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20/04/2018

Prof "picchiati" e "provvedimenti"

a cura di insegnare

Sulla scuola è il tema del momento: i prof picchiati o bullizzati, da genitori e allievi.
Se ne parla da giorni. Del professore di scuola media che, dopo aver redarguito un allievo, è stato pestato dai suoi parenti e ha ricevuto poi una contestazione di addebito dal ds per accertare che cosa sia successo tra lui e il ragazzo. Dell'insegnante minacciata di venir sciolta nell'acido. Dell'altro docente che dichiara a "Repubblica" di "essere picchiato ogni quattro giorni" e chiede "Basta, difendeteci", almeno così nel titolo di venerdì 20 aprile, anche se poi nell'articolo non se ne ritrova traccia. E tanti altri ancora: 26 casi denunciati in Italia dall'inizio dell'anno: "Nell’era dello smartphone e di YouTube il fenomeno dei docenti insultati, umiliati, aggrediti è diventata una questione da emergenza sociale", scrive Corrado Zunino su "Repubblica".


E sull'"Espresso" del 19 aprile, Alessandro Buttitta scrive:  "Questo accade perché diversi studenti sono convinti che la scuola, intesa come istituzione, non ha alcun senso d'esistere. Svuotata di ogni utilità alla luce della progressiva svalutazione dei titoli di studio, essa è vista come un'imposizione". E aggiunge: "Qualche settimana fa un alunno pluriripetente, ancora in prima media a quindici anni, all'ennesimo rimprovero ricevuto, mi ha detto che per lui la scuola è una prigione e che gli insegnanti sono come le guardie carcerarie."


E forse invece di auspicare bocciature, ci si dovrebbe chiedere che senso abbia che un ragazzo di 15 anni sia ancora in prima media e a chi e a che cosa serva la permanenza. 

Sì, perché quello che fa male è che queste notizie e lo sfondo complesso e difficile che rivelano siano immediatamente usate per chiedere pene più severe o per tacciare di debolezza i docenti che, invece di denunciare e auspicare "provvedimenti" seri, tentano disperatamente di tenere aperto un dialogo educativo, una speranza di funzione positiva dell'essere e dell'andare a scuola.

Perché troppo spesso nell'affrontare questi problemi si dimentica che sulla scuola non si può ragionare in termini di "ordine pubblico", neppure quando viene aggredita. Accontentarsi di auspicare più ordine e disciplina è una risposta consolatoria, ma perdente. Qui non si tratta di giustificare  gli adolescenti aggressivi e violenti (ancor meno i loro genitori) o di porsi in un atteggiamento remissivo o incline al perdono facile e deresponsabilizzante, ma di alzare un poco il livello dell'analisi. E quindi delle strategie di risposta e di intervento.

Proveremo  a farlo, cominciando con un intervento di Jacopo Rosatelli, docente di lettere nelle scuole secondarie di Torino, invitando i nostri lettori a scriverci e ad aprire sul tema un confronto serio e  produttivo.


Segnaliamo inoltre altri interventi significativi sul tema. Anzitutto due contributi autorevoli, apparsi lo stesso giorno, domenica 8 aprile 2018: si tratta dell'articolo "La solitaria resistenza dei professori", di Massimo Recalcati ("la Repubblica", ora nel sito dell'autore) e  di "Rispettare i prof aiuta a costruire un Paese migliore" di Gustavo Zagrebelsky ("La Stampa"). Mentre su eddyburg del 20 aprile è possibile leggere alcuni altri interessanti contributi tratti da "Il manifesto" e "Il Corriere della Sera": una intervista di Alessandra Pigliaru a Benedetto Vertecchi e due articoli di Alba Sasso e Antonio Polito.
In tutti è interessante l'analisi, con sfumature diverse, del rapporto fra le responsabilità della scuola e quelle di una subcultura diffusa nell'universo "adulto" esterno alla scuola, che ha messo in circolo concezioni, aspettative e disvalori profondamente diseducativi.


Interessante, infine, e tutto da valutare e discutere, è il lungo intervento di Anna Angelucci su "MicroMega", 20 aprile, dal titolo, "Ammazziamo i professori", molto meno pertinente dell'analisi che vi è condotta. L'articolo pone in relazione gli eventi in questione e la valutazione delle loro cause con l'analisi dell'involuzione della idea stessa di scuola e delle relative didattiche, che si è verificata in questi anni. Anche se non ne condividiamo interamente le tesi riteniamo che sia questo infatti il terreno su cui la scuola debba indagare su e attorno a se stessa e ai diktat cui talvolta si adegua. Ed è anche quanto stiamo cercando di fare affrontando altre polemiche di questi giorni: si veda "Di nuovo conoscenze vs competenze!" e i contributi che via via stiamo raccogliendo al riguardo.


Ha fatto molto discutere l'amaca di Michele Serra del 20 aprile, al punto che l'autore ha dovuto scrivere un lungo articolo (il 21 aprile) in cui argomentare con maggior ampiezza il suo pensiero: "Aggressioni ai professori e classismo nelle scuole: la risposta di Michele Serra alle polemiche". Ha dovuto cioè difendersi da attacchi che egli imputa a una sorta di paradosso scatenato dal fatto di aver scritto una sorta di ovvietà: ovvero che gli episodi di aggressività nei confronti dei docenti e di riottosità all'interno delle scuole sono più frequenti negli ambienti socioculturali degradati e nelle scuole che accolgono allievi con minor reddito!
Apriti cielo! Una società consumistica e ipocrita, incapace di combattere le disuguaglianze di ogni tipo, non è certo in grado di ascoltare una simile ovvietà! E infatti Serra scrive: ""In altri tempi qualcuno mi avrebbe accusato di fare del facile sociologismo di sinistra. Ma i tempi devono essersi ribaltati se ora sono accusato di rappresentare l'establishment contro il popolo. Lo sdoganamento dell'ignoranza è uno dei più atroci inganni perpetuato ai danni del popolo, ed io penso (e lo scrivo da decenni) che faccia perfettamente parte dello sdoganamento dell'ignoranza l'idea che sia "classista" indicare con il dito proprio la luna: ovvero la differenza di classe".

Ma l'attacco finale di Serra ha infiammato il dibattito, che si è subito trasformato nello scontro fra vecchia e nuova concezione di che cosa significhi stare dalla parte del "popolo", fra sinistra riformista e neopopulismo, come l'un l'altro si identificano.  Questioni assai importanti e attuali, ma poco pertinenti con la natura e la sostanza di che cosa debba essere, in una società democratica, un patto formativo che funzioni. O meglio pertinenti solo se ci si pone nell'unica ottica che alla scuola, nel perimetro della nostra "Costituzione", sia legittimo porsi la questione: ovvero chiedendosi se e in che misura la scuola riesca ad essere uno, se non il più importante, degli strumenti con cui la "Repubblica" dovrebbe "rimuovere gli ostacoli" di cui parla l'art. 3.
Almeno per quelli - tra quanti me ricorda Serra - che attengono all'ignoranza e al controllo delle parole, dei gesti, degli strumenti di comunicazione e di espressione della propria identità. Perché alla rimozione della povertà dovrebbero provvedere altre istituzioni. Alla scuola, rispetto alla pèovertà, compete solo l'obbligo di non farne criterio di differenza. Ma neppure di merito.

Al riguardo, il consiglio a entrambe le schiere di contendenti "politici" è di riascoltere le parole di Piero Calamandre (1955) a proposito di che cose dovrebbe fare una "Repubblica" per potersi definire "democratica"... 

 

Anche sul ridare credibilità alla scuola, verrebbe da dire che molti, anziché stracciarsi le vesti sulle debolezza  delle punizioni scolastiche contro i reprobi, potrebbero impegnarsi per dare concretezza e applicazione a queste parole. 


Di mancanza di "fiducia" fra i diversi soggetti protagonisti del patto formativo che si vive a scuola parla invece su "insegnare" Margherita D'Onofrio, riproponendo una sua riflessione ancora attuale scritta a proposito di un fatto avvenuto in una scuola romana nel 2011.
Non appaia un modo di eludere il problema...



Da leggere e meditare, invece, i molti commenti  all'intervento di Concita De Gregorio che raccoglie e ripropone alcune lettere ricevute sull'argomento. I commenti, molti di insegnanti, ma non solo, delinenano i tratti di una società allo sbando, incapace di trovare la giusta misura di comportamenti adeguati alla convivenza civile. E per la quale affidarsi alla serietà e severità delle regole e delle punizioni appare a quasi tutti ormai l'unica forma di difesa. O di aggressione.