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12/07/2021

La “comunità educante”, oggi e... un secolo fa

di Lorenzo Luatti

Costantemente invocata negli interventi di contrasto alla povertà educativa minorile, la “comunità educante” conosce oggi una nuova giovinezza. Suscita consensi e convergenze, travalica i confini degli addetti ai lavori, diventa parola, ingrediente e chiave universale bonne a tout faire, con il rischio di svuotare e banalizzare un’idea e una pratica con profonde implicazioni politiche, culturali, sociali, etiche e pedagogiche. Ma un conto è consentire all’idea astratta, un conto è misurarsi sul concreto.

In quanto sistema complesso di relazioni e attori la comunità educante stenta a vedersi. Non appartiene alla prassi comune delle relazioni tra i soggetti, simili e differenti, di un territorio, né a quelle più feriali e tuttavia non meno importanti dei rapporti quotidiani tra persone. “Comunità educante” non è l’insieme delle agenzie educative che, di fatto, abitano un territorio e accompagnano i minori nell’acquisizione di competenze e saperi. Né coincide, appunto, con il territorio inteso come entità fisica: un territorio (e una “comunità educante”), come insegnano gli antropologi dell’educazione, non è mai solamente “locale” perché entra di fatto in una rete più vasta di “comunicazioni, viaggi, commerci e parentele” che lo collega ad altre parti della città, della regione, del paese, del pianeta.

Costruire intorno a questa presenza collettiva (ramificata e dislocata) un sistema integrato e diffuso dell’educazione capace di “tenere insieme” le differenze che caratterizzano i diversi attori è quanto più si avvicina alla pratica di comunità educante che stiamo sperimentando nei nostri contesti. Comunità educante intesa cioè come “cornice” di riferimento comune che, senza cancellare quelle differenze, fornisce loro una struttura per connettersi le une e le altre. Connette e ricama. Tutto ciò esige un lavoro paziente, condiviso, lungimirante, e una buona dose di immaginazione rispetto a processi, azioni, governance e sostenibilità.

Il risveglio della comunità educante è strettamente legato ai fenomeni di “povertà educativa” che spingono a guardare a 360 gradi i processi di crescita di bambini e ragazzi. Queste fortunate locuzioni asseriscono, nel contempo, la centralità della scuola e la sua insufficienza. Da una parte spingono ad inaugurare una nuova stagione nei rapporti tra scuola e territorio, spesso improntati a caratteri di occasionalità, strumentalità e delega, che portano la prima a percepire i soggetti del privato sociale come erogatori di servizi subordinati, marginali o soltanto legati ad aspetti emergenziali, e il privato sociale a guardare alla scuola come luogo dove organizzare laboratori e attuare “pacchetti” di progetti.
Anche da questo versante la pandemia è stata “maestra”: dal sud al nord della penisola, le maggiori capacità di risposta si sono registrate dove erano già attive collaborazioni significative con il privato sociale, dove cioè erano vissute come parte integrante del fare scuola e non come delega su ambiti specifici o sulla presa in carico di destinatari particolari. Da un’altra parte, il lavoro di “comunità educante”, ascrivibile ad un’azione di community empowerment network, spinge enti, agenzie e persone a maturare nuove consapevolezze e a sperimentare inedite collaborazioni, al fine di innalzare la qualità della proposta educativa, rafforzare ruoli, compiti e responsabilità socio-educative, risvegliare vincoli di reciprocità e di solidarietà, dopo il lungo processo di frammentazione del tessuto sociale, esito di decenni di egemonia neoliberista e dello scatenamento degli spiriti individualistici. La pandemia ha risvegliato la “voglia di comunità”, ma l’esperienza insegna che questi processi, per non rivelarsi effimeri, pretendono cura e manutenzioni costanti. 


In termini di consapevolezze, volontà e pratiche, il lavoro di costruzione della “comunità educante” registra oggi differenti “velocità” tra i vari attori protagonisti. Alla testa di questo “movimento” politico-culturale si collocano i più dinamici soggetti del terzo settore, spronati soprattutto da impresa sociale “Con i Bambini”, mentre gli enti e le istituzioni pubbliche sembrano mantenere una posizione di retroguardia, con tempi di reazione e maturazione più lunghi e complessi. Sicché al privato sociale, in questa fase, tocca ... “eccitare i meno pronti, consigliare i dubbiosi, dirigere chi abbisogni di guida”, sia al proprio interno, sia sollecitando enti locali e scuole a svolgere un ruolo primario (“registico”) di promozione di alleanze con le realtà educative con le quali condividere finalità e obiettivi comuni che mettono al centro del lavoro i minori e il loro sviluppo. Ma la comunità educante trova pure decisi oppositori e distaccati osservatori, soprattutto nella scuola, che vedono nella proposta, stante i significati e le finalità sottese sopra ricordate, un’operazione politico-culturale esperita dal privato sociale pro domo sua, che produce un ridimensionamento e una svalutazione della principale agenzia educativa e formativa. Ne sono dimostrazione eclatante le critiche pungenti, per il vero non del tutto infondate ma forse un po’ eccessive, che riviste e persone di scuola hanno rivolto al “curriculum dello studente”, introdotto in prima applicazione per la maturità 2021 [1], nella parte in cui esso prevede l’enumerazione delle attività extrascolastiche seguite dallo studente (indicative di competenze non formali e informali possedute dall’allievo).

Nondimeno, per questa sua alta funzione educativa e formativa e per ciò che essa è e rappresenta nell’immaginario collettivo, la scuola dovrebbe riappropriarsi del ruolo centrale, ancorché non esclusivo, nella infrastrutturazione di “comunità educanti”. Come è stato in alcune esperienze pioneristiche del passato dove la scuola «si fa(ceva) animosa, quasi invadente», la scuola si «mette(va) a capo di un movimento di risanamento morale del quartiere, del rione…»: così scriveva Giuseppe Lombardo Radice alla fine degli anni ‘20 del secolo scorso rispetto all’opera di “comunità educante” di alcuni uomini di scuola, come l’italo-americano Angelo Patri (1876-1965), maestro e poi celebre direttore didattico di alcune scuole multietniche del Bronx, precursore in tempi così lontani della scuola “inclusiva”, di una scuola che si fa comunità, e di una comunità che si raccoglie intorno alla scuola.  «Il problema educativo della scuola – osservava l’illustre filosofo e pedagogista – [è] il problema di tutta la comunità sociale, di cui la scuola è il nucleo. La scuola si fa animosa, quasi invadente. Chi educa è lo spirito educativo comune, che si incarna e si impersona in tutti i congiurati per il bene». [2]
Il forte convincimento che la scuola da sola non poteva farcela e che una visione scuola-centrica dell’educazione, della formazione dei saperi e delle abilità – la scuola come luogo di civiltà, dove si forma il cittadino e si acquisiscono gli strumenti necessari per la vita, la strada (sinonimo di ciò che è fuori dalle mura scolastiche) quale luogo di perdizione – era riduttiva e profondamente sbagliata, portò il maestro-dirigente Patri ad attivarsi al massimo per stringere “alleanze” educative nel territorio e ricercare forme di integrazione tra esperienze e apprendimenti formali-non formali, al fine di offrire ai propri allievi maggiori prospettive formative e di vita. 
Con il suo team docente, Patri si recava nelle case dei genitori degli studenti, trascorreva molto tempo on the road per incontrare la gente del quartiere – il dottore, il sarto, il prete, il negoziante, il cameriere del ristorante… –, ne ascoltava le storie, i timori, i problemi di ogni giorno, risvegliava e rafforzava in ogni individuo l’afflato e le responsabilità educative.
«La scuola vera, la grande scuola – scriveva nel 1917 mettendo in pratica l’insegnamento del movimento dell’educazione progressiva di Dewey –, è quella che è in stretto contatto con la vita e la nobilita, che si ritiene responsabile del suo vicinato, e che suscita negli uomini un movimento di ascesa verso il livello più alto che sia dato loro di raggiungere. La scuola che non penetrerà nel più profondo della vita delle persone che la circondano, sarà incapace di penetrare nella vita dei fanciulli che gli sono affidati. O la scuola sarà il grande strumento di socializzazione democratica, o non sarà nulla» [3]. Una scuola che sconfina e si lascia attraversare, una scuola aperta al territorio, non in modo simbolico ma reale, luogo di dialogo e di incontro, bene comune e forza rigeneratrice della comunità.

«Non la scuola assimilò lui, ma lui assimilò la scuola» osservò Lombardo Radice in Pedagogia di apostoli e di operai (1936). L’essere stato emigrante (era originario di Piaggine, nel Cilento) e avere vissuto la tipica condizione del figlio di immigrato nel quartiere italiano di New York, l’aver vissuto cinque anni sulla strada prima di accedere, undicenne, alla scuola pubblica americana, furono tutti fattori decisivi per far maturare in lui, divenuto uomo di scuola, un approccio nuovo e dinamico alla “comunità educante”, che ancora oggi a distanza di un secolo, mutatis mutandis, si rivela ricco di insegnamenti.

Note

1. Una buona sintesi della vicenda in C. Raimo, Il curriculum dello studente è l’ultima cosa di cui la scuola ha bisogno, in “Internazionale”, 20/05/2021.
2. Giuseppe Lombardo radice, Una visita di Angelo Patri, Roma, 1928.
3. Da
A. Patri, A Schoolmaster of the Great City, Macmillan, New York, 1917, p. 211; citato in G. Pepe, Il ritorno di Angelo Patri, "Il Fardella", Trapani, n.03/02.

Immagine


A lato del titolo: Murales nel quartiere Lunetta, Mantova; c.g. © insegnare- 2021

Scrive...

Lorenzo Luatti Ricercatore dei processi migratori e delle relazioni interculturali presso Oxfam Italia.

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