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17/09/2023

"Cara Gianna" - corrispondenza (purtroppo) impossibile con Gianna Di Caro

di M. Gloria Calì

Cara Gianna,

mi permetto di disturbare la tua pace, qualunque forma abbia, per dirti che ci manchi tanto. Sai quante volte, nel discutere le questioni della scuola, nel pensare con altr* le iniziative di formazione, di riflessione e confronto, mi sono detta: “qua ci vorrebbe Gianna Di Caro”? Non ti ho mai ascoltata direttamente, perché te ne sei andata nel 2005, quando io annaspavo ancora nei primi anni di servizio nella scuola media, e il CIDI, e la sua rivista, non avevano ancora nutrito e dissetato la mia personalità culturale.
Manca il tuo senso del dovere politico nell’esercizio dell’insegnamento, manca il senso alto della cultura professionale che non è solo metodo, ma è radicata nella dimensione dell’intellettuale in azione, in ricerca, in insegnamento/apprendimento.

Da direttrice di insegnare, mi manca il tuo apporto al fianco della rivista, con cui hai generosamente collaborato. 

Da Rimini, a Torino, poi di nuovo a Rimini, la tua azione professionale, in quanto docente e in quanto formatrice, è stata essenziale per chi studiava, da qualunque parte della cattedra si sia trovato.
Il CIDI ti ha avuto tra le sue più operose costruttrici.
Ti sarà sicuramente giunta la notizia che il ministero dell’istruzione, con cui hai collaborato nella commissione Brocca, ha perso l’aggettivo della responsabilità civile (“pubblica”) e ha guadagnato il nome più falso che alla funzione scolastica possa essere attribuito: “merito”. So che mi capisci, se ti confido che è desolante sapere che ci sono colleghi e colleghe che condividono questa sottolineatura.
 

Quanto è importante, per me, leggere e rileggere i tuoi scritti.
Da insegnante, mi pongo sempre il problema del costruire percorsi significativi nell’insegnamento della storia, che oggi assume la forma dei cosiddetti “temi sensibili”. Hai scritto parole semplici e fondamentali sul concetto di “globalizzazione”, processo che ha portato alla cancellazione delle culture “piccole” a vantaggio di sistemi egemonici, che hanno imposto i loro modelli di vita e società per ragioni economiche, attraverso una narrazione che, nel corso degli ultimi decenni, ha inquinato, capillarmente, le strutture interpretative di individui e comunità, generando eventi dal potenziale mortifero enorme.

Quanto sono preziose le parole che ci hai lasciato sulla “democrazia dimezzata”, parole dirette e concrete che, a leggerle con quel desiderio di essere un’insegnante democratica che mi anima, suonano già come un fondamento curricolare: “Libertà di informazione e diritto di accesso a tribunali indipendenti per la soluzione delle controversie, diritto alla gestione delle risorse ambientali e culturali, diritto al lavoro e alla scelta del percorso di studio più consono alla realizzazione del proprio progetto di vita, sono questi diritti a costituire la cultura della democrazia che non può essere ridotta a pure regole procedurali, svuotata di contenuti, resa in qualche modo "democrazia dimezzata". Le risorse ambientali e culturali sono beni sociali, frutto del lavoro comune e dovrebbero essere indisponibili per una gestione privatistica, finalizzata a interessi particolari“.

La guerra, anzi, forse è già meglio dire “le” guerre, le migrazioni, le discriminazioni… quanto dolore sociale e umano bisogna “spiegare” nelle classi. E non ci si può sottrarre, altrimenti si rischia lo scollamento tra scuola e realtà che tu hai contrastato con il tuo lavoro costante di riflessione e di comunicazione, di ricerca didattica sull’uso delle fonti per la comprensione storica.

Come si fa ad educare alla cittadinanza consapevole, fatta di convivenze, di apertura, di ricerca del Bene Comune, senza cedere a quella deleteria infantilizzazione del pensiero che predilige situazioni comode senza sfumature e profondità? Scrivi: “Perché […] si ricorre a semplificazioni drastiche come quella modellata sulla coppia ‘buono/cattivo’ (che rimane il fondamento di ogni contrapposizione definita attraverso una terminologia definita attraverso il lessico storico, ma astratta e decontestualizzata, come, ad esempio, civiltà/barbarie, democrazia/dittatura)?

Ho capito, studiando il tuo “La storia in laboratorio”, che bisogna anzitutto accogliere e ascoltare le conoscenze intuitive, ambientali, che studenti e studentesse portano in classe, per decostruirne la natura di stereotipi, disattivarne il potenziale seduttivo di un “noi” contrapposto ad un “gli altri” che diventa facilmente orgoglio di supremazia.

Dopo quasi venticinque anni di insegnamento, sono consapevole che il mio lavoro consiste nel formare degli approcci interpretativi che permettano una comprensione storica di fatti attuali o del passato… ma quanto è difficile, Gianna… ho la sensazione che oggi, l’insegnante debba lottare anzitutto contro un inquinamento strisciante che rischia di ottundere la sua visione del mondo, prima che la sua dimensione professionale. Si tratta di una sorta di distorsione ambientale sempre più sottile, pervasiva e condizionante, che, attraverso narrazioni pubbliche sempre più centrate sulla presunta inevitabilità di certe scelte politiche, governative, punta alla creazione di un senso di libertà del tutto deviato, consistente unicamente a quella “libertà di consumare”, come hai scritto tu. La libertà vera, quella giusta e umana, sta nella cittadinanza in quanto sistema di garanzia del diritto e dei diritti, del rispetto di ogni persona e della comunità, non nella difesa del microcosmo individualistico definito da un confine che sembra più importante della vita stessa.

Questa narrazione ha nuove forme di “storia pubblica”, di cui tu hai definito i termini controversi e il rapporto con la memoria delle comunità nel tuo solito modo chiaro e rigoroso: “l’insegnamento della storia a scuola richiede forse un’altra soluzione del problema, una soluzione che abitui a distinguere le operazioni puramente propagandistiche da quelle che ubbidiscono ad esigenze profonde della società e di una sua parte”.
Che cosa scriveresti oggi sulla cultura della comunicazione “social”? Sul parlare senza possedere né le conoscenze né, soprattutto, il senso del contesto e della finalità dell’intervento? Che cosa diresti sull’effetto che questa modalità di relazione ha sullo sviluppo intellettuale di bambini, bambine e adolescenti come futuri cittadini e cittadine, su cui pesa, inoltre, l’abbandono educativo, spesso anche affettivo, che padri e madri stanno mostrando? “Noi insegnanti sappiamo che la scuola è scuola quando insegna che le cose hanno un nome e che uno dei modi per capire noi stessi e gli altri è condividerne il significato: prima ancora di dichiararci d'accordo o di dissentire dobbiamo sapere di che cosa stiamo parlando.”, questo hai scritto in un testo pubblicato su insegnare dopo che tu avevi lasciato gli spazi terreni.  

Quanto mi piacerebbe discutere con te le questioni della “complessità”, della interdisciplinarietà… Sei una delle poche persone di cui mi fiderei, per discutere di quella che nel linguaggio comune si chiama “intelligenza artificiale”.

Adesso basta rimpiangere la tua assenza, però: le cose umane si trasformano, si avviano e si concludono; il tempo pericolosamente regressivo che viviamo ci impone di non perdere la ragione, come hai scritto bene tu, e di continuare ad essere presenti, pensanti, operanti.

Spero che sarai d’accordo se ti considererò una Maestra, con la maiuscola dovuta al fatto sei per me un riferimento in ogni ambito in cui mi impegno ad esercitare la mia personalità intellettuale. Sei Maestra, e, credo, ti farà piacere sapere che non sei l’unica: niente appartenenze chiuse ed esclusive, niente devozioni, nemmeno laiche; piuttosto ricerca costante di modi nuovi e più efficaci per dare un contributo alla scuola pubblica democratica.

Grazie per tutto ciò che sei stata, perché, come diceva un certo prete, bisogna “essere” insegnante”, prima di “fare” l’insegnante.

Gloria.

 

Qualche riferimento per chi vuole conoscere Gianna Di Caro.

Una biografia sintetica si trova qui.

Su insegnare:

"La storia in laboratorio", Carocci 2005

 

Scrive...

M. Gloria Calì Insegnante di lettere alla media da oltre 20 anni, si occupa di curricolo, discipline, trasversalità, con particolare attenzione alle questioni della didattica del paesaggio. Direttrice di "insegnare".

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