anni, ed è il racconto picaresco del dopoguerra, storie colorate di personaggi e appetiti elementari. Nella terza domina il paesaggio della Riviera, con ragazzi e adolescenti e animali, come personale sviluppo d’una “letteratura della memoria”. È superfluo osservare che spesso le tre linee si congiungono”.
3.  
A. Motta, "«E allora, come voi, continuo». Italo Calvino, La casa degli alveari",  in Le occasioni del testo. Venti letture per Pier Vincenzo Mengaldo, a cura di A.Afribo, S.Bozzola, A. Soldani, CLEUP, 2016,  pp.283-308
4. Ibid. p. 304.
5. Cfr. la voce: picaresca, letteratura in Enciclopedia Treccani.
6. La prima edizione delle Lezioni americane è stata pubblicata postuma nel 1988; il ciclo di sei conferenze avrebbe dovuto svolgersi nel corso dell’anno accademico 1985-86.

 

Credits


Immagine a lato del titolo: copertina della prima edizione Einaudi del 1949; raro.

 

Parole chiave: educazione letteraria

Scrivono...

Lina Grossi È stata docente di materie classiche, formatrice, ricercatrice INVALSI e collaboratrice INDIRE; esperta sulla valutazione degli apprendimenti in ambito europeo; autrice di saggi e testi di ricerca didattica.

Roberta Russo Psicoterapeuta psicoanalitica, già docente di psicoanalisi presso la SIPP e docente di materie letterarie e classiche. È autrice di articoli in materia letteraria e clinica su riviste specialistiche.

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