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15/12/2022

Un documento sulla valutazione

di Mario Ambel

Documenti a sostegno della valutazione che educa

Un gruppo di docenti che hanno costituito un “Coordinamento per la valutazione educativa” ha prodotto un interessante documento in difesa e promozione della “valutazione che educa”.
Si tratta di un documento ampiamente condivisibile e scritto in un linguaggio chiaro e lineare, che dovrebbe essere comprensibile (e convincente) anche per chi non fa l’insegnante o è laureato e insegna, pur senza nessuna concezione e spesso nessuna sensibilità psicopedagogica, anche perché nessuno l’ha mai posto nelle condizioni o nella necessità di acquisirle. Il documento rifugge infatti da ogni tentazione di “didattichese”, critica spesso mossa a chi parla di scuola, e in particolare di valutazione, o di linguaggio specialistico [1].

Leggendolo, mi è venuto spontaneo confrontarlo con altri tre documenti analoghi:

Sono documenti spontanei, sorti, come si potrebbe dire, “dal basso”, per contrastare le valutazioni quantitative decimali e a sostegno di forme di valutazione che - al di là della denominazione (formativa, educativa, qualitativa, autentica, ecc.) - esaltino la dimensione e l’efficacia della valutazione scolastica intrinseca ai processi di insegnamento/apprendimento, in particolare di quella condotta “in itinere”, ma anche di quella periodica e finale, inevitabilmente - soprattutto quest'ultima - più sommativa.

Si tratta di argomenti che abbiamo spesso affrontato su questa rivista  e che recentemente abbiamo riassunto, a futura memoria, in una sorta di cronistoria delle origini più recenti [2]. Il problema, di fronte a questi documenti, è - da sempre - chiedersi perché, nonostante la consistenza e la coerenza pedagogica e professionale che li anima, intanto e comunque nulla cambi e nella scuola si continui a procedere con valutazioni sommative, quantitative, che spesso implicano “medie” improbabili e assurde - ora esaltate anche dall’uso del registro elettronico-,  fra entità fra loro neppure comparabili, da cui dipende il destino degli allievi e alle quali spesso si fa corrispondere la dignità del ruolo del docente (e della scuola).
Si potrebbe anche evocare la recente legge cha ha abolito la valutazione numerica decimale, seppure solo per la scuola primaria e non senza qualche contraddizione, e chiedersi come sta andando: verificare, per esempio, se la normativa e la seguente formazione hanno innescato una inversione di tendenza rispetto al trend che, dopo le norme Gelmini del 2006, stava riportando in auge, anche nella scuola primaria e ovviamente nella secondaria di I grado, i voti in decimi, da dove avrebbero dovuti essere espunti dal 1974-75.

Alla ricerca delle possibili cause di questo perdurante dato di fatto si potrebbe anche annotare che il documento ribadisce in più punti che le ipotesi lì formulate si fondano su “Decenni di esperienze e ricerche sul campo”:

"Decenni di esperienze e ricerche sul campo hanno evidenziato che a incidere positivamente sugli apprendimenti sono generalmente le valutazioni che offrono riscontri descrittivi rispetto a una specifica prestazione. Tali riscontri evidenziano punti di forza e di debolezza del lavoro svolto ed esplicitano chiaramente quali azioni vanno intraprese per migliorarlo."

Quei decenni di “esperienze e ricerche sul campo”, come di studi e analisi teoriche, intanto si accumulano e le sollecitazioni per una valutazione formativa a scapito di valutazioni classificatorie e selettive, almeno nelle discipline che se ne occupano, datano ormai almeno un secolo.  Del resto, qualche forma di valutazione formativa si è sempre parzialmente  applicata, ma senza farne un asse sostanziale delle pratiche didattiche e assumerne le reali implicazioni  conseguenti; e poi, comunque, è stata sempre sovrastata e vanificata dall’ansia sanzionatoria di tipo numerico, che tra l’altro la rende del tutto inefficace:


"Le esperienze e le ricerche sul campo hanno messo in evidenza che, nella valutazione in itinere, la scelta di abbinare i riscontri descrittivi propri della valutazione educativa con voti (numerici o meno che siano) tende a diminuire l'efficacia dell'operazione."

Bisognerebbe appunto chiedersi perché, nonostante tutto questo, la valutazione quantitativa, selettiva, meritocratica goda di ottima salute.  Le risposte sono molte e convergenti e alcune traspaiono, in filigrana, anche da questo documento. 
Si potrebbe dire, parafrasando la nota chiusa del Galileo brecthiano: “Maledetta la scuola che, in tema di valutazione, ha bisogno di rivendicare il minimo sindacale della coerenza professionale, come se fosse una rivoluzionaria presa si posizione politica”. Anzi, maledetta la scuola (e il Paese) in cui l’ovvietà pedagogica non può essere espressa, se non come scelta politica e, come inevitabilmente direbbe qualcuno, ideologica.

Una questione di coerenza professionale

C’è una affermazione del documento che merita un supplemento di attenzione:

"In questo senso, crediamo che la valutazione educativa sia anche vera educazione alla cittadinanza ovvero educazione politica. Non pretendiamo che tutta la classe docente condivida questa prospettiva pedagogica, culturale e politica."

Il problema è proprio qua. Che la “valutazione che educa” sia vera educazione alla cittadinanza è principio forte, che va difeso adoltranza, poiché orienta al vivere con gli altri in regime di cooperazione solidale finalizzata al miglioramento comune, e non di competitività individualistica finalizzata al prevalere degli uni sugli altri. Ma proprio perché le cose stanno così non solo non è accettabile che qualcuno non la persegua, ma lo si dovrebbe pretendere, non come atto politico, ma come dovere professionale.
La valutazione formativa o educativa [3], in luogo di quella sanzionatoria (premiale e punitiva) non è e non dovrebbe diventare una scelta politica, ma
 
un dovere di etica e coerenza professionale. Ma allora perché quello che dovrebbe essere un dovere professionale secondo scienza e coscienza diventa una scelta di campo? Perché ciò che prevedono anche le direttive ministeriali (seppure in parte sottotraccia) non solo non viene rispettato, ma diventa scelta di campo e di parte?

Se diventa scelta di parte, vuol dire che un'altra parte della scuola pratica e promuove un altro tipo di valutazione, non solo spesso iniqua, ma anche in contrasto con tutta la pedagogia del Novecento.  Evidentemente perché molti (la maggioranza dei docenti? o dei DS? o parte del ministero? o dei genitori?) hanno e perseguono altri presupposti. Praticano o esigono un’altra idea di scuola e di società, quindi un’altra politica scolastica. Diviene di parte anche perché nessuno ha educato e preparato i docenti sul senso, le prerogative e le pratiche della valutazione. E infine anche perché molti dirigenti tecnici, che avrebbero dovuto vigilare sulla diffusione e l’applicazione di una valutazione autenticamente formativa, per decenni non si sono opposti al ritorno al voto e, intanto, nel difendere e diffondere la valutazione “autentica” (delle competenze) l’hanno trasformata in defatiganti e a tratti maniacali adempimenti burocratici, dai quali i docenti rifuggono, anche se con solo parziale ragione.

Così, si è quasi costretti a scrivere manifesti nei quali si rivendica come scelta di campo antagonista quella che dovrebbe essere la normale competenza (nel senso di conoscenza agíta) e quindi di pratica professionale: usare modalità valutative per far realmente progredire gli allievi e non per giudicarli, classificarli, come tutta la storia della pedagogia e anche le norme vigenti, seppure con colpevoli contraddizioni, affermano.

Non solo: giustamente nel documento si richiama la necessità, complementare a questa, che, per rendere possibili pratiche di valutazione e autovalutazione educativa, diviene indispensabile modificare le pratiche didattiche sulle quali anche i processi di valutazione devono incidere positivamente:

"Una valutazione che educa descrive i processi, offre a chi apprende indicazioni di lavoro e permette all’insegnante di raccogliere informazioni utili a migliorare la propria didattica."

Cosa per altro non facile da praticare perché implica cambiamenti in parte profondi delle pratiche didattiche, ben più consistenti che l’inseguire questa o quella moda didattica di turno.

A proposito del no al voto (ancora e sempre!)

È probabile che, anche per questo, il documento insiste, e giustamente, sulla necessità di adottare forme di valutazione “educativa” almeno in itinere e quindi, di conseguenza e per dovere, di riservare l’indicazione dei livelli (secondo la normativa vigente nelle scuola primaria) o dei voti (nelle due secondarie di I e II grado) alle valutazioni periodica e finale. Forse anche nell’intenzione di non entrare in rotta di collisione ideologica e di non aprire una guerra sul campo con chi nella scuola rivendica il diritto e talvolta financo il dovere di dare voti, emettere sentenze, riconoscere e separare chi merita da chi non merita.

Anche “Tecnica della scuola”, a firma di Reginaldo Palermo, sostenitore da sempre delle pratiche di valutazione formativa, nel presentare il documento, titola un paragrafo del suo articolo “Non c’è scontro con il voto numerico” e cita la parte di documento che rammenta la distinzione fra valutazione in itinere e valutazione finale:

«Ma in realtà – scrive Palermo - i sostenitori della proposta non intendono alimentare un inutile “scontro” con i fautori del voto numerico e concludono: "Il voto numerico nelle scuole secondarie e il livello nella scuola primaria vanno obbligatoriamente espressi non nella valutazione in itinere ma in quella periodica e finale. Per questo motivo chi applica la valutazione educativa, offrendo in itinere riscontri descrittivi, presenta una proposta di voto in occasione degli scrutini o degli appelli finali. La valutazione educativa o si applica in itinere o perde gran parte della sua efficacia".»

Sembra infatti di scorgere in tal senso una sorta di cautela per affermare un principio e una necessità sacrosante, pur senza aprire la faglia assai vischiosa del conflitto (interno alle scuole e al Paese) sulla valutazione decimale. Del resto va rammentato che persino la normativa Gelmini che, come già detto, reintrodusse i voti decimali nella scuola di base, li prevedeva obbligatoriamente solo nelle scadenze periodiche e finali in pagella, ma  molti si affrettarono a riversarli anche nelle verifiche periodiche e alcuni persino sulle attività quotidiane nei quaderni, anche alla primaria. Purtroppo!

Una questione, questa sì, di natura “politica”

Quindi, poiché la questione è diventata (o è sempre stata) di natura essenzialmente “politica”, nel senso di visione dei fini e della sostanza del mondo, possiamo chiudere con una notazione di tale natura.

C’è un passaggio assai rilevante del documento di cui meditare con attenzione le complesse implicazioni: è l’affermazione che apre il documento, ma che può ben essere assunta per portare a conclusione questo ragionamento:

"Decenni di esperienze e ricerche sul campo hanno consentito di individuare le caratteristiche essenziali di una valutazione che educhi. Questa può essere definita un processo che consente di pervenire a giudizi di valore, emessi sulla distanza tra il livello degli apprendimenti osservato e quello auspicato, in grado di fornire indicazioni utili per la riduzione di tale distanza."

È una definizione classica di valutazione, in grado di mettere d’accordo anche visioni differenti su come poi applicare e tradurre in pratica l’osservazione o la misurazione di quella “distanza”. E soprattutto di quale uso sociale farne.
Ma qui si annida il problema di fondo: problema antico e di assai complessa e non agevole soluzione, che potrebbe tornare drammaticamente in auge con il “Ministero del Merito”. 
Se la valutazione indica il differenziale, la distanza (possibilmente da colmare) fra quanto raggiunto e i risultati attesi, allora la valutazione sommativa e periodica, che, in qualche modo e a tappe progressive, porta a sintesi questa misurazione, inevitabilmente assume una dimensione quantitativa o classificatoria, e può essere espressa in punteggi (come fanno le indagini nazionali e internazionali), voti (secondo la prassi scolastica tradizionale, anche universitaria), livelli (secondo modalità più recenti di valutare le competenze con formulazioni descrittive, poi portate a sintesi ed etichettate con concetti in scala gerarchica). Si tratta di pratiche che, per quanto apparentemente svolgano la stessa funzione gerarchico-classificatoria, comunque non sono la stessa cosa, non promanano dagli stessi criteri e non producono gli stessi effetti, diretti o indiretti. [4]

Ma la vera questione che quella affermazione sulla “distanza” implica e che pone il reale problema dell’uso della valutazione sommativa, per esempio rispetto al tema della promozione o della bocciatura, è l’esistenza o meno (e l’applicazione effettiva) di un livello soglia al di sopra del quale si è promossi (o salvati) e al di sotto del quale si è bocciati (o dispersi). È la famosa e ormai fantomatica “sufficienza”, per la quale, assai più che per le competenze, vale l’antico detto, un po’ adattato: “Che vi sia ciascun lo dice, cosa sia nessun lo sa”, mentre “dove” sta lo sanno tutti: ovunque, in itinere e sulle pagelle.

Ma perché l’esistenza di un livello soglia funzioni (e sia percepito come equo) deve essere eguale per tutti e applicato con verificabile rigore. E qui crolla il castello, almeno nella scuola dell’obbligo, perché da tempo si è acclarato che applicare a tutti gli stessi livelli soglia significa o bocciare molti più allievi (con reclamato disdoro a sinistra) o abbassare i livelli (con reclamato disdoro a destra).
Purtroppo c’è un solo modo, per uscire da questo impasse: accettare che almeno nella scuola dell’obbligo (ma dove e quando finisce l’obbligo?) non esiste una sola “sufficienza” per tutti, ma ne esistono tante, per ciascuna/o e in ciascun ambito in cui si articola il progetto educativo, che ciascuna/o rincorre o supera in modi e tempi diversi; e dovrebbe farlo non in una gara con gli altri, ma con se stessa/o, nella prospettiva di migliorare il suo livello iniziale, di agire sul suo differenziale da colmare. Non in senso individualistico e competitivo, altrimenti si ricomincia da capo.

Gli allievi, almeno dell’obbligo, non dovrebbero stare  in classe per competere l’uno con l’altro e misurare chi è più bravo, ma per collaborare gli uni con gli altri per migliorare ciascuna/o il proprio differenziale, non rispetto all’agognato livello da raggiungere, ma rispetto al proprio livello precedente da migliorare, procedendo verso il “traguardo per lo sviluppo delle competenze”, che nel frattempo, forse, si può muovere in avanti per tutti.

Ma questa scelta educativa porrebbe la scuola in antitesi, quasi una dissonanza cognitiva e valoriale, con le regole e le pratiche dominanti nel contesto sociale, dove lo scontro per una vita dignitosa continua a essere difficile e quindi, secondo alcuni, tanto vale abituarsi presto e che la scuola funzioni da palestra meritocratica.
Forse per questo è molto difficile (a destra e al centro, come talvolta anche a sinistra) accettare questa visione del mondo e della scuola. E allora ci si barcamena, alla meno peggio. 
Al riguardo, io ho sempre guardato con agognato interesse a questa citazione di Visalberghi, che in qualche modo riprende quella definizione, ma amplia la lettura e la portata strategica e politica:

"Quanto facilmente dimentichiamo che ogni valutazione dell'allievo dovrebbe essere, in effetti, un programma educativo in sintesi, cioè dovrebbe contenere spunti e indicazioni circa l'opera educativa ulteriore da svolgere nei suoi riguardi! Invece noi ci preoccupiamo piuttosto di sanzionare con i nostri voti e giudizi astratti criteri generali, che riteniamo socialmente “utili” invece di aiutare ogni individuo a trovare la strada di un suo armonico sviluppo, che è poi la sola cosa che anche socialmente conti davvero." [5]

Una considerazione conclusiva

È probabile che il compromesso che finora ha retto, non senza conflitti, questo coacervo di contraddizioni (e che ha valicato, credendosi indenne, persino il passaggio dai giudizi vigenti dal 1974 ai voti gelminiani e poi di nuovo ai giudizi per una metà di istituti sempre meno “comprensivi” e il ritorno ai voti per l’altra metà), con il "Ministero del Merito" (se alle parole sulla carta intestata dovessero corrispondere atti conseguenti) potrebbe non reggere più e i nodi potrebbero venire al pettine. E forse sarebbe un bene, così almeno si uscirebbe dalle modalità sostanzialmente ipocrite che governano le pratiche valutative nella scuola italiana, con esiti disastrosi sia per gli allievi che per la sua stessa credibilità (della scuola). 

Per questi motivi, oggi, per ribadire e applicare i presupposti di un’etica professionale competente e coerente e al contempo per indicare una  finalità strategica e sociale più ampia, bisognerebbe chiedere l’abolizione della valutazione numerica in tutti gli ordini di scuola e la cancellazione della nuova denominazione del ministero “del Merito”; scelta, quest’ultima, certamente politica e di parte: la parte che, come il neo Ministro, ritiene che la finalità educativa consista nella ricerca e nella selezione del merito per le eccellenze (e i salvati) e nell’applicazione di qualche tipo di gogna stigmatizzante o di salutare pratica umiliante per i dispersi (e i sommersi).
Purtroppo da anni non si possono scrivere e applicare norme sulla valutazione coerenti con le scienze e le discipline psicopedagogiche e con una visione non meritocratica della società perché il Parlamento probabilmente non le approverebbe, forte del consenso di molti. E questa è la cosa più triste: che misure educative fondamentali per lo sviluppo umano delle persone e lo sviluppo civile della democrazia del Paese siano di fatto impedite dalla (dittatura della) maggioranza. E ora che la maggioranza ha fatto un ulteriore passo a destra, c’è anche il rischio, con il “Ministero del Merito”, che l’unica strada per rivendicare anche solo coerenza e dignità professionali diventi la disobbedienza civile. Come avvenne ai tempi del ministero Gelmini con il ritorno al voto nella scuola di base.

Per questo bisogna scrivere e sottoscrivere documenti come questo in cui anche la coerenza professionale diventa affermazione politica: atto quasi umiliante, che, nel farlo, evoca e provoca sofferenza e disagio. Ma lodevole e necessario.
 E allora sottoscriviamolo anche per conto di Rousseau, TolstojDewey, Montessori, Visalberghi, Freire,  Freinet, Lodi, Milani, Ciari, Manzi, tanto così solo per citare alcuni che non possono firmare di persona. Lo facciamo anche in nome loro. E, visto che diventa un atto politico, chiediamoci anche chi non firma per conto di chi e perché non lo fa. In nome di quale idea di scuola. E di società.

Per firmare il documento
 

Note


1. Qui, per esempio, la “valutazione educativa” è descritta in modo un po’ più faticoso: "Premessa concernente la valutazione educativa", in "Pedagogia più didattica", vol. 3, n.1, 2017.
2. Cfr. M. Ambel,
"Prolegomeni per una storia della valutazione ", in "insegnare", 1.05.2022.
3. Le differenze teoriche e pratiche fra le due concezioni, se ci sono, non sono qui oggetto specifico del ragionamento poiché entrambe perseguono i fini qui posti all’attenzione.
4.
 
 Si aprirebbe la necessità (assai pertinente, ma qui fuori misura)  di affrontare le differenti posizioni di chi finalizza la scuola all’acquisizione di conoscenze o comunque di esiti misurabili e di chi invece guarda al consolidamento di competenze necessariamente solo descrivibili e di che cosa si intenda per le une o le altre: questione quanto mai rilevante che la scuola spesso risolve con colpevole semplificazione, limitandosi ad affiancare le due modalità, assegnando voti o comunque parametri quantitativi a suggellare descrizioni qualitative, come si fa al lunedì con le pagelle dei giocatori di calcio.
5.  A. Visalberghi, Esperienza e valutazione, La Nuova Italia, Firenze, 1975.

Parole chiave: valutazione, voti

Scrive...

Mario Ambel Per anni docente di italiano nella "scuola media"; esperto di educazione linguistica e progettazione curricolare, già direttore di "insegnare".

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