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13/06/2018

Chi ha paura degli adolescenti?

di Giuseppe Bagni

Adesso che l’attenzione del Paese si è spostata su ben altre emergenze dovremmo provare a ragionare con più calma su quei comportamenti violenti avvenuti nelle scuole e che hanno monopolizzato per giorni le pagine della stampa.
Non c’è alcun dubbio che i ragazzi che si sono macchiati di atti violenti ripresi in classe attraverso i video debbono essere puniti. Nell'interesse della scuola che deve far rispettare le proprie norme di comportamento, garanzia di rispetto e convivenza, ma soprattutto nel loro interesse.
Va però detto che sono episodi gravi, ma episodi: non fotografano la realtà della scuola, né quella degli adolescenti e delle loro famiglie; il fatto che siano sempre accaduti, anche al tempo delle cabine telefoniche "no-social", non toglie che siano un campanello di allarme che deve far riflettere su quello che sta succedendo.

Purtroppo molto di quello che si è letto, e quasi tutto quello che si ascolta da coloro che guardano la scuola dal di fuori, rappresenta un altro campanello di allarme, a mio parere ancora più grave.
Si percepisce un diffuso rimpianto della scuola dei tempi passati, molto più severa, rigorosa, che non si preoccupava di costruire "ambienti di apprendimento", né di garantire il "successo formativo" a tutti i costi. Era la scuola dei saperi alti, da trasmettere senza i fronzoli delle "didattiche" e le troppe attenzioni all'apprendimento: i professori devono insegnare e gli studenti studiare. In fondo si può portare il cavallo all'abbeveratoio ma bere è affar suo.

Invece è proprio questa la scuola che è entrata in crisi. Come ha fatto notare Alba Sasso sulle pagine del Manifesto, abbiamo assistito a pessimi spettacoli con pochi attori sulla scena e il resto della classe a fare "pubblico". Immagini, cioè, di classi condannate alla passività, abituate ad assistere in silenzio ad una lezione in cui l'insegnante spiega, dà da studiare e poi interroga. La scuola è ancora questo, ancora quella dei nostri tempi. Molti, nella imperscrutabilità del nostro tempo, la rivendicano, riscoprendo il fascino rassicurante di una scuola rigorosa, faticosa, seria, gerarchica.
Come dire: se non hai nessuna idea, almeno rivestila con begli aggettivi. “Quando c’è poco uomo ci vogliono molte camicie“: così risponde il protagonista di “Spider” quando l’infermiera gli chiede perché si fosse messo una camicia sopra l’altra.

Ultimamente si è anche letto che le aule scolastiche non sono la sede propria della democrazia, che i genitori devono restarne fuori e occuparsi dei propri “pargoli” a casa. In fondo, è stato scritto, in ospedale non esiste il comitato dei pazienti. Come se crescere dei cittadini responsabili significasse sottoporli a un lungo intervento chirurgico che non richiede alcuna partecipazione. Lo studente diventa come un paziente che più è addormentato più facilita la riuscita dell’operazione.
Per quali ragioni la riproposta di una scuola di questo tipo risulti rassicurante non è dato capirlo, specialmente considerando che gran parte di quel 71% della popolazione italiana al di sotto del livello minimo di comprensione nella lettura di un testo di media difficoltà è costituita da adulti usciti da quelle scuole dove regnava l’ubbidienza e la passività.
Forse la chiave per comprendere le ragioni di questa regressione sta nella incapacità di comprendere un’adolescenza che chiede di essere studiata con gli strumenti adatti, capaci di coglierne gli aspetti psicologici e le nuove modalità di interazione con il mondo in cui si trova a crescere. Senza alcuna indulgenza o severità preventive.

Ma bisogna smettere di considerare un quindicenne come la metà di un trentenne: non lo comprendiamo se gli applichiamo, appena scontate, le categorie buone per gli adulti. 
Di fatto, molti di coloro che propongono l’alternanza scuola lavoro lo fanno sostenendo che è un utile anticipo del contatto col mondo adulto, senza riflettere che la stessa idea di anticipo è una forzatura dei tempi di sviluppo naturali. Ma dall’altro lato, una motivazione addotta contro questa introduzione poggia sulla considerazione che lo studio è già un “mestiere”, che richiede sforzo, adattamento, accettazione della noia e anche sofferenza.
Due tesi contrapposte, ma che hanno sorprendentemente in comune la scomparsa di qualunque specificità del tempo dell’adolescenza. È sempre uno sguardo adulto che applica categorie adulte. 
Prestare nuovo ascolto alla pedagogia e psicologia dell’età evolutiva sarebbe oggi non solo una scelta saggia ma anche una forma di rispetto doverosa.

L’adolescenza è un periodo della vita difficile, caratterizzato da un cambio di pelle totale, dove “è più quello che si perde di quello che si acquista”, accompagnato da una fragilità che inevitabilmente si trasforma in atti di violenza e di ribellione, che si mostra come inquietudine, incapacità di tenere la concentrazione, perdita di curiosità e disponibilità all'impegno.
Ma non ci minaccia. Se gli adolescenti ci risultano estranei, simili a “stranieri interni” che, secondo Simmel, sono quelli che “non vengono oggi e domani vanno, bensì quelli che oggi vengono e domani rimangono”, comunque rappresentano un’estraneità con cui dobbiamo fare i conti, perché bussa dall’interno delle nostre scuole e ci chiede di essere accettata per diventare la risorsa forse più preziosa.
È un'adolescenza che cresce accanto a noi. Ci guarda e ci rispecchia.

Parole chiave: adolescenza

Scrive...

Giuseppe Bagni Insegnante di Chimica negli Istituti secondari, già Presidente nazionale del Cidi, già membro eletto del CSPI.

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