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27/03/2024

Violenza di genere: come affrontarla a scuola?

di Annalisa Marcantonio

Sul sito di Save the Children, in data 13 Febbraio 2024 sono stati pubblicati i risultati di un sondaggio promosso con Ipsos sul tema della violenza di genere. L’intento era quello di indagare i comportamenti degli adolescenti nelle relazioni sentimentali e sessuali, per avere un quadro dell’incidenza della violenza di genere in quella particolare fascia d’età.

Il sondaggio è stato condotto intervistando 800 adolescenti tra i 14 e i 18 anni (il 63% dei/delle quali ha o ha avuto una relazione intima) con quote rappresentative dell’universo di riferimento per genere, età e area geografica. La metodologia utilizzata è la CAWI (Computer Assisted Web Interview), il questionario è stato somministrato a cura di IPSOS nel mese di dicembre 2023.

I quesiti principali, nelle linee essenziali, erano i seguenti:

  • Come vengono vissute le relazioni sentimentali nell’adolescenza?
  • Quanto sono considerati normali e accettati comportamenti violenti e di controllo e quanto pesano gli stereotipi di genere, anche negli ambienti digitali?
  • Come interpretano le ragazze e i ragazzi il consenso al rapporto sessuale?

Le risposte hanno fatto emergere un quadro sconfortante, che può essere così riassunto. Il 30% degli adolescenti sostiene che la gelosia è un segno di amore e per il 21% condividere la password dei social e dei dispositivi con il partner è una prova d’amore.  Il 17% delle ragazze e dei ragazzi tra i 14 e i 18 anni pensa possa succedere che in una relazione intima scappi uno schiaffo ogni tanto. E in effetti, quando si passa dalle opinioni alle esperienze, quasi uno/a su cinque (19%) di chi ha o ha avuto una relazione intima dichiara di essere stato spaventato dal/la partner con atteggiamenti violenti, quali schiaffi, pugni, spinte, lancio di oggetti. In una dimensione delle relazioni sempre più online, al 26% degli adolescenti che hanno o hanno avuto una relazione è capitato che il/la partner creasse un profilo social falso per controllarlo/a. L’11% di tutti gli intervistati ha dichiarato che le proprie foto intime sono state condivise da altre persone senza il proprio consenso.

I risultati di questa ricerca ci restituiscono un’immagine fedele del mondo degli e delle adolescenti, rispecchiando in larga misura la percezione che io stessa ne ho avuto, nella mia esperienza di docente. Tale convinzione mi ha indotto a fare alcune considerazioni, che cercherò di illustrare. Mi sono chiesta se, nei contesti educativi in cui si trovano adolescenti di entrambi i sessi i docenti si interessino abbastanza dei loro bisogni affettivi e del loro eventuale disagio nelle relazioni tra coetanei. Ho concluso che, nella maggior parte dei casi, nelle scuole l’interesse alla vita di relazioni dei/delle adolescenti è sporadico, riservato soprattutto a momenti di conflitto o forte disagio che possano manifestarsi nel soggetto, più che incidere nel gruppo-classe nel suo insieme. Quando emergono eventuali “inciampi”, nella routine scolastica la tendenza è quella di “risolvere” in modo rapido tali episodi critici, delegando agli psicologi, qualora operino nell’istituto, l’aiuto da fornire ad alunni e famiglie. Gli sportelli di ascolto sono comunque insufficienti e, nella scuola secondaria di secondo grado, “separati” e solo raramente integrati nella vita dell’intera classe. Nella fascia d’età in cui ragazzi e ragazze sono soliti intrecciare frequenti relazioni sentimentali e sessuali, cioè quando frequentano le scuole superiori, l’aula resta "ancora" un luogo neutro, asettico, dove favorire/misurare gli apprendimenti in modo proceduralmente corretto e sistematico, ma dove la relazione educativa non assume una funzione centrale e riconosciuta come importante, al fine di produrre un clima ideale per lo sviluppo e l’esercizio dell’affettività. Se ne potrebbe arguire che gli stimoli formativi ed educativi forniti da molti docenti siano tendenzialmente rivolti ad un/a discente tipo, cui appartengono in modo paradigmatico le caratteristiche e le potenzialità riferibili astrattamente all’adolescente medio. Ma che ne è, allora, dell’individualizzazione dell’insegnamento? Si presta la necessaria attenzione alla biografia di ciascuno e ciascuna adolescente, interpretando le sue motivazioni e sostenendo le sue inclinazioni, al fine di aiutarlo a costruire la sua identità?

Se il compito di individuare i bisogni educativi e di rivolgersi singolarmente ad ognuno e ognuna di loro non viene compiuto sempre e adeguatamente, dai/dalle docenti, quali potrebbero esserne le cause? Ho provato a spostare il focus sugli insegnanti. Sicuramente nel quadro non sono da trascurare dati sociologici come l’invecchiamento medio degli insegnanti e la fatica avvertita soprattutto dalle docenti per le richieste di cura domestica e familiare, richieste non supportate, peraltro, dagli insufficienti servizi sociali a ciò preposti. Se è indubbio, però, che simili condizioni possono contribuire a sottrarre entusiasmo ed energia al lavoro in classe, tutto ciò non libera i docenti dall’obbligo di riflettere responsabilmente su tali criticità e sulle conseguenze che possono produrre sull’efficacia della loro attività professionale.

Basta “ragionare sulle differenze” per cambiare lo stato delle cose?

“Violenza di genere: educare e prevenire a scuola” è il titolo-tipo di convegni, seminari, conferenze in cui funzionari ministeriali esperti, professori universitari, giornalisti e docenti affrontano oggi la questione [1]. Ormai non mancano inchieste e abbiamo a disposizione masse di dati che descrivono il fenomeno in modo riconoscibile. Può bastare agli educatori riconoscere il fenomeno nella sua entità e nelle sue varie manifestazioni, per affrontarlo nella direzione oggi più consigliata, quella della prevenzione? E soprattutto, quali strategie didattiche andrebbero messe in atto?

Entriamo nel vivo dell’ipotesi messa in campo dall’attuale governo per introdurre l’educazione alle relazioni come materia scolastica. Lo sterile e comunque debole dibattito apertosi nel mondo politico sulla proposta del ministro Valditara è un indizio significativo della direzione sbagliata che la questione sta prendendo, anche per il rischio di ideologizzazione che essa comporta. L’ errore di fondo sta proprio nell’intendere la cosiddetta "Educazione alle relazioni o all’affettività" come materia scolastica.

Una questione così delicata e complessa non può essere affrontata né includendo il tema della violenza di genere nelle azioni prevalentemente informative di Educazione alla salute, né utilizzando un approccio prescrittivo o limitato all’illustrazione delle implicazioni del fenomeno sul piano giuridico e normativo.

Sarebbe molto più utile, invece, intraprendere un viaggio nelle discipline scolastiche e nei libri di testo, per disvelare quegli stereotipi sessisti e quei rapporti di potere che hanno legittimato nei secoli la violenza di genere. Sono convinta che affrontare il tema della violenza, per i/le docenti, risulta difficile e qualche volta inutile se non si comprende quanto ognuno di noi sia, a sua volta, profondamente condizionato dagli stereotipi e dai modelli dominanti propri della nostra identità di genere. Dovremmo mettere in gioco noi stessi nel riconoscere che abbiamo subito un costante e progressivo modellamento in vista della costruzione e socializzazione del genere cui apparteniamo. Durante la vita esponenti di vari settori della società, dagli insegnanti, dai genitori, da chi gestisce i media, dai rappresentanti delle istituzioni (esponenti politici, uomini di Chiesa) contribuiscono più o meno a condizionarci in merito al comportamento appropriato per ciascun genere. 

La formula generica dell’informare per prevenire non sembra perciò rappresentare una strategia di per sé vincente. Ho notato con piacere, però, che oggi anche nella cultura maschile si fanno strada interessanti riflessioni che vanno in questa direzione. Ne è un esempio la posizione di Christian Raimo:

Dunque, se qualcosa si è capito nelle questioni sociali di questo rilievo è che l’approccio testimoniale o quello normativo sono delle armi spuntate che riconoscono il problema, ma esauriscono la sua soluzione al massimo in una sua esposizione mediatica, con grandi riti di "shame on you". Che se ne parli non vuol dire che se ne parli con cognizione di causa, ma soprattutto che qualcosa cambi.
Quindi? Quindi proviamo, come si fa nella pratica femminista, a partire da sé. Dicevo che sono un maschio, che sono un maschio educato e non violento, che ha avuto la fortuna di aver avuto una famiglia che gli ha trasmesso il valore della parità dei sessi e della non-violenza e che ha frequentato un ottimo liceo classico pubblico e un’ottima università pubblica. Ora, pur in tutta questa fortuna, mi è chiaro come un cielo estivo che ho avuto un’educazione decisamente filomaschilista. 

Mi pongo due ulteriori domande: se la cultura femminista che cui hanno attivamente partecipato molte docenti abbia aiutato ed aiuti ancora a decostruire gli assi portanti del maschilismo e del sessismo e se le insegnanti già coinvolte nel movimento delle donne abbiano provato concretamente a suggerire alle loro colleghe più giovani un approccio didattico riflessivo e critico, l’unico che permetterebbe di incidere positivamente nella lotta agli stereotipi di genere. Non credo che ciò sia avvenuto spesso, per molteplici ragioni, soprattutto per l’influenza dei vorticosi cambiamenti culturali che, a partire dagli anni ‘80 fino al nuovo secolo, hanno investito il nostro paese e il mondo intero, facendo sì che le istituzioni educative subissero modifiche tali da incidere sulle dinamiche interne.

Il sistema scolastico italiano, da parte sua, rimane uno dei baluardi della tradizione culturale risalente ai primi del ‘900: l’influsso della riforma gentiliana ha lasciato un’impronta ancora forte nei Licei. Soprattutto in questi ultimi, la vigente sistematizzazione dei saperi rende più difficile scalfire nel profondo le caratteristiche residue di una cultura patriarcale, trasmessa e difesa in uguale maniera, spesso inconsapevolmente, dai docenti di entrambi i generi.

Anche quando ci si dimostri attenti a trattare i cosiddetti temi sensibili, penso che il modello più diffuso sia quello emancipazionista. Mi domando se la spinta all’emancipazione (spesso cripticamente contrastata dai media) sia sufficiente ed efficace per guidare le adolescenti nella costruzione della loro identità. Risulta piuttosto facile collocare, nei curricoli delle varie discipline scolastiche, percorsi includenti episodi e tappe delle maggiori conquiste femminili verso la parità: il voto, il diritto al lavoro tutelato, i congedi parentali, l’istruzione fino ai gradi più alti, i diritti civili, con la maggiore visibilità che ne è conseguita nel mondo delle arti, delle lettere, della scienza e, in generale, nei media. L’approccio emancipazionista, che può produrre un sentimento di emulazione e permettere un processo di identificazione con percorsi di successo, può generare però false illusioni nelle ragazze, e sicuramente non necessita di uno sforzo nel superamento degli stereotipi, da parte degli insegnanti. Gli stereotipi che le donne incontrano sulla loro strada, il permanere del “soffitto di cristallo”, vengono spesso mascherati dalle lusinghe di una facile carriera per le ragazze più brave. Sappiamo tutti, però, che il raggiungimento dell’obiettivo non è scontato, che la strada per la realizzazione professionale è ardua e che implica una difficile competizione, nella quale le donne non sono certo favorite.

Conclusione

Per esorcizzare il sentimento di angoscia prodotto dall’ondata di femminicidi ancora in corso e insieme riflettere sulle radici della violenza, tentando avvicinarmi meglio al problema, ho provato a fare qualche lettura, che si è rivelata davvero interessante.

È stato da poco ripubblicato un saggio di Lea Melandri dal titolo “Amore e violenza”. L’autrice, analizza il fenomeno facendo un accostamento tra amore e violenza e ponendo particolare attenzione all’amore “come l’abbiamo ereditato”, cioè in quella forma che induce le donne a stringere “unità a due”, rapporti fusionali a cui seguono spesso strappi violenti. Questo tipo di rapporto, come mostra il sondaggio da cui sono partita, porta con sé la confusione tra amore e odio, rabbia e tenerezza e, secondo l’Autrice, va a rafforzare un tipo di dominio maschile che fa leva sull’affettività e la maternità [2]. D’altra parte, nella visione della psicoanalisi, la diade amorosa ha dentro un forte potenziale di distruttività. L’allargamento della cittadinanza alle donne, il loro ingresso nella polis, per Lea Melandri non avrebbe modificato il quadro, così da mantenere inalterata l’idea di un femminile come mancanza, soggetto debole da tutelare. Quando tale posizione, vissuta come ordine naturale nella famiglia e nella società, è minacciata, il rischio della violenza diviene alto.

La conflittualità insita in ogni relazione uomo-donna è scandagliata in un altro testo uscito recentemente, “Sto ancora aspettando che qualcuno mi chieda scusa” di Michela Marzano [3]. Si tratta di un romanzo di cui è protagonista Anna, giovane donna brillante ed emancipata. Come docente in una scuola di giornalismo, Anna instaura con studentesse e studenti un serrato dibattito intorno al movimento del MeToo, a cinque anni dalla sua esplosione. Ripensa così alle varie relazioni della sua vita, nelle quali non ha subito alcuna conclamata violenza. Risalendo però ad una molestia subita a scuola da bambina, Anna riesce a “nominare” e individuare meglio le proprie manifestazioni di fragilità. La domanda sottesa è: in quali condizioni, da parte femminile, c’è un vero consenso all’atto sessuale, anche quando esso non appare forzato?

Questa e altre suggestioni mi hanno indotto a valorizzare la lettura del testo qui citato, stimolando anche una riflessione sulle potenzialità didattiche del genere narrativo, qualora volessimo accostarci seriamente ad un tema delicato come la violenza di genere.

Note

[1]: Una esposizione corretta e analitica del fenomeno si può trovare qui ad opera di Rossella Ghigi, docente di sociologia all’Università di Bologna.

[2]: Lea Melandri, "Amore e violenza" (nuova edizione), Bollati Boringhieri, 2024 e, in particolare, cap.2: Madri amanti.

 [3]: Michela Marzano, "Sto ancora aspettando che qualcuno mi chieda scusa", Rizzoli, 2023

 

 

Scrive...

Annalisa Marcantonio Ha insegnato Filosofia e Storia nei Licei; fa parte del direttivo del CIDI di Pescara e partecipa alle iniziative di formazione della Società Filosofica Italiana (SFI), sezione di Francavilla al Mare.

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