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16/11/2018

Danni alla scuola con il “nuovo” reclutamento dei docenti: ritorno al vecchio per svecchiare

di Maria Luisa Jori

Credo che concordiamo tutti -soprattutto  vari esperti dell’educazione e   utenti della scuola  in quanto studenti e relativi genitori- sulla necessità di formare insegnanti adeguati, nelle conoscenze disciplinari e nelle competenze didattiche e psicopedagogiche, a una scuola   capace di rispondere alle necessità formative delle nuove generazioni  nella complessità del mondo moderno.  Per questo, fin dall'inizio degli anni Novanta anche in Italia, si era introdotta una legge sulla specializzazione all'insegnamento presso le università (L. 341 del 19 luglio 1990), sul modello dei sistemi di formazione docenti dei maggiori Paesi europei.  Si era reso ormai evidente infatti il fatto che il reclutamento degli insegnanti attraverso il solo concorso da tempo non assicurava più l’immissione nella scuola di docenti preparati professionalmente a rispondere ai bisogni diversificati dell'utenza attuale.

Con le Ssis (Scuole inter-ateneo di specializzazione per gli insegnanti,  istituite in Italia a opera della suddetta L 341/1990 “Riforma degli ordinamenti didattici universitari”) si  era sperimentato dal  1999 al 2009 come l'efficacia della formazione iniziale  dell'insegnante  dipenda dalla  collaborazione che si riesce a instaurare  tra università e scuola: da una parte l'insegnamento puramente accademico disciplinare e trasversale (riservato alle   analisi settoriali e teoriche  dei saperi scientifici e pedagogici) è sterile per il neolaureato alla ricerca di modelli  traducibili nella dimensione  scolastica delle conoscenze e della relazione educativa, dall'altra la cultura della scuola e il tirocinio stesso, se autoreferenziali, privi cioè del rapporto con la ricerca scientifica, insegnano ai futuri insegnanti quel bricolage pedagogico e didattico e quell'appiattimento sottoculturale dei contenuti disciplinari che deprivano, fino a vanificarla, la funzione formativa e istruttiva, culturale, della scuola. In seguito, con i governi che si sono succeduti a partire dalla chiusura delle Ssis ad opera della ministra dell’istruzione Mariastella Gelmini (IV governo Berlusconi 2008-2011), fino all’ultima riforma renziana detta della “Buona scuola”, non è stato mai abolito del tutto il tirocinio nella formazione degli insegnanti, pur   minimizzandone e vanificandone i metodi.


In relazione alla "Legge di Bilancio" attualmente in discussione, le Associazioni professionali Anfis, Adi, Associazione prof.le Proteo Fare Sapere, CIDI, Clio ’92, Ddm-Go, Mce, Legambiente Scuola e Formazione, Oppi  hanno rivolto un appello alle Commissioni parlamentari Bilancio e Cultura e Istruzione di Camera e Senato per sollecitare un "cambio di rotta nella formazione iniziale".

Con l’attuale “governo del cambiamento” il Miur a trazione leghista cancella i percorsi di abilitazione post-laurea, quelli che da Luigi Berlinguer fino alla L. 107/2015 (“La buona scuola”), passando per Mariastella Gelmini, erano diventati necessari per «imparare a insegnare». Dopo vent’anni di arruolamento specializzato   nel presente il ministro dell’istruzione Marco Bussetti ha voluto  stabilire  in Legge di bilancio  un più sbrigativo reclutamento   dei  docenti della scuola: mediante il concorso direttamente dopo la laurea, come prima del 1999,  per assicurare sic et simpliciter  quello  svecchiamento   della categoria,  di cui  la nostra scuola, pure  innegabilmente, avrebbe bisogno.   Ma il problema è che tale brutale semplificazione porta con sé un pericoloso  azzeramento  della formazione degli insegnanti, eliminando  del tutto, in ogni sua forma e durata, il  tirocinio.  Così, inevitabilmente,  entreranno  in classe   insegnanti più giovani, che si avvarranno nella didattica di insegnamenti con il vecchio metodo,  basato sull’unico modello   in possesso di tali nuovi docenti, cioè  della  lezione accademica  ex cathedra, ormai ritenuta inefficace per produrre apprendimento nelle scuole di  tutto il mondo. 

Dal 1999 dopo il diploma di laurea (con 24 crediti in materie psico- pedagogiche, in questo caso) per formarsi alla cattedra serviva una scuola speciale (si chiamavano Siss, dal 1999 al 2010, e i suoi cicli formativi,  al costo di  5000 euro, duravano due stagioni,  o un Tirocinio formativo attivo lungo un anno (il Tfa, che costava in media 2.500 euro). Con la semplificazione e l’ordine di Bussetti esce di scena anche il Fit, acronimo per Formazione iniziale e tirocinio, allestito dall’ex ministra Valeria Fedeli per recuperare precari e creare un percorso che in tre anni portava il neolaureato a imparare a tenere una lezione e a relazionarsi con una classe.  Oggi ogni forma di tirocinio viene cancellata, mantenendo   solo un anno di valutazione del servizio, all’interno della scuola in cui si inizia l’insegnamento, come  prima del 1999.   L’obbligo di un certo numero di crediti relativi allo studio teorico di pedagogia e psicologica non può garantire da solo la formazione di quelle competenze  didattiche e relazionali che  costituiscono i requisiti indispensabili della professionalità docente. Chi vince il concorso per  l’insegnamento   potrà dunque scoprire solo in aula che non sa   promuovere l’apprendimento della sua disciplina né gestire una classe.  

Il  tirocinio  significava  per il docente in formazione sperimentare e sperimentarsi in situazione professionale, sia nelle modalità pedagogico-didattiche di docente (stile di insegnamento) sia  negli approcci metodologici al trattamento didattico del sapere disciplinare (in base alla propria concezione del relativo statuto epistemologico). La prima difficile sfida  che  percepisce  l’insegnante novizio rispetto  alle scelte didattiche della disciplina  è sicuramente provocata dai vincoli  imposti dai vari aspetti limitati e limitanti del tempo scolastico.  Chi  si misura per la prima volta con l’insegnamento, fresco di studi universitari, patisce, al primo impatto con la realtà scolastica, la difficoltà dello sproporzionato rapporto tra la vastità delle conoscenze  che costituiscono  la fisionomia stessa della propria disciplina e la ristrettezza inesorabile dei tempi imposti dalla scuola.  Si deve parlare al plurale  delle variabili temporali   che vincolano  l’insegnamento disciplinare   in quanto  oggi la generalizzazione della scuola e il riconoscimento della centralità dell’apprendimento (rispetto a quella del programma) hanno necessariamente moltiplicato le attenzioni e le azioni della didattica  prendendosi appunto i propri tempi. Il tirocinio disciplinare  dovrebbe essere svolto e guidato in modo da far assumere ai  docenti novizi la consapevolezza di questi vincoli  e qualche strumentazione per affrontarli. 

Inoltre una personale attitudine comunicativa e le conoscenze pedagogiche e psicologiche soltanto teoriche  non bastano a garantire a chi insegna sufficienti capacità di interazione (sia con il singolo sia con il gruppo classe) con gli studenti adolescenti in tutte le relative variabili  odierne (sociologiche, psicologiche, patologiche, culturali, ecc.). Recenti fatti di cronaca, riguardanti violenze subite  da insegnanti da parte di certi allievi, evidenziano ancora di più la necessità di formare sul campo, cioè sperimentalmente, le competenze relazionali che il docente deve possedere per poter affrontare  con sufficiente sicurezza le varie dinamiche che possono scaturire  nei rapporti con  i propri  studenti. Non per nulla negli ultimi giorni sono scesi in piazza gli studenti della Link con i dottorati di Adi e i lavoratori della conoscenza della Cgil con la motivazione che: «La semplificazione delle procedure non può andare a scapito della qualità dell’insegnamento».


Credits


Immagine a lato del testo: Demetrio Cosola,  Il dettato  (1891), Galleria civica d’arte moderna e contemporanea di Torino 

Scrive...

Maria Luisa Jori Ha insegnato a lungo nelle scuole superiori; supervisore di tirocinio e docente di didattica della letteratura presso la SSis dell’università di Torino.

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