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opinioni a confronto

23/06/2018

In ricordo di Lucio Lombardo Radice

di Carlo Bernardini

Nel 2007, a 25 anni dalla morte, Carlo Bernardini scrisse questo breve e intenso ricordo di Lucio Lombardo Radice, che ci restituiva, accanto ad alcuni tratti di una delle maggiori figure della cultura  italiana degli anni Sessanta e Settanta, il sapore ideologico di quel periodo e degli scontri politici che li animarono.

Venticinque anni fa, se ne è andato Lucio. La constatazione più importante da fare è che “ci manca”. Ma non sarà facile rendere l’idea, a chi non lo ha conosciuto, del significato di questo “ci manca”.
La letteratura di tutto il mondo è piena di abbandoni, dipartite, scomparse improvvise: ma si tratta di singoli dolorosi episodi, vortici isolati e improvvisi in un mare di umanità in cui un personaggio viene risucchiato per non riemergere mai più. Lucio era un intellettuale sfrenatamente pubblico, onnivoro e onnigrafo, che riteneva un dovere farsi un’idea su tutto ciò che suscitava dibattito e poi esprimerla al momento opportuno, senza riguardi. I rigoristi dicevano di lui che era terribilmente dispersivo; ma è proprio questo che suscitava meraviglia: si può essere coerentemente dispersivi senza cadere nella confusione e nel caos, ma solo Lucio, tra quelli che ho conosciuto, riusciva a governare se stesso con tanta perizia. E navigava tra l’algebra, la storia, il marxismo, la pedagogia, la letteratura, la biologia, l’arte, la teologia e la religione; amico di politici, preti, fisici, giuristi, giornalisti, sociologi, linguisti, a ciascuno dei quali era caro per il pensiero che poteva dare e che generosamente elargiva. Bastava criticarlo alle spalle per apparire gretto e intollerante: non che le sue opinioni fossero fuori discussione, anzi, egli stesso era pronto a scontrarsi con qualsiasi diverso; ma mentre Lucio accettava ogni sfida, talvolta accadeva che i suoi interlocutori fossero assai meno flessibili e tentassero colpi bassi; del che, Lucio, rideva producendo aneddoti che noi vicini a lui conoscevamo bene. Questo modo di fare è il sintomo più evidente di una dote che pochi possiedono in quella misura: la curiosità.

Entrai a dargli mano nella piccola squadra della rivista Riforma della Scuola nei primi anni ’70, quando Lucio e l’inseparabile Mario Alighiero Manacorda cercavano di fronteggiare la Democrazia Cristiana rimediando a una certa arretratezza della Sinistra sui problemi della formazione dei giovani. I D.C. erano agguerriti e competenti, da secoli la Chiesa teneva d’occhio i bambini e gli adolescenti consapevole dell’inprinting indelebile che l’indottrinamento precoce poteva produrre nelle menti immature. Erano furbi, i D.C., i loro maestri lo erano da secoli e insegnavano loro molto presto come si governano le anime.
Ricordo che Lucio disapprovava il mio estremismo anticlericale (gli facevo notare che i preti facevano esattamente ciò che essi stessi attribuivano al demonio; l’invenzione più suggestiva della favolistica ecclesiastica: l’astuzia era diabolica, sì, ma i preti ne erano maestri; l’anima, al cui possesso aspiravano, si poteva però vendere al diavolo se le garanzie ultraterrene non apparivano plausibili; e così via); ma lui confutava pazientemente le mie “esagerazioni”, ridendo: l’astuzia era un modo incruento per risolvere i conflitti, aveva senso preoccuparsi di salvare l’anima, un’utile semplificazione e così via.
Se ne andava in cima all’Argentario dai suoi amici frati che lo rispettavano come loro simile benché comunista. Erano tempi in cui bisognava mediare: la curia aveva un potere enorme, i politici di quella parte erano tutt’altro che sprovveduti, trattare era un’arte (Franco Maria Malfatti o Franca Falcucci avevano le idee chiare; le nostre erano più confuse e meno tradizionali). Lucio sarebbe stato un parlamentare ideale per il PCI; ma lo lasciarono fuori del gioco; e un po’ se ne rammaricò, in privato. Il fatto è che immaginava saggiamente che prima di svelare la povertà ideale di cosiddetti “avversari politici” si dovesse fare pulizia in casa; il che lo aveva portato ad un enorme interesse per tutti i “dissidenti”, dei quali si faceva biografo, difensore o portavoce senza ipocrisie o concessioni alla propaganda; come diceva spesso di se stesso, per il Partito Comunista era un “uomo scomodo” e forse non tutti i compagni si rallegravano di tanta sincerità.

Il suo sfogo era scrivere. L’educazione della mente, del 1961, fu un libro importante per gli insegnanti, che i pedagogisti apprezzarono ma con il consueto sussiego accademico, che rende i meriti evitando di concedere primati per paura di interrompere il pigro scorrere di una disciplina che non sopporterebbe punti di riferimento troppo nitidi. Socialismo e libertà (1968), Gli accusati (1972), Educazione e rivoluzione (1976), Un socialismo da inventare (1979) sono tutti saggi che hanno le tracce di sofferenza e indignazione di una ricerca politica difficile, una ricerca di principi sociali migliori di altri e una analisi del conflitto tra la debolezza umana e una razionalità ideale, socialmente accettabile. Da questi testi si capisce spesso l’origine della sua indulgenza per la Chiesa, il sistema che ha giocato sull’egemonia spirituale per due millenni: anche a Lucio, probabilmente, sfuggiva la ragione profonda di un successo così abnorme.

Avremmo dovuto continuare a parlarne, con la consueta e spregiudicata franchezza; nell’ ’82, quando pensò che uno come lui non poteva mancare al movimento pacifista. Nonostante la fragilità del suo muscolo cardiaco, di cui era ben conscio, volle andare a Bruxelles a testimoniare; e si spense. Da quel momento, incomincia la sua mancanza. L’Italia stava entrando nel più torbido malaffare, politici impresentabili frustravano il popolo degli elettori, razzisti e mercanti, malandrini e profittatori aprivano le porte più segrete, e non avevamo più un Lucio che riflettesse ad alta voce per noi e con noi. Era un matematico e di questo nulla ho ricordato: ma di matematici ce ne sono tanti. Lucio Lombardo Radice era soltanto lui.

 

 

Parole chiave: bernardini

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