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opinioni a confronto

23/06/2018

Due interventi sulla professione docente

di Carlo Bernardini e Silvia Tamburini

Nel n. 1/2 di "insegnare" del 2012 esce questo articolo di Carlo Bernardini sui rapporti fra scuola e università, fra insegnamento e ricerca, nel quale Bernardini, illustre scienziato e "accademico", afferma la fondamentale importanza del "saper insegnare" e la inscindibile complementarità fra le due dimensioni. Si tratta di un tema quanto mai attuale, che ricorda una delle lacune più gravi del sistema scolastico italiano: la preparazione dei docenti a essere al contempo insegnanti e ricercatori.

 

Professori

di Carlo Bernardini

Non ci sono dubbi: in tutte le varianti (e sono molte, con varie differenziazioni più o meno sfumate) previste da un buon vocabolario contemporaneo – l’ultimo De Mauro, per esempio – per essere chiamati professori bisogna insegnare e, quindi, saper insegnare. Non basta essere colti, esperti e competenti di qualcosa per trasmettere quel qualcosa a mezzo di insegnamento: bisogna anche saperlo fare, comunicarlo al modo adatto a un docente ma anche ai discenti. Il che non è una virtù naturale, anche se qualcuno ne ha più di altri; dico, però, che per essere qualificati professori bisogna accettare di praticare l’insegnamento e, nell’interesse pubblico, bisogna praticarlo al meglio. Anzi, l’arte di insegnare va tenuta, proprio per la sua funzione pubblica di trasmissione delle conoscenze lungo la catena delle generazioni, come la più preziosa, produttiva e rispettabile delle attività umane.

I professori universitari, spesso detti “accademici”, non sono estranei a questa categoria generale. O, almeno, non dovrebbero esserlo: perché la loro attività di comunicatori di conoscenze consolidate nella cultura, si intreccia con la loro attività di produttori e conservatori di quelle conoscenze, ma anche con quella di fornitori esemplari di metodologie adatte alla produzione e conservazione; sono, insieme con la capacità di insegnare, anche ricercatori e autori.

E qui nasce spesso un possibile conflitto di interessi personali, nel caso particolare degli accademici: ce ne sono, e non pochi, che si esaltano per i risultati e i riconoscimenti che ricevono come ricercatori e autori ma detestano l’insegnamento come fosse una perdita di tempo prezioso dedicato a uditori recalcitranti e ignoranti. Ne ho conosciuti troppi con siffatte remore, accanto a molti che non le hanno, per non dichiararmi francamente preoccupato per il possibile disastro evolutivo indotto nella cultura dell’umanità. Il riprovevole fenomeno si appalesa già nelle regole di cooptazione: mentre la produzione è duramente usata per discriminare candidati ai posti di professore, la qualità didattica del futuro “docente malgré lui” non è minimamente presa in considerazione.

Nei rari casi in cui un accademico, dopo avere conquistato la promozione con onesto lavoro di ricerca o di produzione testuale, decida di darsi all’insegnamento e agli allievi, si dirà a futura memoria che è un Maestro e che ha fatto Scuola, con le maiuscole che serviranno a distinguere il suo rango da quello degli insegnanti delle scuole preuniversitarie che non richiedono produzione né di risultati né di testi, ma solo di titoli di accreditamento come una laurea più o meno specifica e una prova concorsuale scritta.

Eventuali titoli di merito in più, pubblicazioni per esempio, questa volta non fanno premio. Poi, di fatto, un tirocinio autogestito trasformerà in docente e consentirà l’appellativo di professore o di maestro (minuscolo) al “lavoratore scolastico” al quale, al massimo, sarà stata offerta una confezione di prodotti pedagogici di cui si servirà ben poco nel suo mestiere. Dunque, la distinzione tra Professori e professori, Maestri e maestri, ancorché sbandierata con caratteri a stampa, in definitiva è nota a tutti; e il fatto che i Professori siano bene o male considerati intellettuali di interesse nazionale e i professori siano invece solo figure istituzionali di un qualche pubblico interesse è una realtà digerita e immutabile da tempo.

Ebbene, questo è uno dei più grandi errori di “reclutamento” delle democrazie evolute contemporanee, se combinato con le altre figure sociali che presiedono allo sviluppo socio-economico delleni. La comprensione razionale della realtà, realtà che è in parte naturale e in parte fatta di individui, in interazione gli uni con l’altra, è la sola fonte di benessere, di giustizia e di felicità che possiamo aspettarci. L’innovazione tecnologica non esisterebbe se non esistessero la ricerca di base (le “conoscenze”) e l’insegnamento che le trasmette. La politica non esisterebbe senza la storia con chi la interpreta e chi la trasmette. Lo stesso dicasi per le leggi, per la sociologia, le arti e tutto ciò che fa cultura.

Dunque, è giocoforza decidersi a ritoccare il sistema dei Professori-professori, a dare valore, credito e remunerazione all’altezza di uno dei compiti più importanti dei paesi del mondo, evoluti e non.
Basterebbe guardare con tutta l’attenzione di cui siamo capaci con i nuovi mezzi di comunicazione istantanei e ubiquiti per renderci conto del fatto che i paesi emergenti stanno uscendo dal loro stato precedente attraverso l’uso della scuola e per concludere che noi stiamo regredendo a un primitivismo che mantiene solo i peggiori dei traguardi raggiunti: crisi economiche, pulsioni militari, sprechi di risorse, calo dell’altruismo, convinzioni dottrinarie, e più ancora.

La situazione sembra, almeno a me, talmente incancrenita da farmi pensare che se c’è da inventare qualcosa, qui, è un nuovo tipo di rivoluzione, assolutamente non violenta, che introduca una forma di decisionismo saggio e una misura, accettabile da tutti, dei diritti individuali, nonché un modo di guadagnarsi la stima di quei miliardi di individui che abbiamo saccheggiato senza alcun compenso o vantaggio per loro. La nostra, ormai, è una cultura dei soldi, che superano in ogni altra qualità, che non sia il valore in denaro, ogni vero bene materiale; e figuriamoci poi che ne è e ne sarà dei beni immateriali!
Una rivoluzione non violenta è, in realtà, un insieme di intenzioni da accreditare per attuarle poi attraverso un processo dialettico efficace e condiviso: non si tratta di indottrinare una massa di persone per poi farle marciare verso un obiettivo intonando suggestivi canti e slogan; si tratta piuttosto di fare un accordo popolare nel quale vengano alla luce priorità nelle scelte sociali che già covano nelle persone che le hanno studiate ma soccombono poi nella comunità perché realizzano diritti accettando doveri e non, semplicemente, rivendicandoli. Dunque, sono scelte in cui l’interesse pubblico è, in corso d’opera, riconoscibile tra gli interessi individuali.

Occupiamocene; e presto.

 

Pochi mesi dopo, "insegnare", in occasione del 50° anniversario dell'istituzione della Scuola Media Unica, che si appresta a celebrare con una serie di convegni, chiede ad alcuni docenti di rispondere a questa domanda: “Che cosa serve davvero alla scuola? Oggi per domani”.
Quella che segue è la risposta di Carlo Bernardini e di Silvia Tamburini, che uscì sul n. 4/5, 2012 della rivista.

Quello fu anche l'ultimo articolo della versione cartacea di "insegnare", ovvero l'ultima "pagina" che pubblicammo; poi, dopo 27 anni, la rivista si trasferì "in rete".

 

Essere insegnanti

di Carlo Bernardini e di Silvia Tamburini

Una volta raggiunta una certa anzianità, “essere stati” insegnanti dovrebbe spingere a spiegare fuori dai denti le luci e le ombre di uno dei ruoli sociali più “sensibili” delle comunità umane evolute: basta pensare a come i nostri amici immigrati parlano con rispetto della scuola che non hanno, o a come i popoli emergenti stanno puntando tutto sull’insegnamento per accrescere la loro velocità di crescita, per renderci conto della centralità sociale della scuola. E da noi, invece, chi insegna è ormai regredito, nella considerazione popolare, nel ruolo di chi fornisce un traghetto tra infanzia e adolescenza: basta che non abbia scosse, sia garantito e risponda a criteri tradizionali di normalità.

Questa mentalità, ormai consolidata, riduce la formazione dei docenti a un mero automatismo finalizzato a certi requisiti burocratici di impiego, che dà diritto a un orario di lavoro minimo garantito e a una retribuzione che appare equa in rapporto a certe autonomie e vacanze tradizionalmente riconosciute e spesso oggetto di gossip.
Di meriti, esiti collettivi del buon insegnamento, collocazione nella comunità intellettuale, ruolo individuale e storico degli esponenti di spicco, poco o niente si parla. Gli italiani di oggi, pensando ai docenti dei loro figli, li classificano con stereotipi: precari, severi, lassisti, eccetera.

È diventato quasi un incomprensibile piagnucolio di vecchietti raccontare le eccezionali qualità di un Maestro dei tempi andati benché abbia lasciato visibili tracce. Quanto alla retribuzione, non se ne può nemmeno parlare. Se non sono queste le “condizioni al contorno” più significative per parlare di scuola, non sappiamo di cosa altro potremmo parlare al di là dei temi classici su cui si esercita stancamente e distrattamente la cronaca: orari, stereotipi di contenuti didattici, valutazione con voti e giudizi, simpatie e antipatie personali, e così via.

A noi sembra perciò indispensabile parlare dell’opportunità indiscutibile di cambiare il “modello sociale” degli insegnanti, per vincere una guerra ormai annosa, convinti che l’intendence suivra. Le scuole devono diventare liberi centri culturali in cui i fossili della didattica si raccordino con l’attualità; le scuole devono diventare i frammenti di una intenzione comune di progresso culturale nazionale che contenga una chiara consapevolezza degli effetti positivi della scuola sulla gestione politica del paese, sull’evoluzione della ricerca e dell’innovazione, sulla disponibilità delle risorse, sul benessere, sull’equità dei diritti: non basta la lettura dei giornali, la conoscenza dei dati ISTAT e l’analisi della Costituzione repubblicana a fare un buon cittadino, bisogna anche sapere “come” si fa. E bisogna discuterne, senza preoccuparsi dei malumori dirigenziali o ministeriali.

Insomma, la scuola ha compiti immani, molto concreti ma ormai ridotti in polvere. Bisogna ricomporli. Veniamo al sodo.
Per cominciare: l’Università riapra il cantiere: promuova indirizzi didattici disciplinari liberi da muffe pedagogiche onnivore; si faccia una laurea abilitante di secondo livello con tirocinii in corso d’opera; si stabiliscano compensi differenziati per gli autori di strumenti didattici non comuni; si prevedano occasioni di insegnamento all’estero concordati con la Comunità Europea; si pubblichi un bollettino che raccolga le esperienze scolastiche ripetibili.

Ci siamo capiti, credo: tutto ciò deve essere preteso dagli insegnanti, non da un funzionario illuminato che non esiste e che, se esistesse, le confonderebbe con “pretese sindacali”.
No, dobbiamo risolvere il più genuino problema di qualità. Con enormi effetti generazionali.

Per una curiosa, e a suo modo preoccupante, coincidenza nel primo  di "insegnare" - uscito a gennaio del 1985 - Maria Luisa Altieri Biagi (altra voce che ci manca!) scrisse un articolo
dal titolo “L’educazione linguistica nei nuovi programmi delle elementari” con cui sollecitava a fare dell’uscita di quei programmi “una occasione importante di rinnovamento professionale e didattico”.
In quell'articolo tratteggiava a suo modo il rapporto fra scuola e università, scrivendo queste parole.

«Appartengo alla categoria dei professori universitari che vogliono lavorare con gli insegnanti.
Certo, non siamo ancora molti a nutrire questo desiderio ed è innegabile che vi sia da parte
dell’Università una qualche freddezza, o snobismo se si vuole, nei confronti del mondo della
scuola. Penso però che questi nuovi programmi della scuola elementare, con tutti i dubbi che
hanno posto e i problemi che porranno, siano un’occasione importante per ricucire rapporti più
diretti e organici fra questi due mondi, purtroppo per lunga tradizione separati: il mondo della ricerca cosiddetta “pura” e quello della ricerca applicata alla didattica.» (Maria Luisa Altieri Biagi, "insegnare", n. 1, 1985).

Quanto la reale attuazione di quei rapporti sia stata trascurata con le conseguenze assai tristi che dobbiamo quotidianamente scontare è ormai palese a tutti. Solo alcuni, ma purtroppo sono coloro che governano la scuola, si ostinano a pensare che come valutare, descrivere, classificare, ponderare, comparare gli esiti dell'insegnamento sia più importante che garantire efficaci condizioni di apprendimento.

 

Parole chiave: bernardini

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