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27/03/2015

Il lavoro nella scuola

di Caterina Gammaldi

Il Disegno di Legge sulla scuola, ormai pubblico,  consente di fare alcune riflessioni sull’esistente e sulle trasformazioni che interverranno qualora si emanassero tutti i provvedimenti previsti,  con una particolare attenzione a quelle che incideranno sull'identità degli insegnanti quali il nuovo stato giuridico, la stabilizzazione dei precari, il merito e la carriera… 

Scrive Luciano Gallino in Vite rinviate che i lavori flessibili, “il lavoro precario” – anche quello nella scuola, con contratti a tutela crescente fra albi regionali e chiamata diretta-, “comportano costi personali e sociali a carico dell'individuo, della famiglia, della comunità”.  Una prospettiva che, pur riferita ai 100.000 neoassunti -ancora potenziali-, vede coinvolti  anche i cosiddetti garantiti, sempre più invischiati in forme di lavoro aggiuntivo non o mal  retribuito.  
Preoccupa l’impiego massiccio di insegnanti a sostegno del funzionamento dell’istituzione scolastica o impiegati in alcune progettualità collocate  all'esterno della funzione docente (progettualità europea, alternanza scuola–lavoro, riduzione della dispersione, corsi di recupero, incarichi di rinforzo temporaneo ecc. ).
Sarebbe un errore pensare la scuola come un luogo appartato, al riparo da tentazioni "esterne" di un "fai/non fai da te". Non siamo lavoratori atipici, perché specifici di un settore che investe o dovrebbe investire in conoscenza. Il lavoro a scuola, come altrove, sta incontrando sempre più spesso la diseguaglianza, l’instabilità, il disorientamento, l’individualismo. Una consapevolezza tutta interna  alle difficoltà di far crescere nella scuola la comunità professionale; pesano la crisi di rappresentanza democratica e il mancato riconoscimento-valorizzazione del corpo professionale nel suo insieme.  

Gli insegnanti 
Le indagini nazionali e internazionali ci consegnano molti dati da cui sarebbe stato opportuno partire nel formulare la proposta. Così non è stato, ritenendo, come già accaduto in passato, di sapere tutto quel che serve alla scuola e agli insegnanti. A riguardo affronto qui solo una questione, quella relativa al lungo percorso che ha portato a definire il profilo culturale e professionale dei docenti nel contratto collettivo nazionale di lavoro (art. 26 – 29).  Penso sia ancora oggi una scelta opportuna. Quel profilo, in un contratto, esige tutele e -se mai- che si proceda sui terreni dell'unicità della funzione, del reclutamento- formazione iniziale, della formazione in servizio. 

Sono questioni che vanno affrontate parallelamente a quello che definirei il tema dell’identità politico-culturale e professionale di tutti gli insegnanti, indipendentemente se collocati nella scuola dell'infanzia, nel primo o nel secondo ciclo.
Si  tratta di un tema che ripropongo guardando a uno scritto degli anni ’70 di Mario Lodi,  (la famosa lettera a Katia in Il paese sbagliato). Scrive Lodi  di sé  a Katia, ormai maestra un po’ delusa:  “ Ho affiancato l’impegno civile a quello pedagogico”. Un punto di vista che dovrebbe incoraggiarci a non separare, se mai a porre al centro del dibattito e delle scelte, la politicità del nostro mestiere.

Invece  ereditiamo dai governi che si sono succeduti negli ultimi anni un’idea di scuola che spinge l’acceleratore sulla modernizzazione al grido: “L’Europa lo vuole”, una impostazione  che incoraggia a enfatizzare gli aspetti della modernità (le "tre i"), limitando la portata di un mestiere che dovrebbe sempre tenere insieme  politica, cultura e didattica...
Se la politica ascoltasse di più la totalità degli insegnanti (non i testimoni privilegiati, non gli staff del dirigente scolastico, non coloro che partecipano alle convention di partito), coglierebbe  nei vissuti professionali alcune preoccupazioni: le tentazioni dell’applicazione burocratica (moduli da riempire) e dell’addestramento semplificato (prove standardizzate), il bisogno diffuso di  prendersi il tempo che serve (e che non c’è) per la riflessione professionale, per le scelte individuali e condivise.
Un tratto presente nella scuola dell’infanzia, nel primo e secondo ciclo, a cui si risponde con la fretta di chi conosce tutte le risposte invece che con la lentezza necessaria, spesso giustificando le proposte  con le richieste avanzate, sempre più pressanti:  dai genitori, dalla società, dal mondo del lavoro, dall’INVALSI, dal MIUR … . Viene lasciato alla solitudine dei singoli il tema di come intercettare e trattenere tutti i bambini e gli adolescenti, nessuno escluso, nel tentativo  sempre più difficile, a condizioni date,  di abbandonare il modello d’insegnamento trasmissivo a vantaggio di quello cooperativo.  Non possiamo non ammettere che non è ancora consistente la parte di insegnanti che resiste, si interroga, ricerca, condivide con altri la progettualità e le scelte. Se mancheranno le politiche di sostegno al personale, mi sembra difficile che il numero dei competenti aumenti.
Se parliamo poi dei  giovani insegnanti  ormai più che trentenni entrati in ruolo, con i recenti concorsi o che vi entreranno a breve, tutti  dopo lunghi anni di precariato,  diventa importante ricostruire le condizioni di esercizio del nostro mestiere, a partire dal lavoro d’aula.
In questa prospettiva provo a formulare alcune prime non esaustive proposte.

Reclutamento e  formazione iniziale
Non è in discussione il concorso pubblico, se mai  il peso eccessivo del sapere accademico nel percorso universitario e nell’abilitazione all’insegnamento (TFA – PAS – corsi di specializzazione o di perfezionamento,  master  ecc.). Penso che “il sapere della scuola”  non possa  essere relegato, a percorso concluso, a momenti di tirocinio, pure indispensabili, di cui è poco chiaro il senso. La scuola  dovrebbe essere presente, già  dopo i primi tre anni, in quanto istituzione, con  le sue  migliori professionalità,  in modo da poter garantire i necessari contributi che consentano ai futuri insegnanti di riflettere sulla dimensione formativa delle discipline, anche in rapporto alle diverse età della scolarità.  

Ricerca - formazione in servizio
La ricerca-formazione in servizioo, svincolata dalla ricerca didattica applicata, anche se fosse obbligatoria, a poco servirebbe. A tal riguardo penso che le scelte fatte negli ultimi anni  hanno depotenziato il ruolo della scuola nei percorsi di ricerca-formazione; prevale la formazione fatta dall’Amministrazione (centrale e periferica  attraverso i  i nuclei, le reti, le scuole polo, con una ricaduta comunque su piccoli numeri ), dall’Università (a cifra individuale: master, corsi di perfezionamento), dall’INVALSI (fra prove e rendicontazione sociale), da una miriade di enti accreditati o sedicenti soggetti qualificati.
Va riconosciuto  su questo terreno che il confronto interassociativo che aveva dato luogo alcuni anni fa a un pensiero comune ha fatto un passo indietro. Le associazioni stentano a essere luoghi di cura del sé professionale. Avremmo anche noi bisogno di riaprire terreni di ricerca e di confronto, anche a partire dalle dimensione dei crediti professionali, formativi e didattici che fanno crescere la scuola, evitando le derive insite nello stesso concetto di carriera.  Non basta più attestare  la frequenza ai corsi.

Il lavoro nella scuola è cambiato si dice. Forse è solo più nevrotico. Ha smarrito il senso.  Io credo che siamo cambiati noi, un po’ più stanchi e frastornati;  ci lamentiamo del lavoro d’aula (i ragazzi sono cambiati, i genitori poi …)  e, nel contempo, cediamo alle lusinghe degli  incarichi organizzativi perdendo di vista il progetto di scuola, i soggetti,  la relazione educativa.
Non si può essere mentor, tutor, counselor, componente dello staff, funzione strumentale al Piano dell’Offerta formativa,  mantenendo lo stesso numero di ore di rapporto frontale nelle classi.  Il piano organizzativo va sempre distinto da quello pedagogico–didattico.

 Alla proposta di valutare gli insegnanti   penso che possiamo rispondere proponendo  di valutare l’insegnamento, non i singoli insegnanti. La premialità individuale non ha mai avuto una ricaduta sulla qualità della scuola, e poco cambia nelle pratiche educative e didattiche e nei modelli organizzativi se i singoli percepiscono  qualcosa in più per questa via.

Sono idee e proposte, domande  che sollecitano risposte per un mestiere che amiamo e sentiamo impoverirsi.

Scrive...

Caterina Gammaldi A lungo docente di scuola media; già componente del CNPI

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