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13/09/2018

Sulla resilienza e oltre

di Maria Luigia Amoroso

Partecipare al convegno La scuola cancellata? Percorsi di resilienza, tenutosi a Pescara il sei settembre scorso, ci ha consentito una riflessione  ad ampio raggio sui nodi che avvolgono quotidianamente le esistenze di tutti noi, chiamando in causa la passione critica e al contempo i sentimenti. Si sono svolte analisi sul percorso implosivo dell’autonomia scolastica in questi ultimi venti anni, sulla caduta libera cui abbiamo affidato l’esperienza della democrazia divenuta sempre più parolaia, una crisi che peraltro si rispecchia in tutte le istituzioni e che costituisce il tratto più inquietante di questo nostro tempo. Si è parlato dunque di amarezza spinta a  dolore per i fallimenti che ne sono venuti, per il congelamento di un’ idea di scuola che pensava la collegialità e  la ricerca/iniziativa sperimentale come suoi fondamenti. 
Da qui appunto si parte per un percorso di resilienza: urge ormai superare la fase del dolore impotente. Da qui occorre cercare una via d’uscita  coerente con il problema di partenza e tuttavia ambiziosa di futuro.

Proprio questa doppia valenza dell’ obiettivo di certo esclude la soluzione che purtroppo al momento accomuna alcuni docenti ancora pronti all’impegno: “chiudere la porta dell’aula” e in questo confine tentare la propria sopravvivenza professionale. Una soluzione che colpisce intanto per la stessa contraddizione linguistico-concettuale che comporta: chiudere  la porta come via d’uscita.  Una soluzione che abbatte definitivamente  il fondamento della collegialità democratica e che in tal modo polverizza le risorse disponibili per il cambiamento. Sarebbe pertanto doveroso ripensarla.

È  necessario misurarsi opportunamente con un’urgenza ormai ineludibile: mettere in piedi gruppi di docenti che infine attuino volontariamente  i fondamenti dell’autonomia surclassati dal dirigismo dilagante. A ben vedere, la stessa 107 può aprirci un varco in tal senso: sembra fattibile  rivolgerle contro un passaggio “debole” del suo stesso impianto. Ci riferiamo alla formazione caldamente rilanciata dal provvedimento governativo, tuttavia  riemersa come un reperto impigliato nell’intreccio avvolgente degli imperativi tecnologici e delle tensioni competitive,  spolpato  dei suoi sensi “storici”, provvidenzialmente incastrato dentro avveniristiche costruzioni postmoderne, una fioritura di materiali prefabbricati nella veste variopinta di slide e pacchetti orari che sciorinano lo scibile didattico in assenza dei  referenti primari: la classe, gli studenti, in fondo gli stessi docenti ormai pensati come donne e uomini x.

I silenzi ostili che hanno accompagnato la 107 sono stati compensati ampiamente dal chiacchiericcio  di queste “esternazioni” che peraltro non risultano del tutto scevre dall’ombra dellaspeculazione…  Dunque a noi che non accettiamo che la nostra storia venga trasformata in una sorta di artificio illusionistico, un’idiota sospensione del tempo (l’idea antica della  formazione privata dei propri sensi originari), a noi che d’altra parte non  ci decidiamo a “chiudere la porta” tocca l’arduo compito di provare oggi a ritrovare i sensi perduti della nostra storia, tentando di riviverli e di sviscerarne indicazioni per il futuro.

Che significa?
Significa promuovere l’autoformazione come ipotesi mirata a un cambiamento effettivo, possibilmente epurata d’ogni contaminazione carrieristica, di certo smontando la logica dell’addestramento aziendale,  sostituendola con quella della ricerca/azione, per l’appunto  promossa da sempre in seno al CIDI: che si aprano le porte e chi ha ancora una domanda la scambi con quelli che si interrogano come lui; che si cerchino e si tentino ipotesi di soluzione; che si valutino insieme i risultati. Oggi questo è  ancora fattibile dentro la realtà delle scuole, sebbene nessuno lo chieda o ne ricordi la praticabilità. Dunque bisogna volerlo, bisogna farlo rianimando nei collegi la  funzione riflessiva e propositivo/decisionale che a loro appartiene. Consideriamo che, sotto effetto della 107,  l’anno scorso abbiamo assistito a un vero e proprio  pullulare di partecipazioni a corsi di formazione, nonostante le delusioni prodotte perfino sui più entusiasti: impegnare diversamente quei tempi, scegliendo impieghi più sensati, potrebbe risultare un’impresa accettabile, un esempio convincente di resilienza.

Resilienza fine a se stessa?
Questa domanda è cruciale per il fatto che registra un rischio importante. Ci siamo alquanto baloccati per almeno dieci anni (per alcuni l’illusione perdura) intorno all’idea che con la buona volontà dei più impegnati, capaci di comporre esperienze virtuose, avremmo realizzato magnifiche sorti e progressive, in definitiva fidando sulla forza seduttivo/imitativa del contagio. I fatti non ci hanno dato ragione e il buon proverbio ci invita a desistere dalla cocciutaggine diabolica. 
Occorre valutare realisticamente  la portata di questa resilienza, si tratta semplicemente di una  testimonianza contro, significativa, ma non di certo una panacea. Gruppi di ricerca, paralleli alle pratiche eterodirette dagli staff dei “pensanti”,  di fatto aprirebbero i confini del tetragono scolastico oramai reso plumbeo dalla infelice coazione a ripetere che l’ha generato e che lo perpetra, senza dubbio costituirebbero un vulnus importante dentro il  sistema. Ma non possiamo illuderci di poterli considerare risolutivi: non troviamo argomenti convincenti per poter concludere che solo da lì, ossia solo dal basso, potrebbero generarsi  modificazioni strutturali all’interno dell’istituzione.

A questo proposito dobbiamo decidere se ci interessa ancora coltivare un obiettivo alto: la rinuncia è del resto un segno costante di questi tempi. Di qui la crisi della politica che è prima di tutto crisi  di ambizioni di cambiamento, di progetti che sappiano modificare la realtà attaccandola al cuore. E se per caso questa ipotesi interessa ancora noi che abbiamo vissuto le  fervide immaginazioni di fine secolo scorso, l’obbligo che nasce è lavorare a uno sviluppo credibile di questa resilienza in termini, appunto, politici.

Trovare un metodo, una strategia perché le poche o numerose realtà dei gruppi di resilienza vengano osservate/riflettute/perfezionate  da chi riveste responsabilità politiche, da chi possiede il potere  di trasformarle in strutture, per quanto duttili e dinamiche. In questo modo, usciti dal  libro delle fiabe, superati i limiti della testimonianza empirica, i gruppi di ricerca saranno riconosciuti i centri pulsanti di un’istituzione che grazie a loro potrà aspirare a definirsi democratica. E non ci sfugge la complessità di questa operazione che porta a regime lo studio e la ricerca, la passione di migliorarsi puntando decisamente a una formazione impegnativa e permanente. Nel caso, sarà necessario intaccare alcune abitudini consolidate e molte passività, costruendo premesse opportune di contenuto e di organizzazione, ad esempio una riforma dei tempi: il lavoro  del docente  merita di non essere spartito con altri, la collegialità ha bisogno di sviluppi distesi e di compensi coerenti.

Forse un’associazione come il CIDI oggi potrebbe impegnarsi su questo fronte: promuovere esperienze/testimonianze di resilienza,  tracciare almeno le direttive di un progetto politico organico che ne vanifichi le ragioni confermando nuove prospettive, cercando la giusta sintesi fra  i sogni del passato e le miserie della realtà che viviamo, dunque rilanciando  compiutamente nuove possibilità per tutti: verso l’articolo 3 della Costituzione.

 

Scrive...

Maria Luigia Amoroso docente di lettere nella scuola secondaria di II grado, membro della segreteria del cidi di Pescara

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