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editoriali

14/07/2019

Interrogativi

di Mario Ambel

Alla prima lettura (anche alla seconda e alla terza) dell’articolo di Silvia Ronchey “Perché siamo tornati analfabeti”, “la Repubblica”, 13.07.2019, vengono alla mente alcuni interrogativi per così dire collaterali, che esulano dalle nostre competenze, anche se sono tutt’altro che marginali e su cui oltre tutto  paghiamo le conseguenze; intendo noi, che ci occupiamo di scuola, perché ci insegniamo, la studiamo da anni, ne conosciamo vizi e virtù, seppure ovviamente dal nostro opinabile punto di vista.

Interrogativi collaterali

Vediamo sommariamente questi interrogativi collaterali.
- Perché un quotidiano come “la Repubblica”, a fronte della solita bagarre sensazionalista sollevata dall’annuale (e ripetitivo) rapporto Invalsi, nella pagina “Cultura” (non Propaganda), a tutto campo, decide di avviare “le riflessioni sulle cause” con un articolo livoroso e banale nell’assunto di fondo, che alimenta più lo scontro di superficie che l’analisi seria di una questione assai complessa? [1]
- Perché un’intellettuale come Silvia Ronchey (credo che tale si debba definire una docente universitaria, saggista, filologa, specializzata in storia e cultura bizantina) si lascia sedurre dal desiderio di scrivere un testo che oltre ai passaggi anche un po’ spocchiosi, palesa una totale ignoranza delle cose di cui parla, ovvero della storia e delle condizioni reali del sistema scolastico italiano, sul quale dà giudizi assai infondati? [2]
- Perché  l’autrice affronta non solo fenomeni complessi e di difficile soluzione offrendo ritrite spiegazioni tranchant, ma non si fa neppure scrupolo di leggere, non dico il testo integrale, ma anche solo qualche buon abstract del report da cui prende le mosse la polemica che il quotidiano le chiede di alimentare?  [3]
- Perché è così permanente e pervasiva, nei quotidiani nazionali, nell’accademia, negli stessi partiti politici di destra e sinistra  la lettura macchiettistica del sessantotto e delle sue conseguenze sulla storia del paese? [4]
A questi interrogativi collaterali dovrebbero dar risposte (meno polemiche e più competenti di quelle che ho proposto in nota a corredo di ciascuno) chi si occupa di teoria e prassi della comunicazione contemporanea e di analisi dei comportamenti sociali delle classi colte. Io mi occupo di scuola e in particolare di didattica della lingua italiana e delle competenze comunicative. E attorno alla scuola, vorrei porre, sulle questioni sollevate dal rapporto Invalsi (quello che enfaticamente la stessa pagina di repubblica definisce il “rapporto shock dell’Invalsi”), una serie di interrogativi che ritengo più pertinenti alla serietà del tema.

Una risposta ad una tesi nota

Abbiamo scritto che cosa pensiamo di tesi analoghe e quelle sostenute nell'articolo di Silvia Ronchey in "L'aula è vuota? Più di una recensione" di Fiorella Paone sul  volume di Ernesto Galli della Loggia

Che cosa pensi il Giscel su questi temi si può leggere nel contributo di Alberto Sobrero, “C’è un nuovo analfabetismo?”, dal sito Giscel.

Considerazioni sensate sull'ultimo rapporto Invalsi e soprattutto sul bla bla degli analisti improvvisati si trovano nel contributo di Mila Spicola, "Le letture deformate delle prove Invalsi da 55 milioni di 'esperti'", da Huffpost.

Le nostre posizioni e proposte in tema di educazione linguistica sono ampiamente deducibili dai molti contributi facilmente reperibili sulla rivista; ci limitiamo a segnalare, fra le analisi più direttamente didattiche, Lingua e testi oltre l'ora di italiano, "dossier insegnare",  n. 1/2010, scaricabile gratuitamente qui

Prima, però, una sola risposta alla peraltro nota tesi di fondo dell’articolo di Silvia Ronchey: la responsabilità della involuzione qualitativa e di risultati della scuola italiana (e dell’intero paese) sarebbe tutta da imputare alla “falsa idea di cultura democratica”, figlia del sessantotto e, nel caso dell’analfabetismo linguistico e funzionale, della “educazione linguistica democratica”, di cui anche la Ronchey - sulla scia di suoi predecessori (Gelmini, Mastrocola, Galli della Loggia, Tomasin) - imputa, pur senza nominarli - a Tullio De Mauro (e all’allora Partito comunista italiano) la responsabilità culturale, sociale e politica. Manca Don Milani, imputato a latere, ma è omissione certamente dovuta alla fretta. È la nota tesi che la gattina furiosa dell'egualitarismo di sinistra avrebbe prodotto gattini ciechi e ignoranti.
Ebbene, vorremmo rassicurare al riguardo sostenitori e detrattori di questa tesi. È tutto da dimostrare che l’abbassamento degli esiti della scuola (per altro da analizzare e conoscere meglio) sia da attribuire a questa causa principe. Di due cose chi si occupa da tempo di insegnamento dell’italiano è invece certo: assai poco di come si è insegnato "italiano" in questi quaranta anni e più ha a che fare con i principi e le indicazioni delle “10 Tesi per l’educazione linguistica democratica”, che di quella stagione furono il “manifesto” culturale e metodologico. Non solo, ma la stragrande maggioranza degli insegnanti (e sempre più dalla primaria alle superiori e sempre più negli ultimi vent’anni) ha continuato a insegnare con idee guida, contenuti e metodi che non solo sono in netta antitesi con quei principi, ma che anzi sono assai più coerenti con l’idea di scuola che propugnano i detrattori di quelle “Tesi”. Senza contare che l’ “educazione linguistica democratica” non ha mai alimentato quella che “la Repubblica” definisce nel sommarietto laterale dell’articolo della Ronchey “un’ideologia: illudere il popolo che la conoscenza è semplice”. In compenso sarebbe utile studiare e conoscere il lavoro che migliaia di insegnanti democratici hanno condotto in questi anni nelle periferie urbane, nei centri di vecchia e nuova immigrazione, nelle scuole frequentate dagli allievi che la scuola "seria" che piace ai nostri detrattori seleziona ed emargina.
Confondere il lavoro di moltissimi docenti per insegnare a leggere e scrivere nelle condizioni e nei contesti in cui farlo è più difficile, e non solo agli allievi che arrivano a scuola già “imparati”, chiedendo a ciascuno di dare il massimo di sé, anziché porsi mitici e spesso nostalgici traguardi astratti, con la volontà di banalizzare la conoscenza e la cultura è assai falso, strumentale e anche offensivo.

Interrogativi più pertinenti

E veniamo, sommariamente, agli interrogativi più pertinenti. Proviamo davvero, su alcune questioni strategiche, con ricerche adeguate e non solo in modo impressionistico, a chiederci
- sulle prove Invalsi: che cosa realmente esse verificano e misurano; che cosa significa, per esempio, misurare la comprensione di un testo che viene letto su video per rispondere a domande sempre più parcellizzate che stanno due o tre videate più in basso, ritornando al testo per trovare la risposta e poi di nuovo alle risposte proposte per dare quella ritenuta giusta; quale idea di lettura e comprensione e di rapporto mente-occhio-“pagina” emerge da questa pratica, con quali conseguenze sull’idea di lettore che intendiamo promuovere ancor prima che verificare e misurare; se davvero un bambino di quinta primaria con in mano un tablet per rispondere alle prove di comprensione dell’Invalsi è l’immagine di lettore che capisce che vogliamo perseguire;
- sui dati del rapporto Invalsi: che cosa realmente ci dicono, analizzando le poche buone notizie (i lievi miglioramenti percentuali) e le persistenti zone d’ombra (soprattutto il fatto che da anni ci restituisce l’immagine di una scuola nazionale segnata da profonde differenze e disuguaglianze di risultati: fra materie, fra ordini di scuola, fra nord e sud, fra territori, fra scuole e plessi dello stesso territorio, fra maschi e femmine, fra italiani, immigrati di prima e seconda generazione, fra strati sociali…);
- sulla dimensione socioculturale del curricolo scolastico: perché i risultati mediamente peggiorano man mano che si prosegue nel processo di scolarizzazione anziché migliorare; quali sono le cause reali che caratterizzano le aree di disagio, dove i risultati non soddisfacenti coincidono con la sofferenza sociale ed economica e la selezione interna al sistema, facendo pensare che l’estensione dello 0-6, il tempo pieno e un innalzamento dell’obbligo non burlesco servano assai di più a migliorare i risultati della serietà presunta e delle bocciature propugnate dai fautori della severità educativà, del complemento predicativo del soggetto e della pedana (esiti peggiori e bocciature sono direttamente proporzionali, nelle prove Invalsi, come nelle scuole…);
- sui rapporti fra prove e didattica: quali gravi danni ha prodotto in questi anni aver confuso indagini conoscitive sullo stato degli apprendimenti e valutazione dei singoli o di segmenti del sistema; quale rapporto c’è o ci deve essere e soprattutto non essere fra queste prove e la didattica della lettura e della comprensione del testo (cartaceo? a video? misto?); quale rapporto c’è fra didattica della lettura e comprensione (qualcuno vuole preoccuparsi di rilevare come viene davvero esercitata? con quali strumenti e supporti? con quali metodologie?) ed esiti delle prove Invalsi; quali sono state le effettive ricadute non solo della didattica sugli esiti, ma anche delle prove e dei relativi supporti editoriali sulla didattica reale;
- sull’insegnamento linguistico: in che misura le università italiane insegnano a insegnare a leggere e capire testi; e se non lo fanno perché non lo fanno; quanti sono gli insegnanti (e allocati dove) che anziché insegnare a leggere e capire testi (anche letterari ma non solo) continuano a fare storia della letteratura o a proporre i “classici” che a loro di dire non si può fare a meno di "conoscere", anche se non li si capisce; perché il rapporto fra “grammatica”, comprensione e scrittura produce da sempre esiti nel complesso insoddisfacenti, con buona pace dei nostalgici dell’analisi logica (altra truppa assai diffusa fra coloro che parlano di scuola pur occupandosi di tutt’altro); perché e in che misura le nuove norme sugli esami conclusivi di I e II grado introducono novità che delegittimano e vanificano teorie e pratiche didattiche di efficace insegnamento linguistico; chi insegna a leggere e capire i testi di contenuto disciplinare sui quali vertono ormai la maggioranza delle prove e degli esami, mentre molti docenti di italiano hanno ricominciato (dopo quaranta anni ) a leggere L'aquilone di Pascoli (forse dopo aver letto qualche detrattore delle "10 Tesi"?);
- sulla politica scolastica: perché da più di dieci anni il rapporto Invalsi ci racconta più o meno le stesse cose, senza che si faccia nulla per provare davvero a migliorare la situazione, ma neppure per far sì che lo stesso Invalsi ci fornisca dati più utili ad affrontarla, smettendola di sciorinarci dati censuari che servono solo a stilare classifiche e alimentare polemiche giornalistiche ripetitive, stantie e sostanzialmente inutili e provando invece a fare ricerche campionarie e qualitative che ci forniscano indicazioni utili a migliorare i contesti e i processi.
 

Ecco, queste sono solo alcune delle domande serie (molte non sono neppure nuove, ma eluse da molto tempo) che potremmo porci.
Sarebbe importante che Invalsi, Indire, MIUR e Università italiane cominciassero davvero a porsi interrogativi pertinenti e a offrire qualche strategia adeguata ad affrontare la complessità di questi problemi. Magari, provando a fare qualcosa che vada nella direzione di arginarli, anziché continuare a inventarsi soluzioni apparenti che spesso li amplificano: la patologia della valutazione, la tragica barzelletta della presunta "oggettività" dei voti decimali, la diffusione dell’informatizzazione, la chiamata diretta dei docenti su progetti collaterali e istanze locali, l’alternanza scuola lavoro, oltre ovviamente alla riduzione delle risorse e alla totale indifferenza per la formazione dei docenti.  E quel che manca lo farà l’autonomia differenziata, apoteosi ed epilogo di tutte le disuguaglianze. In attesa, poi, dei report regionali in patetica competizione fra loro.
Senza questo lavoro serio e provvedimenti conseguenti, dovremo accontentarci di continuare a leggere spocchiosi commenti a report non letti che ci propongono la serietà del tempo felice, quello in cui, prima degli anni Settanta, la cultura era cultura, la comprensione comprensione, la grammatica grammatica, e il potere potere. Oggi, in effetti, è tutto così confuso e banalizzato. Al punto che affermare di sapere di chi è la colpa è certamente più frutto di presunzione che di conoscenza. Anzi di competenza del settore e degli oggetti di cui si (stra)parla.

 

Note

1. Forse per far concorrenza al “Corriere della Sera”, che qualche giorno fa ha ospitato la recensione-lancio di un libro di Ernesto Galli della Loggia che sostiene più o meno le stesse tesi?
2. Forse perché, in fondo, ha assai scarsa stima e rispetto dell’oggetto del suo discorso, ovvero del sistema scolastico italiano e di che cosa possa essere una pratica democratica dell’insegnamento linguistico?
3. Forse perché il suo articolo è un limpido esempio di quella subcultura del pressappoco e del superficiale  che lei stessa intende criticare e che è assai diffusa, non solo tra chi la esprime a spizzichi contratti di lessico inadeguato e volgare sui commenti social, ma anche tra chi esibisce una sintassi ben costrutta, figlia di quegli studi classici di cui non perde occasione di dare sfoggio e tessere vane lodi?
4. Forse perché spesso è ricostruita  e interpretata soprattutto da chi, con quel periodo, non ha fatto i suoi conti personali e politici?
 

Scrive...

Mario Ambel Per anni docente di italiano nella "scuola media"; esperto di educazione linguistica e progettazione curricolare, già direttore di "insegnare".