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20/02/2017

Liberare il futuro

di Maria Luigia Amoroso

Circa il documento dal “Gruppo di Firenze”, sottoscritto dai 600 ricercatori e docenti universitari, in tutta onestà non credo che abbia molto senso rilanciare oggi le ragioni dell’educazione linguistica tout court…
A un attacco del documento, che ha pure le sue motivazioni da riconoscere, non è possibile rispondere con una semplice riproposta della didattica di 50 anni fa. L’occasione andrebbe colta  prima di tutto per chiedersi, alla luce dei fatti e dei risultati ottenuti da chi ha tentato  pratiche diverse, cos’è che non ha funzionato o, meglio, non possa funzionare. La realtà merita di essere indagata, ben aldilà dei suoi indici di gradimento: se occorre, sofferta fino in fondo, come capita quando essa ci costringe a privarci delle immaginazioni più care.    

In breve mi pare che, per quanto avvertiti di un mutamento socio-culturale in atto, abbiamo trascurato un’urgenza di realismo che invece si imponeva. Nel corso di questi quarant’anni in cui molti di noi hanno optato per il rilancio (peraltro, e non a caso, sempre più corto) di un progetto democratico per la scuola, avremmo dovuto dedicare maggiore attenzione/accortezza critica per i sensi di quel mutamento che parallelamente si svolgeva, trascurato nella sua portata e complessità, magari raccolto sotto etichette  approssimative come  “società di massa” o “crisi valoriale”. Una realtà di cui certo avevamo colto l’intuizione iniziale,  ma che a seguire abbiamo lasciato sullo sfondo, incapsulata in un cliché approssimativo che non doveva bastarci: nell’illusione di un controllo o nella sottovalutazione dei suoi sensi più scomodi.  Se così è stato, ciò è avvenuto per diverse ragioni: distratti da un eccesso di fede e passione innovativa precipitata spesso in autoreferenzialità, talvolta troppo concentrati sulle polemiche, pure necessarie per ribadire il nuovo, più di frequente evidentemente impediti dalla stessa difficoltà di interpretare i segni di un processo che coinvolgeva/coinvolge i suoi osservatori, abbiamo continuato a riproporre le nostre giuste modalità didattiche in un habitat di cui però sempre meno concepivamo il reale profilo.
Sta di fatto che questa elusione non poteva non inficiare una proposta che pone come obiettivo la formazione degli studenti, dunque la conoscenza/comprensione, quanto più chiara, della loro  matrice esistenziale e culturale, in definitiva il campo di insistenza delle modifiche attese. A contatto con le differenze dei miei alunni, a  me capita oggi di vivere sulla mia pelle sentimenti di straniamento destabilizzanti, distanze per le quali sento di non possedere strumenti adeguati a ridurle: questo mentre le premesse relazionali del mio lavoro di docente impongono che io stabilisca  canali efficaci di comunicazione: un disagio che raggela, nel quale francamente trovo intorno a me o silenzio o menzogne o, in qualche caso,  alcuni attoniti compagni.

Sto alludendo a una realtà in cui informazioni, esperienze e affetti si muovono velocemente, freneticamente: il più delle volte neanche decifrati, sembrano accontentarsi di combinazioni casuali, sembrano addensarsi in oggetti  che restano esterni a chi li vive, vanificando ogni attitudine alla sedimentazione interiore, ogni costruzione soggettiva e di conseguenza intersoggettiva. Tempo fa al  massimo immaginavamo di dover/poter rinforzare queste premesse, ma farle nascere ex novo o, nel caso migliore, liberarle della scorza coriacea che le avvolge, è ben altro problema con cui urge ormai confrontarci se, alla luce dei risultati, ci chiediamo quali probabilità restino in piedi per fare formazione a scuola. Nel frattempo cresce il paradosso: contro i laboratori e le “lungaggini inefficaci” dell’apprendimento per problemi nelle aule si alzano vere e proprie trincee di resistenza raccolte dietro la bandiera della tradizione; gli stessi alunni, spesso confortati da genitori preoccupati del “programma” standard, sempre più rassicurante man mano che crescono le incertezze e le paure per il futuro, chiedono di “ripetere da qui fin qui”, cioè di stare a scuola a occhi chiusi, cervello spento in modo da non turbare l’oblio in cui versano, pazienti solo delle tappe burocratiche del diplomificio, vera funzione riconosciuta all’istituzione scolastica, pratica di pura strumentalizzazione, deprivata d’ogni finalità. Non è facile stabilire l’entità quantitativa di questo fenomeno: è vero che esso sembrerebbe concentrarsi negli indirizzi scolastici professionali e appartenere maggiormente alle fasce svantaggiate, tuttavia, se la sua matrice è prioritariamente  culturale, se ne ricava una tendenza preoccupante alla trasversalità.

Dunque non è più soltanto questione di metodo ma di una sostanza/premessa mutata in forme che non sono chiare,  un fondo che scompare  e non si sa far rinascere. E non è difficile capire come questa mancanza infici particolarmente il sacrosanto progetto dell’educazione linguistica: come è possibile che l’educazione linguistica attecchisca in un luogo di diffusa refrattarietà al pensiero, in  un’assenza di percezione di sé e dell’altro?  Non è forse la lingua strumento di democrazia,  un luogo critico e dell’interazione?                                                                                                                                                                                                                          Se è vero tutto ciò, ripensare la formazione democratica impone un confronto con questa dissoluzione interna che a mio avviso ingigantisce fino a imporre il problema spinosissimo di  una rifondazione: non credo che sia in discussione il valore della proposta, ma la sua effettiva praticabilità nel contesto in cui essa si innesta e che nel mentre la indebolisce, fino a cancellarne gli effetti.

Come si fa? 
È una domanda fondativa che in un certo senso impone di ricominciare da capo, a indagare in un paesaggio straniero pieno di incognite che è difficile prima di tutto  riconoscere  per quelli che non ci sono nati e che, per di più,  hanno fideisticamente  immaginato ben altri sfondi: occorrerebbero, oltre che un acume speciale, una forza e una tenacia che non sempre si trovano a portata di chi si pone quella domanda e ha vissuto più stagioni sterili.
Certo è che una rifondazione non potrebbe risultare che da uno sforzo che mette insieme più energie, e qui torna un fondamento ridotto a tormentone nella prassi più consumata: la collegialità, la grande chimera in fuga non solo da chi non la vuole, non solo da chi la lascia volentieri avvolta fra i fumi, ma anche da chi la rivendica in tutta sincerità.

Perché?                                                                                                                                                                                         Ancora una domanda assai impegnativa: è chiaro che tentare di rispondere equivarrebbe a ricostruire il percorso scolastico degli ultimi venti anni e sarebbe necessario un congruo numero di pagine davvero improbabili in questa sede. Mi limiterò a centrare un punto davvero semplice e pertanto essenziale che in questi ultimi tempi è per me tema di riflessione, un dato oggettivo eppure, mi pare, trascurato: la collegialità ha bisogno di luoghi e tempi in cui consistere, altrimenti, per quanto invocata in forme più o meno sincere, non si verificherà mai… Finora l’abbiamo soprattutto pensata come vincolata alle scelte dei soggetti che operano nella scuola: tutto verissimo, ma, torno a dire, stupisce la banalità di una premessa cui occorre restituire tutta l’evidenza e la pregnanza. Se prendiamo come esempio la realtà delle scuole medie secondarie, quella che io conosco, la prassi che risponde al profilo professionale prevede tempi di incontro rigidi e ristretti (in molte scuole si pratica la mezz’ora per i consigli di scrutinio). Chi compie esperienze di scambio reale deve pertanto  ricorrere a pratiche di volontariato: tempi non previsti e, spesso, luoghi anomali, esterni alla scuola stessa, accomodamenti precari, forzatamente minoritari e dunque destinati alla marginalità che non modifica alcunché dell’impianto strutturale. Dunque, se occorre una rifondazione della didattica e per questa non si può che procedere per via collegiale, la collegialità deve essere richiesta a gran voce non come un accidente bensì come un fondamento strutturale: conditio sine qua non, necessitante, prima di tutto, di una dichiarazione/legittimazione dei tempi e degli spazi che le sono destinati. Nulla potrà muoversi in questo difficilissimo quadro senza una riforma della funzione docente tale che garantisca la collegialità: il che significa per esempio nuova organizzazione dell’orario (tempo pieno), abolizione della doppia attività, ripensamento dei luoghi di lavoro ecc. Misure urgenti che si impongono, se vogliamo sciogliere contraddizioni inficianti che  l’innovazione stessa porta con sé quando tenta di attecchire. Occorre sviscerare  le ragioni di questa urgenza, badando bene a calcare la relazione fra innovazione e suo concreto contesto che, al di là di ogni esercizio di volontà, di fatto la impedisce: verso una proposta chiara e condizionante di modifiche, torno a dire, strutturali. Di quelle che scuotono le stanze della politica e la costringono a scelte che finalmente diano significato reale ad espressioni come “buona scuola”, oltre l’indegno precipizio delle  illusioni pie e arroganti.
A esempio di rinforzo viene in mente, e solo per un accenno, la menzogna improponibile dell’innovazione del laboratorio individualizzato: come se ne esce, a partire da classi di trenta alunni e da cattedre a incastro che prevedono anche sei, nove insegnamenti? Quante ore di lavoro domestico occorrono per preparare/seguire il percorso di centoventi alunni, in alcuni casi su due discipline (italiano e storia)? Quale estensione si ipotizza per la giornata di lavoro di un docente? Quale prezzo si paga sulla propria qualità di vita a voler oggi affrontare in concreto questa sfida anche solo per la metà degli alunni a cui andrebbe destinata?   Lo dobbiamo chiedere ai politici e lasciare loro tutta la responsabilità di scegliere fra fantasmagoriche miserie o sostanze (per esempio la riduzione del numero di alunni da seguire): a ciascuno il suo.

 A noi la responsabilità, certo, di rilanciare i modi e i sensi a cui abbiamo dedicato una cura e uno studio di decenni, ancora convincenti, ma anche il dovere di chiarirci/additare le contraddizioni da sciogliere, perché il futuro ipotizzato non nasca in catene.

 

Scrive...

Maria Luigia Amoroso docente di lettere nella scuola secondaria di II grado, membro della segreteria del cidi di Pescara

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